L’altro giorno, sfogliando un vecchio libro di mitologia che mi accompagna dall’università, mi sono fermata sull’immagine di Kronos mentre divora uno dei suoi figli. È un’incisione del Settecento che trasforma il mito in anatomia: si vedono le piccole gambe che sporgono dalle fauci del padre, il corpo del bambino già mezzo inghiottito, l’espressione smarrita del dio che sembra non comprendere il proprio gesto. Ho chiuso il libro con un brivido, poi l’ho riaperto. C’era qualcosa in quella sproporzione tra la dolcezza del volto paterno e l’atrocità dell’atto che mi ha trattenuta lì, come davanti a una verità scomoda sulla natura del tempo.
Kronos divora i propri figli appena nati. È un’immagine che attraversa i secoli non per la sua crudeltà, ma per quella verità simbolica che porta addosso come una ferita: ciò che nasce è già destinato a essere consumato. Il tempo è un padre cannibale che genera per distruggere, che apre possibilità solo per chiuderle, che non concede vita senza sottrarla a ogni battito. Eppure noi continuiamo a chiamarlo papà, questo Kronos, continuiamo a affidargli i nostri progetti come figli da crescere, sapendo che li divoreranno.
La filosofia ha sempre balbettato davanti a questa voragine. Sant’Agostino confessava con quella sua disarmante onestà: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più”. Il tempo ci è intimo e insieme ci sfugge, come l’amore o come il sonno: lo viviamo ma non lo possediamo, ci attraversa consumandoci. È da questa intimità impossibile che nasce l’angoscia, quella sottile percezione che ogni istante, mentre accade, ci viene già sottratto da mani che non vediamo.
“Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione, il presente del futuro è l’attesa”, scriveva Agostino nelle Confessioni, e in quelle parole c’è tutto il dramma della coscienza temporale: viviamo in un presente così sottile da dissolversi appena lo nominiamo. Passato e futuro non esistono se non come ricordo e attesa, eppure sono loro a dare peso ai nostri giorni. Il tempo è una ferita aperta nella coscienza: desideriamo ciò che non c’è ancora, tratteniamo immagini che non torneranno più, abitiamo un istante che sfugge come sabbia tra le dita.
Ma se Agostino intuiva il problema, il Novecento l’ha trasformato in sistema. Heidegger ha fatto dell’essere-per-la-morte la cifra dell’esistenza autentica: non siamo semplici abitanti del tempo, siamo il tempo stesso nella forma di un Dasein che si comprende a partire dalla propria fine. L’angoscia non è più un sentimento tra gli altri, ma l’apertura stessa in cui il mondo si rivela nella sua nudità. “L’angoscia rivela il nulla”, e in quella rivelazione Kronos si manifesta non come mostro mitologico, ma come condizione ontologica, presenza costante che divora non solo gli anni, ma il senso stesso delle cose.
Sartre ha spinto questa consapevolezza ancora oltre: la coscienza è sempre coscienza di qualcosa che non è ancora, proiezione verso un futuro che si apre ma non si compie mai. Siamo “condannati a essere liberi” in una temporalità che ci nega il compimento. Ogni scelta è provvisoria, ogni identità è un progetto incompiuto. Kronos ci accompagna anche qui: divora non solo i giorni, ma la possibilità stessa di essere finalmente “qualcosa” di definitivo.
Eppure la nostra epoca ha aggiunto al morso antico di Kronos una variante inedita: l’accelerazione. Non è più soltanto la finitezza a inquietare, ma quella corsa incessante che sottrae respiro all’esistenza. Hartmut Rosa parla di una “società della velocità” dove il tempo è sempre in deficit. Il paradosso è che più cerchiamo di guadagnare tempo, più sembra sfuggirci. Le agende piene, le notifiche che spezzano ogni silenzio, il culto dell’efficienza non ci liberano da Kronos, ma moltiplicano i suoi denti.
Questo Kronos moderno produce un’angoscia diffusa e sottile: la sensazione di vivere sempre in ritardo, di non poter mai abitare davvero l’istante. Se i filosofi del Novecento descrivevano l’angoscia metafisica della finitezza, oggi si aggiunge l’angoscia sociale della fretta. Non abbiamo perso solo l’eternità: rischiamo di perdere anche il presente.
Pur tuttavia, anche di fronte al morso inesorabile, l’uomo cerca vie di fuga.
La filosofia stessa è una di queste: tentativo ostinato di pensare l’impensabile, di dare forma al tempo che sfugge. Ma ci sono anche gesti più concreti, più quotidiani, che possono suonare come piccole vittorie: rallentare quando tutto corre, custodire i silenzi in mezzo al frastuono, restituire valore a ciò che non produce. In un mondo che misura tutto in termini di efficienza, dedicarsi all’inutile – un libro che non serve a niente, un pensiero che non porta da nessuna parte, una passeggiata senza meta – diventa atto di resistenza.
Non possiamo sconfiggere Kronos, questo è certo. Ma forse possiamo imparare a danzare con lui, come fanno i bambini con i mostri delle fiabe: trasformare la paura in gioco, l’angoscia in consapevolezza. Ogni momento sottratto alla logica della velocità è una vittoria minima ma decisiva. Ogni atto di contemplazione è una sospensione del morso, un istante in cui il tempo non divora ma si offre, leggero come un dono.
Il mito ci racconta che Kronos è ineludibile, la filosofia ci mostra che l’angoscia del tempo non si può cancellare ma solo attraversare. Forse il senso della vita fragile e finita sta proprio in questa lotta impari: non nell’illusione di fuggire il tempo, ma nel coraggio di abitarlo. Con quella stessa sproporzione tenera e terribile che ho visto nell’incisione: il padre che divora e insieme ama, il tempo che sottrae e insieme dona, noi che resistiamo e insieme ci arrendiamo a questa danza antica come il mondo.

