Il tempo è un elemento cardine della fotografia, nata per fissarlo. Il tempo insieme all’apertura del diaframma determina l’esposizione, cioè la quantità di luce che raggiunge il sensore o la pellicola, il tempo storico con la sua tecnologia stabilisce il genere di fotografia possibile. Ma il tempo che mi interessa di più è quello in cui si realizzano le nostre storie, come quella della donna straordinaria che ho conosciuto durante il mio ultimo incarico in Mozambico.
“Qualche anno fa mi sono ammalata della peggior forma di malaria cerebrale, che comporta il 70% di mortalità e lascia il 90% di chi le sopravvive con handicap fisici e mentali permanenti. Durante il mese in cui sono stata in coma ho avuto un’esperienza di pre-morte. Mi sono trovata in un mondo di luce e pace indescrivibile. Eravamo in 4 in attesa di attraversare un grande arco bianco, gli altri 3 erano come dei sacchi di farina a terra, e sapevo che erano uomini. Stava per arrivare il mio turno quando una donna con un gran mantello nero mi ha presa per un braccio e rimandata giù. Così mi sono risvegliata, e ho saputo che nel reparto di terapia intensiva eravamo in 4, e gli altri 3, uomini, erano morti. Non era ancora finito il mio tempo su questa terra”.
Barbara Hofmann mi sta raccontando la sua storia nella sua casa nel bush di Vilankulo.
Ma torniamo indietro di 36 anni. Nata l’otto marzo del 1962 nella Svizzera interna, da mamma tedesca di origine nobile e da papà svizzero liutaio e musicista, Barbara, dopo aver lavorato 7 anni nella gestione finanziaria, si ritrova per un’istituzione internazionale, in Mozambico.
È il 1989 e nel Paese infuria la guerra civile, che terminerà solo nel 1992. La giovane scopre i bambini soldato, gli orfani di guerra, i bambini di strada e prende una grande decisione. Rientra in Svizzera, fonda ASEM, l’Organizzazione a Sostegno dell’Infanzia Mozambicana, vende tutti i suoi beni e torna per sempre in Mozambico. Col sostegno dei locali, anche quelli che potevano contribuire solo con mezzo pugno di riso o un pomodoro, e la disponibilità del pozzo di una moschea e del cortile di un vicino, da vita al Programa da sopa, che garantisce a 300 bambini una zuppa calda e l’acqua da bere e per lavarsi tutti i giorni, fino a 6 mesi dopo la fine della guerra.
I desideri di tutti i meninos da rua erano gli stessi: “Non dover mangiare nella spazzatura e prostituirmi, e poter andare a scuola”. Quindi, con l’aiuto degli Alpini della missione di peacekeeping ONUMOZ e dei ragazzi più grandi, costruisce il primo Centro ASEM, “dove siamo diventati una famiglia, e ci occupiamo di salute, vestiti, riabilitazione psicologica, scuola, attività extrascolastiche, fare tappeti, cesti, musica, danza, teatro, utilizzando l’arte come sostegno psicologico. La nostra organizzazione non è né una azienda né una fabbrica, parte dal principio che i bambini devono sentirsi a casa e crescere bene”. Ora i Centri sono 4: 2 a Beira, la seconda città del Paese, a Vilankulo e a Gorongosa. L’ ASEM ha inoltre sedi anche in Italia, Mozambico, USA e Canada, oltre che in Svizzera. Barbara Hofmann ha vinto numerosi premi internazionali, fra cui THE ONE International Humanitarian Award nel 2014. Ma il più importante per lei, è essere riconosciuta come maman dai 200.000 bambini che ha tolto dalla strada, fatto educare e reinserire nelle comunità.
In più di 20 anni di collaborazione con le organizzazioni umanitarie ho visto funzionare bene pochi progetti di sviluppo, al contrario di quelli di emergenza. Elemento cardine anche dello sviluppo è il tempo. Ci vuole tempo per conoscere il contesto in cui si vuole intervenire e capire quello che può aiutare, ci vuole tempo per radicare l’intervento e creare cooperazione.
Barbara continua a vivere in Mozambico e, dopo aver formato uno staff locale empatico, entusiasta e capace, che ora gestisce i diversi Centri, all’età in cui generalmente si desidera una buona pensione e una casa comoda vicino all’ospedale, intende inoltrarsi ulteriormente nel bush: “Vivrò in una pagliote, la capanna tradizionale di paglia, coltiverò il mio orto, e la mia pensione, visto che ho rinunciato allo stipendio come a ogni possesso, saranno i miei 200.000 figli, che sono la ricchezza dell’Africa. Aiuterò quelli che mi verranno a trovare a risolvere i loro problemi, perché è ciò che so fare”.
Per conoscere di più ASEM e sostenerla: https://www.asemitalia.org/

