Uno degli aspetti più affascinanti della Divina Commedia che già mi aveva conquistato sin dagli anni del liceo è la meticolosa precisione con cui Dante puntella le tappe del suo viaggio nei tre regni ultraterreni con precise indicazioni cronologiche. Ho sempre avuto l’impressione che Dante provasse una sorta di eccitazione lirica quando doveva segnalare con esattezza l’ora in cui si svolgevano gli eventi narrati, e mostrasse un malcelato compiacimento nello sfoggio di erudizione mitologica e astronomica per raggiungere altezze poetiche e dottrinali di grande intensità. Si rileggano, ad esempio, le prime terzine del canto IX del Purgatorio:
La concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’oriente,
fuor de le braccia del suo dolce amico; 3
di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente; 6
e la notte, de’ passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov’eravamo,
e ‘l terzo già chinava in giuso l’ale.
L’immagine di Aurora che si alza dal letto del vecchio Titone per affacciarsi ad Oriente e dare inizio al nuovo giorno (il “s’imbiancava” del v. 2 richiama l’albeggiare) si innesta sul riferimento alla costellazione dello Scorpione (per altri interpreti, dei Pesci) che Aurora ha di fronte a sé: praticamente in Italia è l’alba, mentre nel Purgatorio (v. 8: “nel loco ov’eravamo”), la notte ha già compiuto quasi tre passi (vv. 7-9), ossia sono le 9 di sera.
Altro passo, tra i più citati e noti (soprattutto alle vecchie generazioni, quando si usava imparare a memoria le sezioni più liriche della Commedia), è l’incipit del canto VIII, dove, per segnalare che nel Purgatorio sono le 6 di sera, Dante descrive, con accenti che trasudano quasi di romanticismo, la nostalgia che pervade l’esule lontano dalla sua patria e dai suoi cari:
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio; 3
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more. 6
Le frequenti indicazioni dell’orario all’interno del poema non sono però delle semplici esornazioni o assoli virtuosi di ingegno poetico. Dante ha infatti una concezione sacra del tempo e come per i numeri, dove nulla è casuale, così nella coscienza dell’uomo medievale ogni momento cela al suo interno un significato più profondo. Per tale ragione, l’itinerario oltremondano di Dante è rigorosamente circoscritto: si apre nella notte del Venerdì Santo e si chiude all’alba della Domenica di Pasqua del 1300 (o 1301), una scelta che rende manifesta sia l’iniziale condizione di peccato in cui versava il Dante pellegrino, sia la salvezza conseguita alla fine del percorso culminante nella visione di Dio. L’avvio del viaggio coincide inoltre con l’ingresso del Sole nella costellazione dell’Ariete, segno zodiacale che la tradizione associa al tempo originario della creazione del mondo (Inf. I, vv. 37-43):
Temp’era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino 39
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle 42
l’ora del tempo e la dolce stagione.
Questa importanza riservata nel poema al dato cronologico, frutto di meditata e soppesata ideazione, continua a suscitare l’attenzione degli studiosi.
Nel 2021 il prof. Gioachino Chiarini ha presentato presso l’Accademia senese degli Intronati una sua personale e acutissima scansione temporale delle tappe del viaggio nell’Inferno, calcolato in rapporto all’orologio meccanico che ai tempi di Dante stava conoscendo una rapida diffusione; praticamente, per ciascun Girone o Cerchio che Dante visita, si impiegherebbero due ore (una durata zodiacale, dato che due ore, ossia circa 30 gradi, sono il tempo in cui il Sole passa per un segno zodiacale), o multipli di due ore; nella seconda metà dell’Inferno, invece, la durata si abbasserebbe (una durata planetaria, perché corrispondente ad un quarto di un quadrante, ossia 22, 5 gradi) perché il cono infernale si va a restringere; ne consegue che Dante, se procede insieme a Virgilio verso sinistra, si muove in senso orario, ma se capita che i due si volgano a destra nella loro discesa (come in Inf. IX 132: “E poi ch’a la man destra si fu vòlto”) cioè in senso antiorario, allora l’orologio dell’Inferno corre all’indietro (ossia dal cerchio VI degli epicurei fino al II girone del VII cerchio il tempo si muove in direzione contraria: dalle 6 di mattina si torna indietro alle 2 di notte).
