Con un malcelato sorriso informai il nostro ospite della dura ascesa che ci aspettava. Passando da Porta Pistola, punto di partenza del nostro gruppo di ricerca, eravamo discesi nella voragine rocciosa rappresentata dalla Gravina di Matera. Ora bisognava affrontare la lunga e ostile salita per superare la ripidità della forra e raggiungere l’altopiano ventoso di Murgia Timone. L’ospite era autorevole, perché Pretore di Matera, e aveva voluto accompagnare il nostro impegno domenicale di cacciatori di grotte. Un cielo azzurro dominava la scalata e il penetrante odore del cappero, del timo, dell’origano, del finocchio selvatico alleggeriva l’affanno della fatica.
I Sassi, con le occhiaie nere delle case svuotate, erano il fondale strepitoso del nostro segmentato percorso, in un ambiente che trasudava energia e colori. Seguendo un sentiero punteggiato di asfodeli, raggiungemmo l’anfratto rupestre meta del nostro cammino.
La chiesa rupestre della Madonna delle Tre Porte emergeva da un prato di cardi segnato dall’altezza nobile delle ferule e si mostrava come un incomposto anfratto roccioso conquistato da ciuffi di rossa valeriana. Entrai dal varco che porta all’abside e, ancora accecato dalla luce, mostrai fiero la splendida immagine della Madonna in Trono.
L’ospite, sorpreso, esclamò che non vedeva nulla. Guardai allora con più attenzione ed emisi un urlo disumano.
Mi resi conto che al posto della medievale immagine della kyriotissa vi era una profonda breccia bianca e che vicino erano stati asportati altri spazi affrescati dalle scene dell’Annunciazione e della Venerazione di Cristo. Sgomenti e inquieti perlustrammo la grotta oramai privata dei suoi straordinari segni pittorici. Gli occhi si rifiutavano di constatare la scomparsa violenta delle immagini rupestri. Tra incomposti frammenti di tufo e tra tappeti di verde parietale raccogliemmo un pacchetto vuoto e mozziconi di sigarette tedesche, uno scatolo di fiammiferi e alcune strisce di tela bianca.
Recuperammo storditi il sole e fummo riportati alla vita dal suono ritmato dei campanacci di alcune mucche podoliche al pascolo.
Il mandriano, nostra antica conoscenza, fu il bersaglio delle mie domande. Con lente e misurate parole mi rispose di aver notato per giorni persone aggirarsi sull’altopiano e un’auto di colore rosso ferma nei pressi del suo iazzo. Mentre ricaricava la sua tortuosa pipa di canna, mi confidò di essere entrato per curiosità nelle diroccata chiesa rupestre e di aver constatato la violenta scomparsa di alcune pitture.
La notizia mi turbò. La frequentazione per molti giorni di questi sconosciuti nel pianoro roccioso di Murgia Timone andava scandagliata. Lo scempio avrebbe potuto interessare altre chiese rupestri, per cui decidemmo di operare a vasto raggio la ricognizione dei luoghi.
Divenimmo rabbiosi investigatori perché il furto non poteva passare impunito. Da un cantoniere ricevemmo la conferma del pellegrinaggio murgiano dell’automobile di color rosso, a più riprese vista ferma anche presso il santuario rupestre di Santa Maria della Valle. Il fervore della indagine ci assorbì completamente. Battemmo come capre i valloni, le lame, le serre, gli anfratti della murgia e della gravina registrando il furto di ventiquattro lacerti di affreschi sottratti a cinque delle nostre più significative chiese rupestri. La caccia si spostò allora in città.
Bisognava conoscere dove avessero alloggiato gli autori di un delitto così odioso e penalizzante per il nostro patrimonio culturale.
Mentre, nella sede del nostro Circolo La Scaletta, eravamo impegnati nella verifica dei dati raccolti, come un messaggero divino apparve il più giovane del gruppo annunciando che la inseguita auto rossa era stata notata in sosta nella centralissima via Roma. Collegare tale notizia all’esistente Albergo Roma fu per me un naturale corto circuito mentale.
Piombammo come furie nell’albergo e dal gestore avemmo la conferma della presenza per più giorni di tre studiosi tedeschi, i quali avevano sporcato scale, sale e stanze per il frequente trasporto di pezzi di tufo e di terriccio. Rilevai dal registro le generalità degli ospiti e, confortato da tutti gli altri elementi acquisiti, il 21 aprile 1962 denunciai l’episodio criminoso affidando alla squadra di polizia giudiziaria dei Carabinieri il compito di perseguire i responsabili.
Si aprì, allora, una vibrante e sfibrante collaborazione con i militari dell’arma. Non solo ripercorremmo i faticosi e aspri declivi della Murgia per la ufficiale documentazione del furto ma ci impegnammo anche a descrivere analiticamente i singoli pezzi rubati.
Fu laborioso ed estenuante far verbalizzare i contenuti stilistici, gli schemi iconici e il loro canone, la datazione dei frammenti pittorici asportati. Nella definizione dei nimbi gemmati, delle dalmatiche ornate di cerchi e galloni perlinati, dei cuscini a siluro, degli schienali a lira, del pallio crociato, degli schemi teologici della Deesis, e di quelli mariani della Kyriotissa e della Odigitria i verbali subivano intuibili logoranti pause.
Superato questo naturale scoglio conoscitivo, i Carabinieri furono bravissimi. Dopo solo venticinque giorni dalla denuncia, l’Interpol intercettava in Germania gli autori del furto, favorendo la restituzione e il recupero della refurtiva. L’11 giugno 1962 e il 6 febbraio 1963 ritornarono a Matera i sette frammenti degli affreschi sottratti nella Madonna delle Tre Porte e undici strappati dagli altri santuari rupestri.
Ne mancarono all’appello sei, uno dei quali è stato poi individuato e restituito alla comunità materana solo nell’aprile del 2012, a distanza di cinquant’anni. Con puntuale sequenza si mosse la fase processuale, prima con il rinvio a giudizio dei tre imputati, poi, il 12 luglio 1965, con la sentenza di condanna del solo professore di Fulda, il quale si assunse la personale ed esclusiva responsabilità del fatto.
Il protagonismo civile dei ragazzi materani de La Scaletta trovò ampia e gratificante risonanza nei mezzi di comunicazione nazionali, riproponendo il tema angosciante della tutela del patrimonio culturale italiano. Divenimmo oggetto anche di dibattiti parlamentari a sostegno della sentita necessità di istituire in Basilicata le inesistenti Soprintendenze.
In noi l’esemplare vicenda tonificò i valori dell’appartenenza e del dovere civico, rafforzando la indomabile caparbietà di affrontare la lunga, difficile, minoritaria e, infine, vittoriosa marcia per la salvezza del luogo vivo più antico del mondo: i Sassi di Matera.