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uaderni de La Scaletta

La poesia in quanto tale è elemento costitutivo della natura umana

InCanto Dantesco

Dante e il canone letterario: dalla cultura occidentale alla scuola italiana

Quando parliamo di canone, ci riferiamo comunemente a qualcosa di ordinato e prestabilito secondo precisi criteri.
Nel greco antico κανών, termine etimologicamente connesso a κάννα, indicava un’asta o una bacchetta, e per estensione il regolo o la squadretta usata dai carpentieri o dagli architetti. Dal significato letterale, presto prese piede l’accezione di “regola, ordine, modello”: si pensi alle Rane di Aristofane, dove l’esame ponderato delle opere dei tragici Eschilo ed Euripide viene definito κανόνας ἐπῶν (v. 799), ossia “misura delle parole”.
La formazione di un canone ha significato, per ogni civiltà, la nascita di un paradigma in ogni sfera dell’azione umana: così la perfezione compositiva delle statue nell’arte greca era misurata sui rapporti enunciati dal canone di Policleto, i poeti e gli scrittori che rappresentavano il meglio della abbondantissima letteratura greca erano stati selezionati e suddivisi per genere dal Canone di Alessandria, curato dai filologi Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia, i dieci commediografi latini più importanti erano stati scelti dal Canone di Volcacio Sedigito e così via.
Canone è poi oggi chiamato il principale testo normativo del diritto ecclesiastico, così come canonici sono definiti i libri ufficiali della Bibbia per distinguerli dai moltissimi testi apocrifi e spuri; e ancora si definisce canone una forma di composizione musicale in cui una voce principale detta dux viene seguita da altre linee melodiche dette comites che ne riprendono la linea tematica e le si sovrappongono in un sempre più complesso gioco contrappuntistico (si pensi al celebre Canone di Pachelbel o al Canone Inverso di Morricone).

Per qualsiasi attività umana esiste dunque un canone, un modello che si pone come una forma cristallizzata cui fare riferimento per le nuove creazioni. E anche il nostro Dante aveva il suo canone.Nel canto IV dell’Inferno, penetrato nei recessi del Limbo, il poeta assiste all’incontro tra la sua guida Virgilio e gli altri cinque grandi maestri della poesia antica che costituivano un obbligato punto di riferimento per ogni uomo medievale che si fosse dedicato allo studio delle arti liberali (Inf. IV, 85-90):

 

Lo buon maestro cominciò a dire:
“Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è
Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano”.

 

In un’atmosfera di gaia serenità, Virgilio comincia a chiacchierare con i suoi sodali davanti agli occhi ammirati di un Dante pieno di reverenza verso la bella scola (v. 94), incredulo di trovarsi al cospetto di questi cinque “mostri sacri”, di vederli amabilmente discettare e soprattutto di ricevere da essi il salutevol cenno (v. 98) con cui Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Virgilio lo esortano ad unirsi a loro; lo stupore provato nel sentirsi rivolgere un invito inaspettato costituisce un’occasione irripetibile per Dante per auto-consacrarsi nell’Olimpo della poesia, di entrare a far parte di quel canone di poeti che tutto il Medioevo ammirava, tanto che poco dopo aggiunge (Inf. IV, 100-102):

 

e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

 

