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uaderni de La Scaletta

Perchè gli uomini creano opere d’arte? Per averle a disposizione quando la natura spegne loro la luce

Elogio dell’arte

Affine e alieno

La fatica di cercarsi nell’arte e l’insidia della “bellezza” nelle politiche culturali

Una certa vulgata vuole che le opere d’arte siano fatte per comunicare, per gettare ponti verso le nostre emotività e commuoverci. Per portare a galla un livello – in verità non troppo insondabile – della nostra suscettibilità spacciata per sensibilità, e darci l’alibi per mettere da parte congrui pudori nell’espressione di una sgrammaticata emozionalità.
È per esempio la vulgata che consente alle istituzioni, anche le altissime istituzioni dello Stato, forti di un ampio e facile consenso, di operare con l’arte nello spazio e negli spazi pubblici in una maniera spesso spudoratamente strumentale e affabulatoria, agganciando talvolta il senso di necessità di un’azione a una generica comune percettibilità di “bellezza”, o alla facile risposta dei pubblici che consentono l’inattaccabile riscontro dello sbigliettamento, o a questioni di carattere sociale – la cosiddetta “sensibilizzazione”, arte a tema come si trattasse di uno strumento efficiente del welfare. È l’arte che comunica, l’arte utile, l’arte che interessa alla gente.
È l’arte che ci emoziona. Di che altro abbiamo bisogno? È la garanzia di una delle più alte e nobili facoltà dell’umano. E se invece fossimo preda di una fatale mistificazione e ci stessimo perdendo qualcosa di ben più importante?
Non che questo non accada anche nel privato, ma in quel caso non avremmo ragione di rivendicare la conservazione di un interesse pubblico che è costituzionalmente in capo alle responsabilità delle istituzioni. Sul fenomeno specifico delle mostre d’arte fagocitate dal sistema di consumo culturale, da segnalare è il fortunato pamphlet un po’ barricadièro di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione dal titolo Contro le mostre (Einaudi, 2017).
In questa sede preme far notare invece come una politica culturale che si avvale di azioni generiche che non si scomodano a enunciare un proposito interno alle grammatiche dell’arte su cui essere soppesate, appoggiandosi a criteri esterni e aleatori (la bellezza), o strumentali (il welfare) o di remuneratività (gli introiti), è una politica che non ha più nulla a che fare con le sovraordinate esigenze dell’arte. Un’arte per cui non si auspica certo uno scollamento dalla realtà, l’arte per l’arte – tutt’altro, il nemico è l’inoffensivo generico – quanto piuttosto la libertà di non essere efficiente, efficace e programmatica in relazione alla stretta contingenza, all’attualità o alla cronaca, alla connotazione di un mandato elettorale o alla risposta di un pubblico commisurato alle dinamiche del consumo.
Beninteso: le due componenti non sempre sono complementari: non si può fare questo e pure quest’altro, perché la connotazione della modalità operativa di un’istituzione che si occupa dell’interesse pubblico per l’arte è anche l’impostazione di un frame cognitivo, di una postura di fruizione, di un’aspettativa di senso. Né si comprende se l’interesse pubblico per la cosa artistica possa essere così miope e accessorio da essere sottoposto a revisione di efficienza sociale o economica come si trattasse di una funzione civica qualsiasi, come il sistema di raccolta dei rifiuti o il funzionamento dello spid.

Fu il filosofo Thomas S. Khun (per esempio in La tensione essenziale, Einaudi, 2006) a evidenziare come una caratteristica comune all’arte e alla scienza sia il fatto che entrambe per progredire abbiano bisogno della libertà di infrangere periodicamente i propri paradigmi. Si pensi alla teoria della relatività o alla meccanica quantistica e alle resistenze che hanno generato nei rispettivi ambienti disciplinari. Se nell’arte questo fatto è consustanziale, nella scienza, intesa erroneamente come roccaforte delle certezze, risulta ancora talvolta controintuitivo. Una libertà di sconfinare e di contraddirsi che non è però, evidentemente, negazione del costrutto e del metodo.
È il principio per cui, per esempio, le grandi aziende si avvalgono dei processi e dei metodi dell’arte per intravedere tracciati futuri e invisibili per lo sviluppo della propria presenza sui mercati futuri: in questo caso l’arte può non essere strumentale, perché se l’arte fosse piegata al contingente perderebbe la propria capacità di infrangere lo status quo – esattamente la caratteristica ricercata da queste aziende. Trasponiamo ora questa necessità di rinnovamento delle visioni nella sfera delle politiche pubbliche, e ci renderemo facilmente conto di come un’arte che vende, compiace, obbedisce, conferma è un’arte che non risponde al primario interesse sociale di prepararci al futuro, di aprire prospettive inattese, di prefigurare scenari ipotetici, anche i meno gradevoli o auspicabili verso cui più dovremmo prepararci. Metodo e costrutto volti sì a uno scopo, ma nelle grammatiche interne dell’arte: nel venture capital dell’arte non c’è modo di prevedere efficienza e utilità, di programmare applicazioni e follow up. E tuttavia campeggia sul fregio del Teatro Massimo di Palermo l’eloquente iscrizione «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire».

