Per intuire quale fosse il carattere di G.E. Rizzo (1865- 1950) ci è d’aiuto la sua introduzione all’introvabile capolavoro librario Saggi preliminari sull’arte della moneta nella Sicilia greca (1938), dove scrisse di averne dovuto ritardare la pubblicazione per l’ampliamento dell’opera determinato nel corso della stessa, così annotando:
“Il manoscritto completo della redazione originaria dell’opera giace nel secreto inviolabile del mio Studio, insieme con altri, condannati al prossimo rogo da un giudice forse troppo severo contro se stesso”.
Di tale severità evidentemente si doleva e si compiaceva al contempo, con quelle bizzarrie temperamentali che è dato talora ritrovare in uomini di grande ingegno e bontà, ma di aspro carattere, come il contemporaneo Enrico De Nicola.
Alla laurea in Giurisprudenza, cui fu indirizzato per una consolidata tradizione familiare, seguì quella in Lettere; ma la metodologia del giurista non gli rimase estranea, per aver saputo egli costantemente analizzare il fenomeno artistico come profondamente ancorato alla sottostante realtà culturale ed economico–sociale; così come il fenomeno giuridico non poteva prescindere da quella interpretazione che il Croce chiamò della Lex cum moribus.
Quello stesso Croce che nel ricordare la Storia dell’Arte greca del Rizzo, la definirà “forse l’opera di più sicuro e netto disegno” in tale materia.
Unitamente ad altri 92 intellettuali, il Rizzo sottoscrisse l’Anti Manifesto del Croce, in risposta al “Manifesto degli intellettuali del Fascismo”. Caduto il Regime, il Croce gli affidò l’immane compito di ricostruire l’Accademia dei Lincei, di cui il Rizzo sarebbe poi diventato Presidente onorario, avendo presto rinunziato alla Presidenza effettiva, per insanabili contrasti e meschini giochi di potere rilevati all’interno dell’Accademia medesima
Fu sempre uno spirito inquieto e inappagato nella ricerca scientifica, saldamente ancorata alle radici dell’amatissima terra di Sicilia e di Siracusa in particolare. Non casualmente il Rizzo, nel commosso ricordo della propria infanzia a margine della monografia sul Teatro greco di Siracusa, affermò di aver voluto rendere un “tributo di affetto filiale alla gloriosa città presso la quale nacqui e dove, giovinetto, ebbi dalle solenni rovine e dall’eco stesso del passato, che continua a risonarmi nel petto, i primi impulsi allo studio delle antichità”.
Sicilia significò per lui anche l’intensa esperienza maturata nei soggiorni di studio e di ricerca nelle province di Catania e di Agrigento, custodi di superbe vestigia della civiltà della Magna Grecia, giunte ai giorni nostri con non minore rappresentatività di quelle presenti nella Madrepatria.
L’insegnamento fu per lui vissuto con fervore missionario, volto a disvelare agli allievi- attraverso le testimonianze delle opere dell’arte classica- i segreti delle passate civiltà, che così ancora continuavano a parlare ai posteri, protesi alla ricerca delle fonti del Vero, del Bello e del Buono. Fonti che egli colse ravvisando singolari sintonie esistenti tra opere provenienti da civiltà geograficamente tanto lontane, quanto ispirate da un comune afflato artistico.
Attraverso le sue ricerche rigorose, volle affrancare l’Italia da una sorta di dipendenza culturale dai manuali di storia dell’arte prodotti da più avanzate nazioni europee, essendo giustamente orgoglioso delle potenzialità espansive di una cultura prettamente nazionale.
Spirito indipendente, non volle mai prendere la tessera del Partito fascista, anche perché aveva nelle vene il sangue materno degli Abramo ed era imparentato con i Matera, famiglie di origine ebraica. Lasciata nel 1935 la cattedra universitaria che aveva conseguito nel 1907, si dedicò integralmente alla ricerca scientifica. Fatto più unico che raro, a quella cattedra era salito senza appartenere ad alcuna scuola, poiché –sono parole sue del 1905- “ Devo tutto, nella vita e nella scienza, al mio lavoro, al mio amore grande per gli studi, ai libri degli uomini dotti. Maestri, e tanto meno tutori, io non ne ebbi nell’archeologia :sfortuna o fortuna che sia stata ,questo è un fatto di cui qualche pedante mi ha mosso rimprovero, di cui , invece, io non mi dolgo e me ne compiaccio, anzi, con me stesso , come di una piccola gloria”. Spirito cosmopolitico e studioso di respiro internazionale, assurse agli onori di Accademico di Francia, riconosciuti solo ad un altro italiano; così come a quelli di membro dell’Istituto archeologico germanico. Pur potendo aspirare a prebende e gloria nella fascistica Accademia d’Italia, si chiuse nel suo dignitoso riserbo, ad essi preferendo la gratificazione interiore della coerenza con gli ideali di libertà che lo avevano costantemente ispirato, nel solco di una radicata tradizione familiare di stampo liberale. Il Regime non poté contare su uno studioso refrattario alle tragicomiche esaltazioni di una irripetibile civiltà romana di cui il Regime stesso si era fraudolentemente auto-dichiarato naturale erede, rifiutando al contempo ogni pur evidente influenza dell’arte greca su quella romana. Il Rizzo non si rese dunque disponibile con la sua autorevolezza scientifica, ad avallare la fola dell’assoluta originalità creatrice dell’arte romana.