Ad ogni modo, al di là di questo nuovo calcolo dei tempi del viaggio dantesco, Dante afferma, in linea con Aristotele, che il tempo dipende dal movimento del Primo Mobile o Cristallino, il cielo più grande che abbraccia tutti gli altri al suo interno (Par. XXVII, vv. 115-120):
Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto; 117
e come il tempo tegna in cotal testo
le sue radici e ne li altri le fronde,
omai a te può esser manifesto. 120
Il tempo trae origine dal Primo Mobile perché esso dà la spinta alla rotazione dei cieli: con metafora arborea, i cieli sono paragonati alle “fronde” del tempo, ma la causa prima del loro movimento è proprio il Cristallino, che agisce come la radice nascosta nel vaso (“testo”). In altri passi danteschi (Par. X, vv. 28-33, Convivio IV, II, 6-7), astro privilegiato che regola la vita umana sarà il Sole, il cui moto “a guisa d’una vita d’uno torchio” (Convivio III, 5), permette l’alternanza delle stagioni e i tempi della nascita e della morte sulla Terra.
La concezione aristotelica del tempo viene però integrata da Dante, in maniera del tutto originale, con il pensiero di Sant’Agostino, per cui il tempo pertiene unicamente alla storia del Creato: il tempo è dell’uomo, perché Dio è ovviamente senza tempo.
Il tempo non è infatti un’affezione del Creatore, ma una dimensione che l’Onnipotente ha creato insieme al mondo; poiché il tempo misura il mutamento, non avrebbe senso parlare di tempo per Dio, che è eterno e immutabile. Quando giunge alla visione della Candida Rosa nell’Empireo, Dante ribadisce questa dicotomia, dicendo di essere giunto là “al divino dall’umano, / all’etterno dal tempo” (Par. XXXI, vv. 37-38).
La creazione stessa è avvenuta fuori dal tempo (“in sua etternità di tempo fore”, Par. XXIX, v. 16), e che il tempo sia legato alla vita terrena e sia pertanto destinato a cessare nel giorno del Giudizio Universale, lo conferma Farinata degli Uberti nel canto X dell’Inferno, quando ricorda che alla fine del mondo “del futuro fia chiusa la porta” (v. 108). Pertanto, se il tempo per Dio non ha motivo di esistere, esso è per l’uomo “misura di tutte le cose”, strumento (kantiano ante litteram?) che permette al nostro intelletto di percepire e quantificare il divenire, di distinguere la generazione e la corruzione, per dirla con Aristotele. Etimologicamente, pur senza saperlo, Dante considera il tempo qualcosa che separa, che distingue: la parola tempo è appunto da collegarsi alla radice greca τεμ- del verbo τέμνω, che significa “tagliare, separare” (cfr. tmesi).
Se la Commedia indulge spesso nella descrizione delle sfere celesti e delle gerarchie angeliche, essa è fondamentalmente opera popolata da anime, siano esse dannate, beate o penitenti, ma che un tempo furono uomini. E come per noi uomini un minuto può sembrare una eternità o viceversa un’ora darci la sensazione di essere volata in un istante, parimenti per le anime il tempo assume una sfumatura psicologica, che varia a seconda della loro condizione. Il Paradiso e l’Inferno sono regni in cui la condizione dei dannati o dei beati non è destinata a subire mutamenti, è eterna.
Il tempo per essi è infinito: le anime che Dante incontra sono ormai la forma adempiuta (potremmo dire, aristotelicamente, l’atto) della loro esistenza terrena (secondo la ben nota visione figurale della storia, formulata dal critico tedesco Erich Auerbach). Nell’Inferno domina la consapevolezza della dannazione eterna, a volte condita da bestemmie e imprecazioni contro Dio (si pensi a Capaneo o a Vanni Fucci), mentre nel Paradiso la cifra dominante è la gioia, pacata e senza euforia, piuttosto una dolce e serena letizia (“letizia che trascende ogni dolzore”, Par. XXX, v. 42) di vivere al contatto con il Divino Artefice per i meriti conseguiti sulla Terra.