Il collocarsi come sesto in mezzo ai suoi maestri (Omero non era noto in lingua originale ma Dante lo conosceva tramite riassunti e citazioni latine) costituisce per il poeta fiorentino un momento autocelebrativo importante che tradisce scopertamente la sua ambizione poetica, alimentata da una mai rinnegata consapevolezza delle sue capacità e dell’altezza della sua opera. Dante del resto è sempre stato conscio della fatica necessaria ad acquistare la gloria letteraria (si veda quanto detto nel canto XXIV dell’Inferno a proposito degli sforzi e degli ostacoli che attendono coloro che vogliono raggiungere la fama), ma non ha mai considerato tale desiderio un peccato mondano: il suo libro è stato scritto su ispirazione della divinità, meta ultima cui l’uomo deve tendere per innalzare il suo operato ad un livello superiore ed eterno.
È curioso osservare come questi cinque grandi maestri fossero già per Dante considerati canonici al tempo della composizione della Vita Nova, quando, al capitolo XXV, li citava tutti a testimonianza di quella licenza stilistica che i poeti possono sfruttare nell’impiego della figura della prosopopea (e parimenti sono considerati paradigmatici nell’uso sapiente della retorica anche nel De Vulgari Eloquentia).
Tuttavia, se il poeta aveva chiaro sin dalla gioventù quali fossero gli autori a cui ispirarsi (ad essi bisogna aggiungere il poeta Stazio, che Dante incontrerà nel canto XXI del Purgatorio), il rapporto che egli intende stabilire con essi non era di semplice imitatio, ma di una più prolifica e agonistica aemulatio, una sfida continua con il modello da ripensare e addirittura superare.
Ne è un esempio il canto XXV dell’Inferno, dove vengono presentate le metamorfosi dei ladri della settima bolgia, ed in particolare il dettagliato racconto della mutazione doppia del Guercio e di Buoso Donati, che si tramutano rispettivamente da uomo in serpente e da serpente in uomo. La descrizione, molto tecnica e complessa, sfida gli antecedenti di Lucano (Phars. IX, 761-804 dove i soldati Sabello e Nasidio, morsi dai serpenti del deserto di Libia, mutano il loro corpo rispettivamente in cenere e in una massa informe) e di Ovidio (Met. IV, 563-603 e V, 572-641, ove si narra di Cadmo e Aretusa che divengono l’uno un serpente e l’altra una fonte), con un tono quasi polemico e irriguardoso verso le sue fonti (Inf. XXV, 94-102):

 

Taccia Lucano ormai là dove tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio;
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.

 

