“Quella notte, davanti alla fabbrica FIAT, ho fotografato un luogo e, senza saperlo, ho fotografato anche un me stesso che non sarebbe più tornato.”
Il mito di Kronos, tra tutti quelli tramandati dalla Grecia antica, è forse il più spietato e crudele. Ci racconta di un dio che, divorando i propri figli appena nati, cercava disperatamente di preservare il proprio dominio, di non essere detronizzato dal futuro che avanzava. È una scena che non smette di inquietare perché rivela una verità che riguarda ciascuno di noi: il tempo divora ciò che genera. Ogni istante nasce già destinato a scomparire, ogni vita umana si apre con la certezza della propria fine. Eppure, da secoli, l’arte tenta di sfidarlo. La pittura, la scultura, la scrittura, la fotografia: tutte forme nate dal desiderio di opporsi alla voracità del tempo, di sottrarre frammenti all’oblio. Ogni gesto creativo è un atto di resistenza, una dichiarazione che dice: questo non lo divorerai, lo consegno all’eternità.
Ricordo nitidamente una notte, di quasi vent’anni fa, quando mi trovai davanti alla fabbrica FIAT di Torino con il mio banco ottico a pellicola. Montai la macchina, attesi il buio, scelsi l’inquadratura e aprii l’otturatore per un tempo che oggi sembra quasi irreale: quarantacinque, cinquanta minuti. L’edificio rimase davanti a me come un gigante silenzioso, e la luce delle lampade si depositava lentamente sulla pellicola, come polvere sottilissima.
All’epoca ero un fotografo di architettura. Credevo che il mio sguardo sarebbe sempre stato rivolto agli spazi, agli edifici, alla relazione tra forma e funzione. Non potevo sapere che quella fotografia si sarebbe rivelata un’immagine-soglia, un autoritratto indiretto. Oggi la guardo e mi accorgo che non rappresenta soltanto una fabbrica, ma anche una parte di me stesso che non esiste più. Usare un banco ottico e lasciare che la pellicola ricevesse luce per cinquanta minuti era già, in sé, un gesto filosofico. Non volevo soltanto registrare la luce di un’architettura, ma incorporare nel negativo la durata stessa di quella notte. Ogni minuto passato davanti all’edificio si depositava silenziosamente sulla pellicola, come un sedimento invisibile. L’immagine non rappresenta semplicemente lo spazio della fabbrica: contiene il tempo della sua notte.
Il confronto con Hiroshi Sugimoto è qui inevitabile, ma rivelatore. Nei suoi celebri Drive-in Theaters, una singola fotografia racchiude la totalità di un film: due ore compresse in una superficie bianca, il tempo trasformato in cancellazione. Nel mio lavoro, invece, accade il processo opposto: il tempo non satura, non annulla, ma purifica. L’esposizione lunga distilla la realtà, elimina il transito occasionale, rivela un’essenza sospesa. Sugimoto accumula luce fino alla sovraesposizione totale, ottenendo il bianco assoluto – la memoria cancellata dall’eccesso. La mia lunga esposizione invece sottrae: fa sparire i movimenti casuali, le presenze temporanee, distillando l’architettura nella sua forma più pura.
Non è cancellazione, ma rivelazione. È come se la durata si fosse trasformata in silenzio, e il silenzio in immagine. Per questo quella fotografia non è la rappresentazione di un istante, ma la condensazione di una durata. Non mostra ciò che è accaduto in un attimo, ma restituisce l’eco di un tempo intero, il respiro lento e profondo della notte.
La fabbrica FIAT, di giorno, era un cuore pulsante: migliaia di corpi, rumori, storie intrecciate, turni che scandivano le ore. Di notte, invece, lo stesso edificio si trasformava in un guscio immobile, un gigantesco organismo addormentato che respirava un tempo altro, sospeso, irreale.
La sua facciata simmetrica e rigorosa appariva come un’architettura metafisica. Un guscio vuoto, privo della funzione sociale che lo animava durante il giorno. Kronos, che di giorno divora ore e vite, sembrava arrestarsi, lasciare che il tempo si diluisse in un’attesa infinita.
Sul tetto dell’edificio, l’insegna luminosa “FIAT” dominava come un’icona. Oggi non esiste più, inghiottita dalle metamorfosi del marchio e dalle logiche economiche globali.
La fotografia la trattiene, come una capsula temporale che resiste alla distruzione.
È memoria e documento storico: un archivio visivo di ciò che Kronos avrebbe voluto cancellare. Fotografarla di notte significava ribaltare la logica produttiva: restituire dignità a un tempo che non produce, celebrare il silenzio e l’inattività. In quell’atto c’era qualcosa di sottilmente rivoluzionario: riconoscere valore a ciò che non genera profitto ma custodisce esistenza.
Quella fotografia è diventata, per me, molto più di un documento: è un autoritratto indiretto. All’epoca ero immerso nello studio delle forme e delle geometrie, e non sapevo che presto avrei abbandonato quel percorso per dedicarmi allo still life. Rivederla oggi significa riconoscere un me stesso che non esiste più. È come aprire un vecchio diario e ritrovare una calligrafia che non ci appartiene più, ma che resta indissolubilmente nostra.
In quell’immagine si sospende non soltanto il tempo della fabbrica, ma anche il tempo della mia vita professionale. È come se avesse congelato un momento di passaggio, trattenendo un’identità in metamorfosi. Fotografo e luogo condividono la stessa condizione: entrambi colti in un istante di transizione, entrambi testimoni di un cambiamento inevitabile.
Guardando oggi quell’immagine, vedo una Vanitas industriale: ciò che un tempo era centro vitale di produzione oggi appare come reliquia silenziosa, memoria architettonica di un tempo già consumato. Una cattedrale laica in cui l’altare non è più dedicato al lavoro vivo, ma al ricordo della sua voracità. Forse è questo il vero dialogo con Kronos: non illudersi di fermarlo, ma accettare che ogni immagine custodisce insieme memoria e trasformazione. Ogni fotografia è la testimonianza di un tempo che è già cambiato, ma che continua a parlarci. È la prova che il tempo non è solo distruzione, ma anche metamorfosi.
Quella notte davanti alla FIAT ho catturato molto più di un’architettura: ho colto un tempo sospeso, l’eco di un marchio destinato a dissolversi, il riflesso di un fotografo che stava per cambiare strada. Ho trattenuto una memoria, ma anche una trasformazione.
La fotografia non ha vinto contro Kronos. Non lo farà mai. Ma ha saputo mostrarmi che ogni immagine, come un fragile frammento di luce, racconta ciò che eravamo, ciò che siamo stati, ciò che il tempo ha già cambiato per sempre. E in questo racconto silenzioso, forse, sopravvive la nostra più autentica eternità.