Il Purgatorio, invece, è un regno differente: qui il tempo si umanizza, allungandosi o accorciandosi. Le anime, che devono fare penitenza per un periodo trenta volte superiore alla durata del loro peccato, sono pervase da una leggera ansia, hanno fretta: esse desiderano che il loro stazionare nelle cornici possa essere accelerato e terminare quanto prima grazie alle preghiere dei vivi sulla Terra. Per questo spesso le anime purganti chiedono a Dante di pregare per lui o di intercedere presso i loro cari per sollecitare suffragi a loro vantaggio, come fa Manfredi (Purg. III, vv. 142-145):
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando alla mia buona Costanza
come m’hai visto, e anche esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza.
Altra caratteristica del tempo del Purgatorio è la ripetitiva o la ciclicità: le anime devono esercitarsi all’umiltà, devono cantare tutti i giorni in coro, devono assistere a scene rituali che ogni giorno si perpetuano. Nel canto VIII, tra il dialogo con Nino Visconti e Corrado Malaspina, Dante, guidato da Virgilio e Sordello, osserva una scena che si ripete quotidianamente all’interno della valletta dei principi negligenti: un serpente compare tra l’erba con la lingua minacciosa e viene ucciso con le spade da due angeli mandati dal grembo di Maria (Purg. VIII, vv. 85-108). Come a dire: le anime non perdono tempo, ma studiano e si applicano (repetita iuvant!) per risanarsi dai peccati commessi sulla Terra.
Le anime del Purgatorio, inoltre, condividono con gli uomini sulla Terra la preoccupazione che da sempre attanaglia tutti noi esseri umani: la quantità del tempo. Il rapporto però è invertito: i penitenti che sono nel mezzo del percorso di purificazione mostrano insofferenza per il protrarsi di una attesa che ritarda il loro ingresso in Paradiso; chi invece è ancora vivo desidera quanto più è possibile protrarre la sua esistenza terrena e spesso si cruccia per la brevità della sua vita (Seneca avrebbe sentenziato “de naturae malignitate conqueritur”, Petrarca gli avrebbe fatto eco scrivendo “la vita fugge e non s’arresta un’ora”).
È noto come l’errore di noi uomini consista nel misurare la vita in lunghezza e non in larghezza, come affermava Luciano De Crescenzo nel film, da lui diretto e interpretato, 32 dicembre (1988): il tempo è una emozione, e la vita, pur nel suo ondeggiare tra alti e bassi, se è stata vissuta intensamente con azioni, sentimenti, imprevisti, sorprese, successi e sconfitte, certamente ci sembrerà essere più larga e quasi ingombrante, a dispetto della sua effettiva lunghezza.
Questa esortazione a vivere la vita ponendo maggiore attenzione alla qualità del tempo a noi concesso non fa che richiamare gli insegnamenti di Seneca (“vita, si scias uti, longa est”) o di Orazio (“carpe diem”). Ma nella prospettiva trascendente di Dante, è proprio Dio, l’Essere fuori dal tempo, a insegnarci come la qualità sia preferibile alla quantità: per l’Onnipotente, infatti, la vita di un uomo non si giudica contando gli anni che egli ha trascorso nel peccato (così come per il poeta greco Callimaco una poesia non si valuta “con la pertica persiana”, ossia calcolandone il valore in base alla sua estensione),ma verificando se il suo cuore abbia saputo aprirsi sinceramente al bene e abbia dato prova di un desiderio di cambiamento e di miglioramento della sua esistenza. Dio sa guardare nel nostro animo e accoglie in Purgatorio (e poi riceverà in Paradiso) finanche coloro che la giustizia degli uomini ha condannato all’oblio: il re Manfredi di Svevia, scomunicato dalla Chiesa e considerato eretico, è stato destinato al Purgatorio in virtù del suo pentimento, non noto a nessuno se non al Signore, in punto di morte (Purg. III, vv. 103-145).
In fin dei conti, basta un attimo per cambiare la nostra vita e parimenti il nostro destino ultraterreno. Come confessa a Dante Bonconte da Montefeltro nel V canto del Purgatorio (vv. 103-108):
Io dirò vero e tu ‘l ridì tra’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi? 105
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ‘l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!”. 108
Mentre Bonconte sta spirando, il diavolo si lamenta con l’angelo di non poter portare l’anima del moribondo all’Inferno solo per una “lagrimetta” che egli ha mostrato in punto di morte. Evidentemente, Dio ha riconosciuto in quel momento finale della vita di Bonconte una presa di coscienza sincera e un reale pentimento: lo ha pertanto collocato nel Purgatorio per dargli l’opportunità di espiare i peccati della sua vita terrena e prepararlo alla beatitudine del Paradiso.
