Nell’ottobre del 2016 – ormai quasi un decennio fa – viene annunciato il completamento del processo di «trasformazione, riorganizzazione e riallestimento» di quella che gli italiani, con cocciutaggine, si ostinano a chiamare con l’orrendo acronimo “GNAM”, la Galleria nazionale d’arte moderna ai margini di villa Borghese, a Roma, che per l’occasione verrà ribattezzata “La Galleria nazionale”, e che oggi ha ancora una volta cambiato nome.
Ma un museo – specie se si tratta di un’istituzione dello Stato – non è mai solo un contenitore di opere d’arte, reperti e memorabilia. È anche uno statement, una dichiarazione d’intenti, un dispositivo culturale autonomo che va oltre la sommatoria delle opere per rappresentare il modo in cui una società organizza, mette in gerarchia, cuce con nessi di senso i discorsi che produce su se stessa. È quindi un passaggio estremamente eloquente e chiarificatore di alcune delle posture e delle tensioni che un modello culturale prova a digerire.
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L’operazione della nuova “La Galleria Nazionale”, sotto la direzione di Cristiana Collu, si dà come titolo Time is out of joint, la controversa frase che William Shakespeare fa pronunciare ad Amleto quando il fantasma del padre gli confessa di non essere morto per il morso di un serpente, ma che «il serpente che morse l’esistenza del padre tuo ne porta ora il diadema». Una formula, Time is out of joint, sulla cui traduzione si è dibattuto tantissimo, al punto da essere oggetto delle articolate dissertazioni di Jacques Derrida, che la rendono un emblema dei nostri tempi fuori dai cardini: una frantumazione del senso della cronologia lineare ed evolutiva e di quella condivisione di uno schema che è alla base dell’ordine sociale. Questa immagine diventa rappresentativa non di un frangente storico di instabilità, ma di un frangente storico connotato dall’instabilità stessa e da una continua coabitazione tra passato e presente, pervaso da un senso della crisi che è anche apertura di nuove possibilità impreviste.
Così la collezione del museo, nata e cresciuta dopo l’Unità d’Italia con l’intento di mostrare, conservare e scrivere la storia dell’arte che era contemporanea a quel mondo, subisce una delle sue epocali e programmatiche riorganizzazioni, rinunciando per la prima volta – e definitivamente? – a una classificazione più o meno cronologica per favorire nuovi nessi di senso che meglio rappresentino il modo in cui guardiamo, produciamo e rinegoziamo i significati delle opere d’arte nella conversazione collettiva.
Quindi un Giove neoclassico (1838) di Pietro Galli può stare accanto a falce e martello, Hammer and sickle (1977), di Andy Warhol; una selezione di gessi della gipsoteca sono adagiati su un tavolo quasi da laboratorio sotto lo sguardo degli uomini di profilo dell’Ultima cena (1965) di Mario Ceroli; lo Scontro di situazioni M.4 (1959) di Emilio Vedova si staglia sullo sfondo dei cani in lotta di Underdog (2005) di Liliana Moro, ma basta cambiare punto di vista e le loro figure si muovono sul Grande Rosso P. n.18 (1964) di Alberto Burri.
Le immagini-icona di questa operazione sono però altre due: Ercole e Lica (1795 – 1815) di Antonio Canova cui fa da sfondo dell’enorme fregio di Giuseppe Penone, Spoglia d’oro su spine d’acacia (2002) e che si riflette sui 32 mq di mare circa (1967) di Pino Pascali; oppure i grandi leoni di bronzo di Davide Rivalta che scorrazzano sulla scalinata monumentale del museo, con il motto dell’operazione disteso sui gradini come una forma di archigrafia tutta da riconsiderare.
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Indubbio che l’operazione abbia creato innumerevoli occasioni di risonanza poetica tra opere vertiginosamente distanti per contesto di produzione, per intenzioni, per qualità formali. Quei vuoti e quei sobbalzi – nello spazio espositivo, nella linea del tempo e nel nesso tra le opere – sono vuoti incredibilmente fecondi. Benché, in effetti, determinino dichiaratamente solo una delle configurazioni tra le mille possibili, scelta necessariamente con una forma di arbitrio non misurabile né soppesabile secondo criteri negoziati: «[…] con un vero e proprio montaggio, con la parzialità che ogni scelta e ogni selezione porta con sé, fa precipitare il tempo storico cronologico, anacronizza passato, presente e futuro, ricostruisce e fa decantare un altro tempo, mentre mette in evidenza intervalli e durate, riprese e contrattempi».