Mitigato dall’ammettere che la materia trattata è nuova e dal riaffermare che l’ispirazione procede direttamente dalla potestà divina, l’orgoglio del poeta nel rivaleggiare e superare brillantemente le sue fonti classiche è dichiarato apertamente. Non a torto Jakob Burckhardt scriveva che Dante aveva “la più profonda consapevolezza di essere un distributore di fama, anzi di immortalità”.
Come per la classicità, anche per gli scrittori tardoantichi e medievali Dante ha un suo canone, che coincide ancora una volta con gli autori, prevalentemente cristiani, che il Medioevo reputava modelli insuperati di sapienza. Molti di essi sono ricordati all’interno delle due corone di spiriti che compaiono nel IV Cielo del Paradiso, quello del Sole, e che danzano intorno al pellegrino e alla sua guida Beatrice (canti X-XII). Tra essi compaiono San Tommaso d’Aquino, Boezio, Alberto Magno, Beda il Venerabile, Dionigi l’Aeropagita, Paolo Orosio, Ugo da San Vittore, Giovanni Crisostomo, Elio Donato, Rabano Mauro, Isidoro di Siviglia, tutti teologi, storici, grammatici, mistici, la cui conoscenza per l’uomo colto del Trecento era imprescindibile (ad essi va ovviamente aggiunto Aristotele, “lo Filosofo”, che Dante leggeva in traduzioni latine).
Se Dante pertanto aveva il suo canone letterario di riferimento, formato da poeti della classicità e da intellettuali di ogni sorta le cui opere avevano posto le basi della cultura medievale, verrebbe da chiedersi se tale lista fosse frutto della libera scelta del poeta ovvero fosse imposta da una silenziosa e ormai consolidata tradizione normativa che a quel tempo agiva in maniera prescrittiva e parimenti esclusiva. Alla domanda su come nasca un canone hanno dedicato saggi e ricerche decine di studiosi.
Certamente un canone deve veicolare dei concetti culturali, esistenziali, etici, ed estetici che siano rappresentativi di una civiltà. Il filosofo tedesco Jürgen Habermas affermava che tramite la composizione di un canone si intende raggiungere un “auto-accertamento” e una “auto-fondazione” di una civiltà letteraria.
Il critico americano Harold Bloom, non senza eccentricità e provocazione, aveva stilato un elenco dei 26 autori fondativi dell’intero canone occidentale (con un ovvio focus sulla componente anglosassone), ponendovi alla base Dante e Shakespeare, ma contemplando, tra gli altri, anche Chaucer, Cervantes, Molière, Beckett, Proust, Ibsen, Tolstoj, Borges e Pessoa, tutti autori tradizionalmente considerati pietre miliari della letteratura mondiale e costantemente letti e studiati.
Ma proprio perché ad un canone è assegnato il compito di esplicitare i valori in cui una cultura si riconosce, a partire dalla metà del secolo scorso hanno cominciato a susseguirsi numerosi tentativi, sostenuti dalla spinta potente dei media, delle case editrici e oggi dei social, di sostituire il consolidato canone occidentale (ad esempio quello di Bloom) con un “anti-canone”, ossia con una diversa selezione di autori che fosse rappresentativa di orientamenti nuovi, progressisti e politicamente connotati (marxisti, post-colonialisti e femministi in primis), al fine di allargare o piuttosto sostituire gli autori canonici con altri meno noti e più rispondenti alle istanze demolitrici del secondo Novecento.
In altre parole, ogni epoca della storia del mondo deve riflettersi in un canone di autori che esprimano la sua essenza, le certezze e le credenze, così come le fragilità e i limiti, che la caratterizzano.
E se la genesi di un canone è complessa e pluriforme, ciò è imputabile alle diverse necessità, siano esse politiche, estetiche, culturali o tecniche, che esso deve assolvere. Per questo si può meglio capire perché il nostro Dante, nonostante oggi sia considerato il Sommo Poeta, abbia dovuto faticare non poco per diventare canonico: Pietro Bembo (1470-1547) nelle Prose della volgar lingua (1525), privilegiò infatti il più versatile e regolare Petrarca, insieme al Boccaccio sublime, per costituire il modello di lingua italiana cui la nascente comunità italica di letterati avrebbe dovuto attenersi. E ciò è avvenuto perché nella formazione di un canone si guarda a volte all’uso che di certi autori si vuole fare, a prescindere dalla fama indiscussa che essi già riscuotono o al loro intrinseco valore estetico.
A tal proposito, il già citato Bloom definiva Dante un uomo “il cui animo selvaggio e potente era politicamente scorretto al massimo grado, il più aggressivo e polemico tra i maggiori autori occidentali”. Certamente Dante non amava la conciliazione, era diretto e ben poco diplomatico nelle accuse contro politici e papi, e la sua fortuna nel corso dei secoli è stata altalenante e non priva di detrattori accaniti (si pensi al Bettinelli nel Settecento).