Dobbiamo quindi abituarci a non avere alcuna relazione emotiva con l’opera d’arte? Tutt’altro. Semplicemente questo rapporto di affinità si muove su direttrici che sono spesso inaspettatamente indirette e controintuitive, e che si muovono sempre, necessariamente, attraverso la conoscenza. Faccio alcuni semplici esempi. Quando siamo in un ristorante in cui si pratica sperimentazione culinaria, il cameriere è tenuto a spiegarci cosa abbiamo nel piatto e in che modo mangiarlo, perché solo attraverso queste informazioni e queste procedure saremo in grado di metterci in cerca dei diversi livelli del gusto, delle consistenze, delle temperature che sono essenziali alla fruizione di quel genere gastronomico, altrimenti facilmente bollabile come velleitario e inconsistente.
Oppure, per restare nel campo dell’arte visuale: quando ho la necessità di far intuire a platee generaliste o a studenti come funziona la connotazione di valore semantico di un’opera d’arte contemporanea particolarmente afona, spesso dico che se mostrassi loro un orologio dicendo di averlo acquistato poco prima presso il gioielliere all’angolo, quell’oggetto non avrebbe per loro alcun interesse; se lo stesso oggetto, perfettamente identico sul piano formale, diventasse l’eredità di un nonno che lo aveva tenuto nel taschino nelle trincee della Seconda guerra mondiale, immediatamente lo stesso identico oggetto articolerebbe altri significati: l’irrimediabilità dello scorrere del tempo, la ciclicità delle condizioni della vita, l’aspirazione a “misurare” l’ineffabilità degli affetti che svaniscono, la precarietà dell’orizzonte umano. Solo la conoscenza del retroscena (in questo caso di carattere banalmente narrativo) attiva alcune delle facoltà di significazione dell’oggetto come reperto di un’azione, un processo, un accadimento significante.
La conoscenza diventa quindi il reale mezzo attraverso cui tessere relazioni con l’opera, così come, in verità, con qualsiasi altra cosa del mondo. Ed è questo il solo valore educativo dell’arte: l’allenamento all’empatia, alla comprensione del controverso, alla sospensione del giudizio. Sapere qualcosa di Freud e Marx ci consente di solidarizzare con Zeno Cosini quando dimentica di andare al funerale del cognato Guido. Essere al corrente dei fraintesi di Winckelmann sul classico ci consente di non etichettare come inemendabili cafonate le finte sculture antiche dipinte con il rossetto a casa di D’Annunzio, al Vittoriale. Essere inciampati in Le Corbusier, Breuer o Ridolfi ci consente di provare un piccolo dispiacere perfino nell’abbattimento delle Vele di Scampia. O l’intuizione di un dolore ci consente di non essere scontrosi verso un amico che è diventato inaspettatamente respingente.
Una conoscenza che non è facile, naturale, automatica come vorremmo fosse la relazione con un’opera d’arte, ma che è in grado di fornire non solo i codici per decifrare i sensi – azione che è fatalmente destinata a restare incompiuta quanto continuamente necessaria – ma anche di aprire recettori del piacere altrimenti preclusi. Ma si tratta di un piacere che, come è ormai evidente, non passa per un generico senso della bellezza, quanto piuttosto attraverso sentimenti controversi, anche di disgusto, ripulsa, rifiuto, dolore, malinconia.
Si potrà dire: «è fatto di gusti». Non è così: è fatto di gusto. I gusti sono opinioni, il gusto è una disciplina che affonda la propria grammatica nella costruzione collettiva della cultura.

