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uaderni de La Scaletta

La memoria è più di un sussurro della polvere…

Mediterraneum

L’Europa di Francesco Saverio Nitti e quella di oggi

La parola che caratterizza questo numero è “cànone”. È una bella idea quella di stimolare i contenuti  di una rivista periodica con una parola chiave, e non solo perché offre un non troppo vincolante filo  conduttore tra contributi. Chi si interroga sull’etimo delle parole, per professione o semplice  amatoriale diletto, spesso vi trova motivi di riflessione o spunti di avvio di ragionamenti, a volte per  analogia a volte per contrasto altre volte perché improvvisamente si palesano connessioni prima  ignorate. L’etimo è un precipitato di Storia e, proprio come la Storia, non facit saltus ma spesso ci  porta a tu per tu con contraddizioni.
La parola “cànone” deriva dal Greco antico “κανών” (kanòn), a sua volta variazione su “κάννα”  (kanna). Il fusto, leggero ma resistente, delle piante tipiche delle aree costiere e lacustri, veniva  impiegato, opportunamente tagliato e provvisto di tacche, come unità di misura facilmente  trasportabile. Tutto ciò che rispettava le misure diventava pertanto canonico, fatto a regola d’arte,  benfatto; e dall’indicare la correttezza geometrica-architettonica, col tempo il significato si è esteso  al rispetto anche delle caratteristiche della bellezza, intesa in senso lato, e di quelle dell’ordine come  autenticità, legalità e giustizia.
Di qui, per fare alcuni esempi, il canone egizio o il canone greco per  la statuaria, o il Diritto canonico, o il canone tributario per l’utilizzo di un bene o la fruizione di un  servizio.
Dalla canna greca deriva una miriade di altri vocaboli passati alle lingue contemporanee. Tra questi  ce n’è uno il cui accostamento al cànone diventa banale se si parte dell’etimo, ma che desta un po’  di sorpresa se ci si ferma ai significati correnti senza risalire l’albero genealogico. Accanto  all’accezione positiva e costruttiva di cànone (fintantoché non si eccede in canonizzazione,  beninteso), dalla stessa radice greca antica deriva, con spostamento dell’accento e trasformazione  accrescitiva, la grande canna o il cannòne, l’arma da fuoco che si è affacciata nella storia del mondo  occidentale agli inizi del XIII secolo e che da allora, nei suoi vari perfezionamenti tecnologici, è  diventata uno dei mezzi con cui si sono misurate (beffardamente ritorna qui il cànone come unità di misura) le volontà e le pretese contrapposte di popoli e Stati, soprattutto in Europa.
Dentro questi due significati generati da una medesima radice si possono riconoscere i due termini  dell’equilibrio e dello squilibrio, della composizione armonica secondo un disegno positivo da un  lato e, dall’altro, della contrapposizione distruttiva e autodistruttiva delle parti. Due termini che  ciclicamente contraddistinguono il lungo corso della Storia e che sono stati a più riprese evocati nel  confronto tra gli anni Venti del Novecento e i Venti del nostro secolo. Il confronto è nato in  concomitanza con il centenario della Prima guerra mondiale e dei Trattati di Versailles, ma poi ha  purtroppo trovato sostanza “palpitante” in eventi nazionali e internazionali che hanno creato dei  parallelismi più profondi e per molti versi anche preoccupanti.
L’Europa spaccata e ancora piena di ostilità che uscì dal conflitto del ‘15-’18 aveva aspetti che si  rispecchiano nell’Europa litigiosa e inconcludente di oggi: Brexit (l’abbandono della Comunità  europea da parte della Gran Bretagna), difficoltà ad avviare programmi coordinati anti crisi (solo in  parte superate sotto le urgenze da COVID-19), sospettosità reciproca sul tema del bilancio comune  per azioni di politica economica su scala continentale, debolezza e incompletezza delle Istituzioni  (ahinoi, travolte anche da scandali), le sirene della demagogia e del populismo e, da ultimo, lo  scoppio del conflitto tra Ucraina e Russia con potenziali ripercussioni mondiali che le ultime guerre europee, quelle nei Balcani, pur nella loro drammaticità non avevano.
Gli anni Venti del Novecento  furono gli anni del lucano, nativo di Melfi (1868), Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio  tra il 1919 e il 1920 (altro centenario ricorrente) che si trovò ad affrontare contemporaneamente le  richieste di progresso sociale all’interno (il cosiddetto “Biennio rosso”), la tentazione di soluzioni  radicali (tra cui anche la vicenda di D’Annunzio a Fiume) e la conclusione dei Trattati internazionali  per la ricostruzione politica ed economica dell’Europa dopo la guerra. Il suo governo fu molto  criticato per debolezza e attendismo (è lui il Sig. Cagoia di D’Annunzio), ma la verità è che tutto il  Paese, da poco riunificato, era arretrato e fragile rispetto alle trasformazioni del Secolo Breve.
Nitti fu protagonista e testimone di quegli eventi, e la sua vasta produzione scritta contiene analisi  e previsioni che, oltre a essere veri e propri documenti storici di bellezza anche letteraria per la  ricchezza delle descrizioni e la lingua alta, hanno molto da raccontare anche ai nostri tempi. In  particolare, quattro volumi, scritti tra il 1921 e il 1925, i primi tre conosciuti come la trilogia nittiana  sulle condizioni dell’Europa, “L’Europa senza pace”, “La decadenza dell’Europa” e “La tragedia  dell’Europa”, e il quarto che, sulla scorta dell’analisi dei precedenti, si interroga su come  riconquistare un duraturo sentiero di pace e sviluppo, “La Pace” appunto.