Tante le critiche che hanno occupato il dibattito nei mesi e negli anni successivi, mostrando in quel ricercato strappo altri elementi di vitalità del museo come organo sociale. Prima fra tutte le obiezioni, la cancellazione di uno dei motivi centrali e strategici di esistenza di quel museo, che nel novero del sistema museale pubblico serviva a storicizzare nel suo farsi l’arte di un presente che fu cruciale per la Nazione. Un po’ come rinominare a Rita Levi Montalcini una piazza Garibaldi: operazione utile, interessante, feconda e necessaria, ma probabilmente si può fare altrove, senza la necessità di sacrificare un pezzo di memoria che è esso stesso patrimonio. Inoltre, si rileva una volontà di internazionalizzazione che ha efficacemente allineato il museo a standard e grammatiche espositive contemporanee, affievolendo però la specificità e l’unicità della Galleria, che finisce con l’apparire non troppo dissimile da un omologo museo di Basilea, Philadelphia o Canberra. Ancora: la parziale sovrapposizione di funzioni, metodi e strumenti con il MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, che era in origine stato pensato come sua naturale prosecuzione. Altro punto: nella necessaria e strutturale arbitrarietà delle scelte museografiche si provava a dimostrare non troppo implicitamente come ogni musealizzazione parta da assunti che possono essere condotti a un livello di questionabilità.
Ma esistono mille modi di aprire parentesi di inatteso anche nelle strutture più storiograficamente rigide: sperimentatissima è la prassi della mostra nella mostra, con l’intrusione di un livello temporaneo che corre negli interstizi del permanente; ma ci sono molteplici analoghi strumenti digitali, cartacei, di wayfinding e information design, o addirittura architettonici, che consentono, nella matrice data, di creare reti di sensi sempre diverse, secondo parametri di volta in volta più o meno rigidi e fondati, senza per questo cristallizzarne uno che faccia coincidere il discorso di una mostra con quello del museo. Infine: lo smantellamento dell’opera Passi di Alfredo Pirri dopo appena cinque anni dalla sua realizzazione, site specific e su commissione ministeriale. Un pavimento di specchi in frantumi che sfondava il pavimento dell’aula di ingresso, con adagiate – o scagliate? – sulla superficie una serie di sculture ottocentesche provenienti dai depositi e private dei basamenti.
I piedi del visitatore camminavano quindi sulla medesima superficie spiazzante su cui poggiavano pulviscoli di una collezione flebilmente connessi da un discorso potenziale, il tutto in equilibrio sul doppio capovolto del nostro mondo, oltre le crepe della superficie che ci teneva a galla senza negarci la vertigine. Una ritualizzazione del gesto dell’entrare in un museo che costringeva a rinegoziare la propria posizione come punti di vista definitivi alla fine di una parabola di affinamento dello sguardo e del gusto.
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Al di là delle teorizzazioni e delle rappresentazioni più o meno coscienti e ideologiche di come si abiti il tempo al tempo presente, la vicenda collettiva, sociale e dialogica, come un lapsus freudiano, rivela molto di quali e quante ansie si concentrino nell’atto di tracciare linee di percorribilità della storia e della memoria. Curioso che in questa prospettiva l’opera di Pirri mostri accidentalmente gli aspetti di assertività e sicumera in un’operazione come Time is out of joint, che si presentava e si proponeva come l’esatto opposto degli impianti normativi e gerarchici ma mostrava al contempo un atteggiamento dirigista e interventista. Comunque la si pensi, l’episodio resta emblematico di quanto il tema e la sua rappresentazione restino un filo scoperto nella definizione dello spirito del nostro tempo.
Conviene ricordare che il padre spirituale di qualsiasi operazione di esplorazione sincronica del tempo dell’arte – e quindi degli umani – è considerato Aby Warburg con il suo Atlante Mnemosyne (1924 – 1929): in 63 tavole, lo storico dell’arte conduce esperimenti di esplorazione non lineare dell’immaginario culturale, mescolando arte, antropologia, arti applicate, pubblicità e pezzi vari del quotidiano.
Nell’opera, da tempo considerata più artistica che tecnico-critica, prova a dimostrare la presenza di invarianti del visuale che raccontano di una vita simbolica capace di attraversare i secoli, di riemergere sotto forme diverse e di legare esperienze e culture lontane nel tempo e nello spazio. È il prototipo di ogni azione di riconnessione non cronologica dei sensi dell’arte.
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Rilevante anche il lavoro di André Malraux con il suo Musée imaginaire: tra gli anni ’50 e ’60, prima di diventare ministro per il governo De Gaulle, Malraux sviluppa riflessioni su come la riproducibilità fotografica dell’arte consenta un’esperienza rivoluzionaria del visibile e del visuale. Ognuno di noi, con fotografie, libri, cataloghi e diapositive, raccoglie quindi atlanti di immagini che non sono solo riduzioni povere di referenti con un’aura, ma entità che vivono di una loro vita autonoma, diventando aggregati di immaginari singolari, e quindi, a tutti gli effetti, delle esperienze di museografia più o meno domestica e privata.
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Questa attitudine all’attraversamento non gerarchico delle tassonomie della storia e della memoria è ormai uno dei presupposti delle pratiche curatoriali e museografiche, che vedono in questa erranza quell’apertura di potenzialità indicata da Derrida quando si trova a constatare la strutturale eccedenza delle dimensioni del passato e del futuro nel presente, con anticipi e reminiscenze, persistenze e proiezioni. Il passo successivo e inevitabile è l’apertura della categoria di “opera d’arte” a oggetti o fenomeni che vengono significati con traiettorie linguistiche affini a quelle con cui attribuiamo valori all’arte, sfuggendo alla sfera puramente materiale, funzionale e quantitativa.