Passato, presente e futuro sono le tre dimensioni con cui noi uomini dividiamo il tempo (tempo = divisione!). Solitamente viviamo il presente nell’attesa del futuro e affidiamo il passato al ricordo e alla memoria, facendo, se possibile, tesoro degli errori commessi. Rispetto alle epoche precedenti, però, noi contemporanei, che non siamo i primi a trascorrere la nostra vita nell’incertezza e nella crisi di valori che credevamo indiscutibili (famiglia, sessualità, religione, guerra mondiale imminente, crisi climatica), non ci siamo limitati a imparare dal passato, ma abbiamo sviluppato la presunzione di riscriverlo o rileggerlo (alcuni direbbero “revisionarlo”) perché ci sentiamo sporchi, sbagliati, inadeguati: la cultura woke e la cancel culture vogliono fare piazza pulita del passato, scavalcando di molto la concezione di una historia magistra vitae. Studiare e conoscere il passato ci serve per migliorarci, ma giudicarlo o condannarlo seguendo le categorie attuali dei paradigmi culturali emergenti o imperanti è sempre operazione fuorviante.
Se da un lato oggi si è diffuso questo scorretto modus operandi nei confronti del passato, dall’altro ci si adopera sempre di più per scoprire come sarà il futuro. Le anime purganti sanno che la loro condizione è momentanea prima di accedere definitivamente alle sfere celesti, noi uomini, invece, cerchiamo di prevedere cosa accadrà domani per non farci trovare impreparati. Come illustra un libro pubblicato pochi giorni fa per i tipi di Hoepli (Navigare il Futuro, a cura di Nausica Montemurro e Irene Festa, 2025) esistono tante modalità per le aziende, per la moda, per la finanza, per l’industria capitalistica, di operare il trend forecasting, la previsione delle tendenze e dei fenomeni che saranno globali. In un mondo così veloce, in cui il pensiero umano è messo a dura prova dalle macchine neurali della IA, che impara in pochi anni ciò che gli essere viventi hanno impiegato milioni di anni per apprendere, prevedere il futuro può essere un’arma per evitare l’incertezza, l’impreparazione, l’inettitudine alla vita meccanizzata, omologata e globalizzata che stiamo vivendo.
Questo è sicuramente vero al livello di sistema, ma per la vita del singolo che senso ha conoscere il futuro? Non dobbiamo, per essere felici, forse rifarci sempre a Orazio, che diceva “quid sit futurum cras fuge quaerere” [evita di sapere cosa accadrà domani]?
Forse dovremmo ritornare a rivalutare la qualità del nostro tempo e, come Dio, dare importanza a quei momenti veri in cui abbiamo espresso e vissuto la nostra più profonda e autentica umanità, un gesto, un dialogo, un abbraccio, una perdita, un successo, una gioia o un dolore. Siamo impotenti: per una strana legge che vige all’Inferno, persino i dannati conoscono il futuro, anche se stranamente ignorano il presente. Proprio dal goloso Ciacco (Inf. VI, vv. 58-75), dall’eretico Farinata degli Uberti (Inf. X, vv. 79-81) e dal maestro Brunetto Latini (Inf. XV, vv. 55 ss.) Dante riceverà le prime profezie del suo prossimo esilio dalla città di Firenze.
A noi qualcuno potrà anticiparci quale colore andrà di moda nel 2028, ma nessuno potrà preannunciarci se domani ci attende un giorno triste o felice, se rideremo o piangeremo. Viviamo dunque il presente, assaporiamo la vita, prendiamo coscienza del nostro hic et nunc quotidiano, e per il futuro affidiamoci alla virtù cui è dedicato l’attuale giubileo: la speranza, ovvero “uno attender certo / de la gloria futura” (Par. XXV, vv. 67-68). E ci scuserai, caro lettore, se leggendo queste riflessioni avrai avuto l’impressione di aver sprecato il tuo tempo: “ché perder tempo a chi più sa più spiace” (Purg. III, v. 78).

