Ho iniziato a riflettere sul tempo. Non per capirlo, ma per scomporlo e guardarlo nelle sue varie sfaccettature. Da bambini lo ignoriamo. Da adulti lo rincorriamo. Da vecchi, proviamo a negoziare. Ma il tempo non esiste, è un’invenzione collettiva. Una costruzione culturale. Un compromesso con l’indecifrabile. Chi controlla il tempo — inteso come calendario, orologio, fuso orario — controlla la società. L’ora di dormire, l’ora legale, l’ora delle scadenze. La vita convertita in rendimento, l’esistenza in valore economico, l’umanità in bit.
Questo è il meccanismo predominante nelle società contemporanee, ma ci sono angoli di mondo che resistono. Società che conservano aspetti ancestrali nella concezione del tempo. Alcune lingue indigene, ad esempio, non coniugano i verbi. Nessun passato, nessun futuro. Un presente continuo che si espande come nebbia. Non “io sono stato”, non “io sarò”, solo “io sono”. Essere e basta. Un tempo che non si lascia dominare, ma solo raccontare. Come quello di Gonzalo Guerrero, naufrago spagnolo del XVI secolo, che si ricostruì una vita tra i Maya. Quando, dopo sette anni, i suoi connazionali vennero a “salvarlo”, lui rifiutò. Era diventato parte di un altro tempo. Non voleva tornare indietro, perché non c’era più un “indietro”. Il tempo, per lui, non era una linea retta, ma un ciclo che aveva chiuso il cerchio altrove.
Il tempo vissuto è un altro tempo ancora. Più onirico, più nervoso, più intimo.
Un’ora in coda alle Poste e un’ora in riva al mare: entrambe misurano 60 minuti. Ma una si dilata come eternità, l’altra scompare. L’infanzia è il regno del tempo lento: ogni giorno è una scoperta, ogni secondo una fioritura. L’età adulta, invece, è un nastro trasportatore. Ripetizione, efficienza, oblio. Non è che il tempo acceleri, siamo noi che smettiamo di stupirci.
La noia, oggi tanto screditata, è forse l’unico antidoto alla dittatura dell’orologio. Chi si annoia torna a sentire il tempo. Non come calendario, ma come vertigine. Una forma di psichedelia silenziosa. L’arte è forse l’unico linguaggio che ancora prova a trattare il tempo con rispetto, senza abusarne. Ci sono opere che lo congelano (la fotografia), altre
che lo stirano (la performance), altre ancora che lo smontano e rimontano come un oggetto fragile (la scultura). In questo senso, il tempo, nell’arte, non è mai lineare: è un cronotopo, un tempo-spazio da attraversare.
Penso a Tehching Hsieh, artista taiwanese, che per un anno ha timbrato un cartellino ogni ora, giorno e notte. Non per fuggire il tempo, ma per abitarlo fino allo sfinimento. Come dire: ecco, questa è la gabbia. Ora ci viviamo dentro.
Il tempo non passa. Siamo noi che scorriamo.
Nel linguaggio quotidiano, siamo soliti legare il concetto di tempo al verbo “avere”. Come se ne fossimo i padroni. Pronunciamo frasi come “Non ho tempo”, come se il tempo scorresse dentro di noi, e non viceversa. L’umanità cerca di oltrepassare l’illusione del tempo che trascorre inesorabile e di sfiorare il passato. Con gli occhi rivolti verso le distanze più remote dell’Universo, il telescopio spaziale James Webb ci mostra le prime luci dell’universo, le galassie nate miliardi di anni fa. Ci immerge tra le pieghe dell’infinità.
Ci invita ad ascoltare il sussurro di un passato che non possiamo più vivere. Il nostro sguardo si allarga oltre la finitezza della nostra vita, sfiorando un’eternità che si cela tra buchi neri primordiali e stelle all’origine del tempo. Ci ricorda che il passato è un regno lontano, ma non perduto, pronto sempre a riaffiorare con la sua ombra senza fine.
La scienza ci suggerisce che spazio e tempo non sono fili separati, ma trame intrecciate di un unico tessuto. Einstein ci mostra che la gravità non è una forza invisibile che attira a sé, ma piuttosto la curvatura di quel tessuto sotto il peso delle masse e delle energie. Ciò che accade, quindi, non si svolge in un luogo e in un istante, ma in un intreccio in cui spazio e tempo si piegano insieme, dissolvendo i rispettivi confini.
Dal nostro punto di vista, così umano e piccolo in confronto all’universo, ogni secondo è già passato nel momento stesso in cui lo nominiamo. Chi cerca affannosamente di riempire ogni momento, raramente ha tempo per sé. Si origina così un paradosso: ci serve tempo per liberarci dal tempo. O piuttosto, il tempo non esiste. Ma il ritmo sì. E in quel ritmo, forse, possiamo tornare a respirare.