Pensiamo per esempio alla mostra della Biennale di Venezia del 2013, curata da Massimiliano Gioni e intitolata Il Palazzo Enciclopedico: il titolo è mutuato dal progetto di tale Marino Auriti, non-artista autodidatta italo-americano che nel 1955 aveva depositato presso l’ufficio brevetti il suo progetto di un palazzo che raccogliesse tutti i saperi dell’umanità, non solo nella forma di contenuti editoriali, ma soprattutto nella forma delle «più grandi scoperte del genere umano, dalla ruota al satellite».
La Biennale accoglie allora il modello di questo palazzo cui Auriti lavorò per tutta la vita: un enorme plastico che è la proiezione di un edificio di 700 metri e di 146 piani dall’architettura magniloquente e utopica – e allo stesso tempo distopica e inquietante – che ricorda tanto l’architecture révolutionnaire di Étienne-Louis Boullée quanto i peggiori incubi – non solo architettonici – di stampo sovietico.
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Entrano quindi in mostra tutta una serie di oggetti bizzarri e insoliti, non sempre nati con l’ambizione di divenire opere d’arte, ma cui come umani conferiamo un particolare potere immaginifico e un valore di proiezione di fondamentali aspirazioni e prerogative antropologiche. Per esempio, la mostra si apre con Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung, l’opera che lo psicologo illustra a mano per più di sedici anni con l’intento di documentare e visualizzare le proprie visioni autoindotte; oppure i 387 modellini diversi di case in miniatura che l’impiegato austriaco Peter Fritz costruì con scatole di fiammiferi e ritagli di giornale. Outsider art, certamente. Ma anche il seme di qualcosa di più insidioso e sottile, di più liminale e incerto rispetto, per esempio, a quel tipo di attenzione verso il popolare e la residua cultura materiale che ha interessato anche la Basilicata negli anni ’70, con l’emergere dell’attenzione per personaggi come Vito Cerabona, l’artista bovaro che intagliava figure sacre e agresti nel legno con un segno primordiale e di raffinata complessità al contempo.
Spingiamoci oltre. Maria Rosa Sossai, figura che si muove tra la curatela, l’accompagnamento di processi sociali e la regia di impianti espositivi dialogici di chiara qualità artistica, nominata responsabile scientifica del Dipartimento progetti partecipativi del Museo Civico di Castelbuono, realizza nel 2020 La stanza delle meraviglie. 120 anni prima i cittadini di Castelbuono si erano autotassati conferendo beni propri e quote di produzione agricola per partecipare coralmente all’acquisto del Castello dei Ventimiglia che è ora sede del museo. Nell’ambito delle celebrazioni di questo anniversario, la curatrice allestisce una grande wunderkammer in cui confluiscono 300 oggetti prestati dalla cittadinanza secondo standard chiaramente desunti dall’arte e che alla sensibilità per l’arte provano – efficacemente – ad attingere: una rappresentazione multiforme e aperta delle tante vie attraverso le quali conferiamo un valore culturale a un oggetto, sia esso di interesse individuale, emotivo, collettivo o storico.
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Chiudiamo con una deriva anti-cronologica che finisce con il dare forma a un’architettura, cioè alla più stabile, duratura e costosa delle determinazioni umane in forma artistica, e quindi a quella che dovrebbe essere maggiormente ponderata, negoziata e – anche accidentalmente – socialmente rappresentativa. Il Boijmans Van Beuningen depot, progettato dallo studio MVRDV, è un deposito d’arte progettato per essere accessibile e trasparente, l’esatto opposto di cosa ci si aspetterebbe da un luogo che dovrebbe garantire riparo a lungo termine per oggetti che per definizione si suppone non essere esposti.
Parte del Museumpark di Rotterdam, è disegnato per rendere visibile al pubblico non solo la conservazione, ma anche il restauro, l’imballaggio e il trasporto delle opere in esso contenute, contraddicendo la prassi secondo cui solo il 6-7 percento delle opere che sono parte della collezione di un museo sono realmente fruibili. Un approccio gioiosamente e fertilmente paratattico: in esso si alternano senza nessi né storici, né tematici, né formali una serie di oggetti spuri ed eterogenei che nella loro giustapposizione offrono la possibilità di produrre nessi di affinità su una molteplicità di altri piani.
Ma il presupposto che si tratti di un deposito che produce un discorso nuovo e complesso sull’operazione stessa del conservare, e non sulla scrittura storica nel suo farsi, evita che l’operazione appaia debole nel ridimensionamento dei propri propositi e dei propri assunti critici, e l’operazione di fluidificazione del discorso museografico acquisisce sfumature processuali organicamente coerenti con gli intenti enunciati.