Nel corso della sua ampia e poliedrica produzione scientifica, spaziò dall’archeologia alla storia dell’arte e della religione greco classica, dal teatro alla scultura, dalla storia alla letteratura, senza limitarsi al mondo ellenistico, ma abbracciando quello romano, con una speciale attenzione per quell’età aurea che fu il Principato di Augusto. L’archeologo, nella sua concezione, doveva avere una conoscenza interdisciplinare del pensiero antico, attingendo anche alla filologia, all’epigrafia, alla topografia, alla paletnologia ed alla paletnologia.
Nel primo periodo del soggiorno a Roma (1901-1906), era stato attivamente partecipe agli scavi che portarono all’interno della tenuta di Castel Porziano alla scoperta della copia del Discobolo di Mirone: Ivi ebbe consuetudine con Vittorio Emanuele III, che ne fu estimatore anche in ragione della comune passione per la numismatica. La fama delle sue straordinarie doti di studioso, non disgiunta da una rara ed arguta amabilità nel conversare, lo resero conteso animatore dei più importanti Salotti della Capitale, tra cui quello della marchesa Clelia Romano Pellicano, in arte Jane Grey. Celebrate e di richiamo nei principali circoli culturali, furono le sue conferenze e le sue dissertazioni scientifico-divulgative.
Nella scrittura, il suo periodare elegante e di singolare nitore, sapeva avvincere il lettore di ogni livello, tenendolo quasi per mano nell’addentrarsi tra le vestigia di antichi monumenti, così idealmente passeggiando insieme tra statue raffiguranti modelli di bellezza che trascendevano la dimensione dello spazio, come quella del tempo.
Nel ricordato libro sulle monete, seppe magistralmente mettere in relazione i profili numismatici con quelli prettamente artistici, ponendo in risalto che dette monete, utili alla vita di tutti i giorni, rivestivano altresì una mirabile valenza documentaria della maestria figurativa dei loro autori.
Si trattava di oggetti che malgrado le naturali dimensioni ridotte, rivestivano un grande valore artistico -diffusivo in quanto la loro stessa circolazione li rendeva conoscibili ad una vasta collettività. “L’arte della moneta siracusana- scriveva il Rizzo – è come un centro di irradiazione che illumina i centri minori d’altre città della Sicilia, e di altre ancora del più lontano mondo ellenico, ; dà luce sempre, mai da altre ne riceve”.
Una sorta di ideale testamento spirituale può ricavarsi da alcune sue esortazioni, come quella che l’archeologo non si dovesse chiudere nell’egoistico compiacimento della ricerca scientifica, bensì dovesse concorrere all’altrui elevazione, concludendo “ché io non conosco Educatrice più grande , più pura , più facile, che la storia della Bellezza antica”.
Il Rizzo delineava in tal modo la netta differenza tra il mero erudito, che studia per se stesso, ed il vero Uomo di cultura che studia per partecipare all’umanità il nettare di un sapere mai eccessivamente specialistico.
A 160 anni dalla sua nascita, vogliamo concludere ricordando che compito di un Maestro, è di non essere soltanto un dispensatore del sapere, ma anche un saggio ed un educatore, attraverso il suo personale esempio di rettitudine e di impegno sollecito alla maturazione della coscienza morale e civile dei suoi allievi. L’ esistenza del Rizzo non è rimasta chiusa nel breve spazio che il tempo ha assegnato alla sua corporeità, ma ha varcato la fredda soglia del sepolcro, per continuare a riscaldare i cuori di coloro che oggi, con la loro presenza, assicurano l’ininterrotto colloquio con l’illustre conterraneo.
