Il tempo fa parte del lessico primario della fotografia: è uno dei tre elementi alla base della creazione dell’immagine, ovvero la durata in cui l’otturatore della macchina rimarrà aperto per permettere l’ingresso della luce e la sua lettura da parte della pellicola o del sensore. Normalmente si parla di centesimi di secondo o, al massimo, di qualche decina di secondi. Per essere visibili, le cose hanno bisogno di una durata, oltre che della luce; questo pare insegnarci la fotografia. Per questo motivo il lavoro fotografico dell’artista Alessandro Vasapolli (Torino, 1988) dedicato al tempo concentra in sé alcune importanti implicazioni, teoriche oltre che estetiche, su questo tema.
“Time” è il sesto e ultimo capitolo del ciclo di lavori “Dance Notes”, sviluppato tra il 2019 e il 2021. Qui vediamo immagini decisamente votate all’astrazione, in cui linee scure sembrano disegnate – verrebbe da dire quasi scarabocchiate – su uno sfondo in tinte verdi. Sempre seguendo la logica del linguaggio e della tecnica fotografici, sull’immagine il tempo è in grado di manifestarsi come traccia o scia delle cose che si sono mosse di fronte all’obiettivo. Potremmo dunque considerare il movimento come la veste del tempo, i segni del gesto come significato della sua durata. Allora le linee di quel gesto, che rimangono scritte come una parola, un tratto evidente nell’immagine, saranno la misura di quanto è stato compiuto.
Nelle immagini di Vasapolli, però, il corpo che genera le tracce dei gesti è invisibile, sebbene obbligatoriamente presente: chiamato un soggetto a danzare e a muoversi di fronte all’obiettivo e vestito con un costume coperto di led luminosi progettato dallo stesso artista, secondo un processo algoritmico speciale nell’immagine non rimane alcuna traccia del corpo, ma soltanto quelle dei suoi movimenti. Anche i segnali luminosi dei led, però, non sono il risultato fedele di quanto l’occhio vedrebbe: catturati dalla fotocamera e interpretati sempre attraverso un algoritmo di colore alterato che inverte i valori di luminosità della scena, essi appaiono scuri, come tracce d’inchiostro, mentre l’ambiente circostante diventa luminoso.
Gli effetti del movimento sono l’unica traccia visibile della materia che li ha generati, e il tempo si palesa come reale sostanza con cui possiamo confrontarci. In qualche modo l’artista ci dice che la presenza stessa del corpo può essere rintracciata non necessariamente dal suo essere visibile, ma dal tempo che consuma, che da entità solitamente invisibile diventa invece unico referente per rendere atto della presenza umana. Sapere che esiste un corpo che continua a muoversi senza avere l’opportunità di guardarlo fa del tempo il contenitore della sua presenza, mentre noi restiamo privati del minimo indizio per poter ricostruire ciò che manca. La verità è ribaltata, e la nostra biologia non pare sufficiente per concepire ciò che non vede. Nella mostra “Slipstream” (dall’inglese “traccia”, “scia”) che inaugurerà il 25 ottobre a Ivrea presso il Laboratorio-Museo Tecnologicamente e che ho avuto il piacere di curare, abbiamo deciso di collocare il lavoro sul tempo di Alessandro Vasapolli come atto finale del percorso espositivo. Non soltanto per una logica cronologica – è il lavoro più recente nel percorso di ricerca dell’artista – ma per segnalare lo speciale snodo teorico che queste immagini portano con sé. In una concezione della fotografia attenta al dato reale e intenta a tradurne fedelmente la sua natura visibile, il discorso di Vasapolli pone in forte crisi questo approccio in favore di un ribaltamento percettivo.
Il tempo diventa una sostanza più concreta del corpo che la abita, un punto di vista da cui l’essenza stessa dell’umano può trovare nuove letture: se è la fluidità del tempo a rimanere congelata ed è l’essere umano a scivolare invisibile, il piano fisico su cui sembriamo ancorati può iniziare fortemente a vacillare. In versi, Mariangela Gualtieri l’ha detto così:
“È breve il tempo che resta. Poi / saremo scie luminosissime.”

