La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;
e ’l rimembrare et l’aspectar m’accora,
or quinci or quindi, sí che ’n veritate,
se non ch’i’ò di me stesso pietate,
i’ sarei già di questi pensier’ fora.
Tornami avanti, s’alcun dolce mai
ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.
Questo sonetto, il 272 del Canzoniere, ci mostra come la poesia sappia abitare ogni tempo, anche il nostro, e quanto la parola lirica possa attraversare i secoli per toccare questioni che ci riguardano ancora, profondamente. La morte di Laura, per Petrarca, diventa il momento in cui la coscienza si apre a un’interrogazione esistenziale feroce: dove sono andati il tempo e le energie spese dietro a ciò che passa, a ciò che non salva?
La vita fugge, corre, non si arresta nemmeno per un attimo, e la morte la insegue, non a passi lenti, ma “a gran giornate”, come un esercito incalzante. Il poeta, schiacciato tra memoria e attesa, tra ciò che è stato e ciò che sarà, vive ogni tempo come conflitto: il presente, il passato, il futuro, tutti combattono contro di lui. E se non fosse per quella fragile pietà di sé che ancora lo trattiene, l’io sarebbe già fuori da ‘questi pensieri’, cioè avrebbe già abbandonato questa vita. La meditazione sul tempo, che Petrarca raccoglie dalla lezione latina e cristiana del ‘Tempus fugit’, qui assume una forma radicale e modernissima: non è solo il tempo a sfuggire, è l’uomo a essere trascinato da esso, a perdersi.
Ma proprio in questo perdersi si apre la possibilità di una riflessione che ci tocca da vicino. Anche oggi, nel nostro tempo iperconnesso e frammentato, la vita sembra consumarsi nella corsa. Ogni giorno lottiamo con un presente che non riusciamo a vivere davvero, distratti da un continuo bombardamento di stimoli: messaggi che ci inseguono, immagini che scorrono e spariscono. L’angoscia del tempo che sfugge, che non lascia presa, che non si lascia vivere, è la stessa. Notifiche, feed infiniti, ore spese in scroll compulsivo di contenuti che non insegnano e non cambiano nulla sono le nuove cose vane dietro alle quali, come l’uomo medievale, perdiamo noi stessi e il nostro tempo.
L’immagine finale del sonetto è quella di una barca in tempesta, con il nocchiero stanco, gli alberi e le sartie spezzate, e i lumi (metafora degli occhi di Laura), che orientavano il viaggio, ormai spenti. Questa raffigurazione di un uomo alla deriva, senza più consapevolezza della propria direzione, smarrito, ci colpisce per la sua modernità: quante volte ci sentiamo così, sopraffatti da richieste continue, stanchi di dover produrre, rispondere, essere presenti ed essere ‘visti’ sempre e ovunque? Quante volte la nostra navigazione sembra perdere il proprio giusto corso, scossa da venti contrari, mentre il tempo ci sfugge e dimentichiamo chi siamo?
Eppure, in questa malinconica disperazione, il testo indirettamente ci suggerisce una possibilità, quella della consapevolezza: rispettare la vita è anche rispettare il proprio tempo. È, soprattutto, riconoscere quando lo stiamo sprecando. E questo significa, oggi, imparare a dire dei no, a recuperare spazi di silenzio, a coltivare l’attenzione, la lentezza, la profondità. È scegliere che cosa guardare, che cosa leggere, che cosa amare, in che cosa credere. È avere cura del presente, perché è lì, solo lì, che possiamo ancora salvarci.
In fondo, forse, il modo migliore per ‘resistere’ al tempo è scegliere con cura come viverlo.