Ma chi fu Nitti? Sapevo già chi fosse, anche senza avere mai studiato il suo pensiero, quando,  durante il corso di Scienze delle finanze a Milano-Bocconi, Roberto Artoni, nel ripercorrere le tappe  fondamentali dello sviluppo di una disciplina che alle sue origini deve tanto a giuristi ed economisti  italiani, sottolineò come il posto riservato a Nitti restasse ben al di sotto del rilievo e della poliedricità  dei suoi contributi.
Le Scienze delle finanze studiano il bilancio pubblico, il funzionamento del  sistema impositivo e gli effetti delle spese pubbliche sull’economia e sulla distribuzione dei redditi  tra cittadini e tra territori. Nitti, favorito anche dall’essere cresciuto in famiglia borghese in un  piccolo contesto contadino del Mezzogiorno, le impresse quei connotati di concretezza, risolutezza  e multidisciplinarietà che spesso mancavano ai colleghi più innamorati della teoria, e che nelle sue  mani fecero della materia qualcosa di molto più simile a quella che nel nord Europa e nelle Università  anglosassoni era già l’Economia pubblica (Public economics), interessata, oltre che al bilancio, alla  strutturazione e all’ottimizzazione dell’intervento pubblico nell’istruzione, nella sanità, nel sistema  sociale, nella realizzazione delle grandi opere soprattutto nei settori dei cosiddetti monopoli naturali  (energia, trasporti, approvvigionamento idrico).
Tutti questi temi furono inseriti, con precise prese  di posizione, nel programma del Partito Radicale storico (i Partiti storici non vanno confusi con quelli  della seconda metà del secolo in epoca repubblicana), di cui Nitti fu tra i fondatori.
Ai surriscaldati temi internazionali del tempo Nitti si applicò con la stessa combinazione di capacità  analitiche, visione di insieme e concretezza risolutiva. Le sue valutazioni riescono a fare stare  assieme i punti di vista diametralmente opposti di due altri economisti del primo Novecento, il  britannico Keynes de “Le Conseguenze economiche della Pace” e il francese Mantoux de “La Pace  cartaginese – le conseguenze economiche di Mr. Keynes”. Come Keynes (con cui ebbe scambi  epistolari), Nitti riteneva che i Trattati di conclusione della Prima guerra mondiale (Versailles, Saint Germain, Neuilly, Trianon, Sèvres) non preparassero un futuro di pace ma avessero una natura  intrinsecamente punitiva in cui si perpetuavano le ostilità dei secoli precedenti, quella franco prussiana interna al mondo carolingio e quella tra mondo carolingio e mondo slavo lungo il confine  ovest-est che un ventennio dopo Winston Churchill avrebbe chiamato “Cortina di ferro”.
Tuttavia,  diversamente da Keynes, per Nitti le criticità dei Trattati non riguardavano soltanto gli aspetti  economici e le riparazioni di guerra, che in effetti furono molto alleggerite e diluite rispetto alle prime quantificazioni attirando le sferzanti critiche di Mantoux che avvertiva il pericolo di ridare  possibilità di riarmo agli stessi fronti contrapposti di prima.