Quando un visitatore sprovveduto entra in un museo e si sente circondato da oggetti estranei e minacciosi, la comprensibile reazione di autodifesa è la svalutazione di quanto vede, o la pretesa che quanto vede si metta al suo livello. Si ingaggia poi la dinamica suicida per cui tutti sono moralmente tenuti a essere fruitori d’arte, anche se magari nella vita trovano legittimamente più appassionante andare per funghi, o magari si interessano ad altissimi livelli di neurochirurgia infantile. Immaginiamo cosa accadrebbe se io fossi moralmente tenuto a interessarmi di neurochirurgia infantile, e non capendone nulla pretendessi di abbassarne il livello a ciò che sono capace o disposto a intendere, e che la mia pretesa, fattasi massa e consenso, fosse in grado di influenzare le politiche nazionali sulla sanità e il livello disciplinare del settore: una follia, giusto?
Si aggiunga l’elezione del turismo a ultima risorsa dei nostri piani di sviluppo, per cui i musei e gli operatori dell’arte sono tenuti a contribuire al sostentamento di case vacanza e ristoranti che continuano a devastare lo statuto civico delle nostre città e a impoverire competenze e produttività dei territori. Ecco che, se il cliente ha sempre ragione, allora il mutismo di quell’apparato dell’arte diventa il nuovo nemico del popolo.
Non si tratta necessariamente di istanze illegittime. Ma non bisogna prendersi in giro dicendosi che la risposta a quelle istanze è la sola funzione didattica, magari adeguatamente commisurata e strutturata, come è ovvio e necessario che avvenga, e come è opportuno pretendere da una funzione civica.
Se semplicemente assecondate nel sonno della politica, sono istanze che possono generare soluzioni fuorvianti: col tempo le risposte di una classe intellettuale, anche talvolta in buona fede ma spesso in cattiva coscienza, hanno saputo generare musei, critici, curatori, politiche accondiscendenti e demagogiche; o inganni “esperienziali” come le stanze immersive in derivazioni ambientali dei dipinti più celebri della storia, da cui non imparare assolutamente nulla se non un po’ di facile aneddotica; o i disfunzionali e retorici musei multimediali in cui la tecnologia soverchia quasi sempre il “senso” cognitivo conferito dall’interazione; o la decerebrata accondiscendenza alla formula del murales in ognuno dei nostri piccoli paesi come estremo e fallimentare strumento di connotazione ed emancipazione, se non addirittura come «volano di sviluppo»  (sic.) o «rigeneratore urbano» (sic.) desunto da desolate periferie delle megalopoli del mondo (dove pure sono stati inefficaci o dannosi) che nulla hanno a che fare con i nostri contesti. Risposte compiacenti e confermative che producono vane illusioni e danni irreparabili a lungo termine, specie lì dove limitatissime ultime risorse – non solo economiche – vengono scialacquate in soluzioni stereotipate ed elusive, in coda a una curva demografica che nonostante tutto non vuole saperne di cambiare segno.
Se dopo sessant’anni in Basilicata – la regione italiana oggi con la più alta dispersione idrica – beviamo ancora l’acqua delle dighe costruite quando una classe politica ebbe capacità di leggere un contesto e operare una visione, tra meno di vent’anni lo scenario certo è la scomparsa di decine di interi nuclei urbani, fregiati però di tracce di murales scrostati e di musei multimediali generalmente non arrivati in funzione al quinto anno di età: la lista dei musei multimediali inattivi e malfunzionanti in regione, che tengono in ostaggio luoghi di pregio sottratti alle comunità, sarebbe impietosa se non crudele.

Una delle facoltà dell’opera d’arte è quella di essere irrimediabilmente altro da noi. Un oggetto (o un accadimento, un’azione, un segno, un ente) alieno, spesso cocciutamente silente, repellente, respingente, irriducibile alla facile empatia e al sollazzo. È con quella presenza spaventosamente muta, inquietante, che bisogna misurare la forza, e la volontà di lanciarsi in un’operazione di tessitura di affinità. Esigere semplicemente che sia essa a venirci incontro, a mostrarsi affabile e ruffiana, è quasi sempre la ricetta per sterilizzare ogni opportunità di cavare qualcosa di utile in quell’irrimediabile contrappunto alla nostra vita biologica.
È nella fatica dell’interrogazione di quel mutismo che nasce la possibilità di una relazione, perché siamo costretti a cercare in noi gli strumenti per figurare un proposito, un trascorso e infine un esito nell’arte, che è pur tuttavia un invariabile dell’umano. E qualora non ne trovassimo in noi, rispondersi che in quell’altrove non ci sia nulla da trovare è la negazione stessa dell’umanità.

Donato Faruolo
(Direttore artistico di Porta Cœli Foundation, Venosa)
scaletta_quaderni_2024_09_Felice Casorati, L'attesa, 1919
Felice Casorati: L'attesa, 1919

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