Non così oggi, dato il ruolo che la cultura e la scuola italiana gli hanno da tempo destinato, ponendolo al vertice del nostro canone letterario. Come sappiamo, in tutte le scuole superiori di ogni indirizzo, dai Professionali, ai Tecnici, ai Licei, i testi canonici che costituiscono “il classico” da leggere per l’intero anno scolastico sono I Promessi Sposi e la Divina Commedia.
È curioso osservare come le riforme della scuola negli oltre 160 anni di vita della Repubblica siano state innumerevoli, ma nessuna abbia mai osato scalzare o declassare queste due immortali opere della letteratura italiana: a dispetto della velocità con cui oggi nascono e spariscono taluni indirizzi scolastici, o della confusione con cui le scuole gestiscono, purtroppo spesso solo apparentemente, la loro autonomia, scegliendo quali materie far entrare nel curricolo o quanti anni far durare il percorso superiore (sono sempre più numerose le scuole che adottano la formula del quadriennio), Dante e Manzoni sono intoccabili.
Manzoni fu il primo autore contemporaneo la cui lettura fu prescritta in classe sin dal 1870, con la Circolare Ministeriale 287 del 1 novembre 1870 emanata dal ministro dell’istruzione Cesare Correnti, il quale scriveva: “Tra le cose dei moderni stimiamo la più utile a leggere nelle scuole I Promessi Sposi, libro in cui la sincerità del pensiero la naturalezza delle immagini e la piana collocazione delle parole ottennero il pregio singolarissimo dell’evidenza e della singolarità”.
La sua posizione nel curricolo fu consigliata nel biennio delle superiori, all’epoca definito “ginnasio superiore”, e confermata al secondo anno, proprio dove è oggi, dal Regio Decreto del 28 settembre 1913, dopo un momentaneo spostamento all’ultimo anno del triennio liceale in considerazione delle difficoltà linguistiche del dettato manzoniano. Se per Manzoni ci fu qualche variazione di destinazione, per Dante i dubbi non furono mai sollevati, e la lettura della Commedia fu ripartita, sin dal Regio Decreto del 23 ottobre 1884, n. 2737, contenente i “Programmi Coppino delle Scuole Superiori”, negli ultimi tre anni della Secondaria di secondo grado, una cantica per ciascun anno, esattamente come oggi.
Da allora, nessuno ha mai messo in discussione tale scansione temporale nel curriculo di qualsiasi scuola superiore.
Questa importanza riservata a Dante tra i banchi di scuola trovava all’epoca una giustificazione politica nella volontà di far conoscere agli studenti l’opera di colui che era stato il pioniere della lingua nazionale e che era sempre stato gelosamente fiero della sua indipendenza e della sua italianità. Dopo un secolo e mezzo però viene da chiedersi: cosa ha ancora da dirci Dante, così lontano nel tempo e nello spazio, così arroccato nelle sue convinzioni medievali, così poco moderno nella politica e così poco tollerante nella concezione dei diritti civili?
Questa risposta la lasceremo al lettore, convinti che se Dante oggi è il centro delle canoniche letture scolastiche e l’unico poeta a cui sia dedicato un giorno in suo onore, il Dantedì, i motivi trascendono le coordinate in cui il poeta visse e operò. Il filosofo Kant, in un paragrafo intitolato Il canone della ragion pura, all’interno della Dottrina trascendentale del metodo, definiva canone “l’insieme delle proposizioni fondamentali a priori dell’uso corretto di certe facoltà conoscitive in generale”. Ed è proprio Dante che ci apre la strada all’uso corretto della nostra conoscenza, perché la sua ricerca, fosse dell’amore, della sapienza o di Dio, ripropone il valore della nostra umana esistenza nel suo più alto grado. Soprattutto per l’identità occidentale, il contributo culturale del nostro poeta fiorentino è enorme: sia per quella europea, con l’utopia di un Impero universale che governasse su un’Europa transnazionale e unita politicamente, sia per quella italiana, con il sogno del Bel Paese unificato linguisticamente.
Come scrisse il critico dell’Ottocento Francesco De Sanctis: “Per nessun paese come per l’Italia il volto della nazione si identifica con il patrimonio della vita spirituale […] La storia della letteratura fa quasi tutt’uno, naturalmente, con la storia tutt’intera della civiltà nazionale. Ad essa spetta il compito di scoprire le piaghe, di additare le deficienze, di commemorare l’infelicità e la grandezza misconosciuta di un popolo”. Nessuno più di Dante ci ha donato tutto questo.

Fjodor Montemurro
(Professore e Presidente della Società “Dante Alighieri” di Matera)
Dante Gabriel Rossetti, Giotto dipinge il ritratto di Dante, 1852, acquerello su carta, cm 36,8 x 47. Collezione privata, Andrew Lloyd Webber Collection
Dante Gabriel Rossetti: "Giotto dipinge il ritratto di Dante", 1852. Acquerello su carta. Collezione privata Andrew Lloyd Webber Collection

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