1. Abstract
La recente pronuncia della Corte Costituzionale [1] ha introdotto una interpretazione “a doppio binario” del termine prescrizionale afferente alla responsabilità del revisore legale. Alla ontologica rigidità cronologica per la società si affianca un pernicioso approccio ‘mobile’ – o, per usare una pregevole espressione dottrinale, di “scale mobili”[2] – per soci e terzi, in un equilibrio complesso tra certezza del diritto e tutela effettiva. L’articolo ripercorre il dibattito nato dal cosiddetto “paradosso di Zenone” e analizza le ricadute pratiche e teor(et)iche di questa soluzione.
2. Introduzione al problema
La decorrenza del termine prescrizionale, id est il dies ad quem – nell’alveo della azione di responsabilità nei confronti del revisore legale è da tempo oggetto ampio (ed aspro) dibattito. L’art 15, 3° co. 3, del D.Lgs., 27 gennaio 2010, n. 39 statuisce che la prescrizione delle azioni di responsabilità inizi a decorrere a far data dal deposito della relazione di revisione, senza, invero, operare alcun distinguo tra i potenziali soggetti danneggiati – e, dunque, astrattamente legittimati – tanto direttamente, ossia la società, quanto indirettamente come gli altri e diversi portatori di interesse quali soci e terzi.
Suddetta norma ha destato non poche critiche giacché è parso ictu oculi che ‘ancorare’ rigidamente la decorrenza del termine de quo al momento del deposito della relazione sia idoneo ad una patologica prescrizione anticipata, in un momento in cui il danno potrebbe non essersi ancora manifestato o, quantomeno, resosi conoscibile. È questa la sostanza del cosiddetto “paradosso di Zenone”[3], in cui il tempo giuridico – con ciò intendendo quell’arco temporale effettivamente a disposizione dei potenziali attori – sembra(va) scorrere più veloce della realtà, creando una patologica tensione tra la necessità di certezza giuridica e la tutela concreta dei diritti.
Il problema, come ben si comprende, non era solo teorico, ma sottendeva a concreti e rilevanti risvolti pratici giudiziari, dacché non risultasse così irrealistico ipotizzare una fattispecie in cui i terzi – nell’accezione di cui sopra – fossero edotti del danno in un momento sensibilmente posteriore rispetto all’occorrere dello stesso, rischiando di incorrere in una preclusione ex se dei rimedi sottesi.
3. La soluzione del 2024
Quanto ut supra enucleato trova concreta origine e conclusione nella pronuncia della Consulta occorsa soltanto nel luglio dello scorso anno che – pur rigettando le censure di incostituzionalità della prescrizione ‘incriminata’ – si è limitata, recte ha limitato e meglio circoscritto lo scope applicativo della norma, differenziando la decorrenza del termine prescrizionale a seconda del soggetto astrattamente danneggiato o, meglio, danneggiando.
In primo luogo, il dictum determinava che, per la (sola) società il dies a quo non potesse non decorrere dal mero – pur, tuttavia, effettivo – deposito della relazione, in quanto la medesima dovrebbe essere in grado di accertare tempestivamente eventuali errori ovvero omissioni ivi contenuti. Da tale angolo visuale, il dies ad quem coincide con la scadenza naturale del termine prescrizionale pari a cinque anni decorrenti dal deposito de quo, contemperando, per quanto possibile, la tutela della società e la sottesa certezza e stabilità degli effetti e dei rapporti giuridici.
Diversamente, il Giudice delle Leggi prescriveva la inapplicabilità della norma positiva nei confronti dei terzi – tanto i soci quanto i creditori – indicando quale norma suppletiva la regola generale di cui all’art. 2947 c.c. sicché il termine prescrizionale abbia a spirare dopo “cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato”. Così, il paradosso si coglie laddove si pensi alla circostanza per cui per il medesimo fatto occorrano due termini (un “doppio crono”), l’uno fisso – per la società – e l’altro mobile, forse più aderente alla necessaria ricerca di consentire l’effettiva possibilità di esercitare il diritto all’azione ed in linea con il principio giuridico secondo cui “contra non valentem agere non currit praescriptio”.
4. Problemi aperti e conclusioni
Sebbene l’arresto della Consulta si stagli come snodo essenziale per la materia de qua, restano, invero, alcune problematiche aperte che involgono tanto sul piano teorico quanto quello applicativo.
In primo luogo, la netta distinzione antropica tra la società e gli altri soggetti de residuo rischia di generare una naturale disparità di tutela, soprattutto laddove la persona giuridica sia de facto o de iure controllata dagli stessi soggetti che hanno causato l’illecito ovvero quando i soci sono parte integrante della gestione. Il trattamento differenziato potrebbe, dunque, inficiare la effettività della tutela dei diritti e la sottesa coerenza dell’impianto normativo.
In secondo luogo, non sembra che la pronuncia – creatrice di diritto [4] – si sia posta funditus il problema relativo ai creditori sociali [5], se dunque, questi siano davvero da intendere quali terzi latu sensu intesi ovvero se necessitino di essere allocati in una categoria ontologica separata corredata di un regime prescrizionale differenziato.
Di assoluto interesse – da annoverare tra le questioni ‘aperte’ – le considerazioni di Meoli[6] che ha approfondito il tema prescrizione de qua e come questa si riverberi negli effetti nei confronti del collegio sindacale.
In conclusione, il quadro permane “tutto male armonizzato e sintetizzato da una quanto mai infausta e salomonica pronuncia della Consulta”[7] e, pur tuttavia,
il “paradosso di Zenone” resta uno stimolo prezioso – tanto per la dottrina quanto per i Conditores – per riflettere sulla complessità del nuovo tempo giuridico e sulle prossime sfide (sic!) di un diritto societario sempre più complesso e dinamico, forse oltremodo lontano dall’impianto civilistico del ’42.