Per Nitti il “convitato di pietra” ai tavoli della pace era il progetto politico della nuova Europa,  totalmente assente o addirittura avversato. Non era pronta un’idea o una aspirazione di Europa  diversa da quella entrata in guerra qualche anno prima. Inoltre, nella trilogia sono ripetutamente  sottolineati due fatti destinati a pesare nei decenni successivi con conseguenze che arrivano sino ai  nostri giorni.
Il primo fatto è che la latitanza di un genuino endogeno progetto europeo fece sì che  sulle decisioni più rilevanti avessero troppo peso gli Stati uniti nella persona del Presidente Wilson,  che Nitti critica perché, senza avere alcuna conoscenza dei popoli e dei territori dell’Europa dell’est,  si occupò di tracciare la nuova mappa politica in alcuni casi accorpando e in altri dividendo, avendo  come riferimento solo i suoi bellissimi ma astratti “Quattordici punti” scritti a Washington e votati  dal Congresso. Le critiche a Wilson sono tutt’uno con quelle che Nitti muove alla neonata Società  delle nazioni (la progenitrice dell’ONU), a cui rimprovera di agire in nome dei vincitori e non come  un consesso super partes con la finalità di seminare fiducia.
Il secondo fatto sono, come li definisce  Nitti, i destini della Russia.
Nitti esprime continue preoccupazioni che la rivoluzione comunista del  1917 potesse dividere in due l’Europa e divaricare a lungo, o addirittura per sempre, i percorsi delle  due parti del continente. Nelle pagine de “La Pace” chiede uno sforzo congiunto internazionale per  lasciare il più possibile aperti i rapporti con la Russia e, tramite il dialogo, mantenerla legata alla  famiglia europea a beneficio di tutti. Andava evitato l’oltranzismo che invece calò. Se queste sintetiche ricostruzioni vi ricordano qualcosa dei giorni nostri non vi state sbagliando. A  distanza di un secolo, sul fronte tra Ucraina e Russia l’Europa si presenta ancora titubante, divisa tra  convenienze, incapace, pur su questioni che la riguardano alle radici, di un indirizzo autonomo  distinto sul piano strategico da quello dall’Alleanza Atlantica che ormai, legata al mondo bipolare e  ideologizzato del secondo Novecento, sembra sempre più vecchia e inadeguata negli strumenti e  persino nel linguaggio.
Non è invece invecchiata, e anzi è la sfida che ancora ci attende, l’idea di Stati uniti d’Europa che  Nitti descrive nell’ultimo capitolo de “La Pace”, in cui argomenta i vantaggi politici, economici e  sociali di un continente senza barriere e proteso a valorizzare al meglio risorse umane e materiali.  In quel continente Nitti inseriva anche la Russia.
Per osservare qualcosa di vagamente simile  bisognerà aspettare parecchi anni, il 1957 con i Trattati di Roma. Sicuramente tanto è stato fatto da  allora, ma il cantiere è ancora in corso.
Per i suoi scritti dedicati all’Europa, Francesco Saverio Nitti ricevette per ben tre volte (1922, 1923  e 1924) la proposta di candidatura al Premio Nobel per la Pace, che si scontrò con le resistenze degli  ambienti nazionalisti soprattutto francesi e italiani, a dimostrazione di quanto poco si fosse appresa  la pesantissima lezione della Prima guerra mondiale, e quanta cecità ci fosse sui disastri che ancora  si andavano preparando.
In questi mesi in cui l’Europa è di nuovo tornata senza pace, è utile  ricordare questo protagonista del Novecento nato in Lucania, tra i padri del progetto di un’Europa  unita negli stessi anni di Monnet e prima di Schumann e Spinelli, che si spese per la pace e  l’edificazione democratica tra le due guerre e che, pur avanti negli anni, non fece mancare il suo  apporto e il suo magistero all’Assemblea costituente.
Si spense a Roma nel 1953.

Nicola C. Salerno
(Economista presso l’Ufficio parlamentare di bilancio)
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La nuova veste de “La Pace” riedita dal Comitato Edizioni Gobettiane costituito per ripubblicare l’intera produzione di Piero Gobetti Editore, oltre cento opere soprattutto di autori e pensatori italiani del primo Novecento, tra cui il lucano Francesco Saverio Nitti.
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Francobollo emesso nel 1985 e dedicato a Villa Nitti in località Acquafredda di Maratea, lungo la costa tirrenica della Basilicata. Restaurata e riaperta da una decina di anni, adesso ospita attività culturali molte delle quali promosse dalla Fondazione “Francesco Saverio Nitti”. Acquistata nel 1918 la casa rustica che lì prima esisteva, Nitti affidò i lavori di ampliamento e nuova costruzione all’architetto veneziano Vincenzo Rinaldo che le impresse il gusto eclettico del tempo che combina neoclassico e neogotico. Nei lunghi periodi che Nitti trascorse in questo luogo, vide la luce la trilogia dedicata all’Europa: “L'Europa senza pace” (1921), “La decadenza dell'Europa” (1922) e “La tragedia dell'Europa” (1924). Aveva già lasciato l’Italia per un lungo esilio durato quanto il Ventennio fascista, quando riflessioni e idee della trilogia confluirono ne “La pace” (1925). Alta in collina e affacciata sul mare, a metà strada tra Sapri e Maratea, la visita della villa permette sia di godere della bellezza del paesaggio circostante sia di respirare l’atmosfera di quello che nei primi anni del Novecento, e poi ancora dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fu un vero e proprio cenacolo per il pensiero politico ed economico con la straordinaria capacità di applicarsi, con uguale passione e lucidità, alle tematiche del Mezzogiorno e dell’Italia così come a quelle europee ed internazionali.
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Due delle opere pubbliche fortemente volute da Nitti negli anni in cui fu Deputato eletto nel collegio di Muro lucano e Ministro dell’agricoltura, industria e commercio del Governo “Giolitti”. A sinistra la Diga “Nitti” sul torrente San Pietro, costruita per regolarizzare il regime delle acque a vantaggio degli usi civili e agricoli e, nel contempo, produrre energia elettrica per Muro e altri paesi dell’area nord del Potentino. Realizzando la centrale idroelettrica Nitti intendeva dare un esempio, su scala piccola, di come risolvere una delle cause del deficit di crescita rispetto ai territori del Nord meglio dotati di risorse idriche e idroelettriche. A sinistra il Ponte “Nitti” che permise di collegare Muro con la frazione di Capodigiano, favorendo l’integrazione sociale ed economica di due agglomerati altrimenti separati da una profonda gola. Fu tra i primi ponti in cemento armato a campata unica in Italia. Nella visione di Nitti, le priorità per lo sviluppo economico del Mezzogiorno erano le vie di comunicazione, la rottura dell’isolamento dei paesi, le infrastrutture, il consolidamento idro-geologico, e l’offerta di energia elettrica che, data la scarsità di materie prime minerali, doveva necessariamente avvantaggiarsi dello sfruttamento delle “cadute d’acqua” e dei venti prevalenti. Tutti grandi investimenti strategici che necessitavano e continuano a necessitare di un forte impegno dello Stato in termini di risorse e coordinamento. Sembrano punti del Piano “Marshall” o addirittura del PNRR – Piano nazionale di ripresa e resilienza e dell’Agenda Green dei nostri giorni, ma in realtà sono idee di politica economica di inizio Novecento. I luoghi attorno a Muro lucano meritano sicuramente un sopralluogo, soprattutto per gli appassionati di trekking e di archeologia industriale.

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