Nelle ultime settimane di questo bellicoso 2022 il dibattito sui nuovi sviluppi dell’Artificial Intelligence (A.I.) applicati alla creatività sta diventando sempre più rovente negli ambienti dell’arte contemporanea, e non solo. Il tema caldo sono gli inediti scenari che si stanno spalancando sui meccanismi di attribuzione di valore, sia etico che economico, delle “Cyber opere” generate tramite algoritmi dai tanti software disponibili liberamente on line.
Ad onor del vero il dibattito sul tema non è recentissimo – si pensi alle riflessioni del geniale regista Hayao Miyazaki che già nel 2016 affrontò criticamente l’argomento, oggi ripreso dal regista Guillermo del Toro, giusto per citare autori di fama globale – ma ad alimentare il fuoco della rivolta è il recente dissenso di artisti e professionisti del design che ha preso forma nel movimento No AI Art.
La dichiarazione di guerra alla diffusione, non regolamentata, di prodotti generati tramite strumenti di intelligenza artificiale è, in estrema sintesi, dovuta alla progressiva accelerazione dello sviluppo e diffusione di applicazioni informatiche che generano automaticamente, in pochi secondi, immagini pittoriche, grafiche e fotografiche partendo da una semplice descrizione testuale degli utenti o dall’inserimento di frammenti visuali.
Oggi bastano davvero pochi click per ottenere la restituzione di un set di immagini in base all’idea digitata su queste piattaforme. I programmi disponibili sono tantissimi, con funzioni molto simili e costantemente implementate: Midjourney, DALL-E 2, Craiyon, Lensa AI sono solo alcuni dei più noti sistemi, liberamente disponibili sul web, che permettono di trasformare in “opere” quello che ogni persona osa immaginare, con tools che declinano l’elaborato anche nello stile e tecniche desiderate: dalla pixel art al cubismo, dalla pittura ad olio alla street art.
Una magia algoritmica sorprendente ma anche inquietante. Sia chiaro non mi riferisco solo al repertorio degli immaginari surreali e onirici di chi sfida la capacità creativa di questi sistemi, ma anche al risultato dei processi di immaginazione che appaiono sul display. Epifanie visive, spesso al limite del lisergico.
Il gioco è sicuramente divertente. A volte si sorride perché appaiono immagini ridicole ma è innegabile l’irresistibile fascino delle bizzarre combinazioni dei dati digitali che si manifestano, inserendo anche parole a caso.
Una fascinatoria sintesi “algo-alchemica” frutto dell’interazione tra l’ingegno dell’essere umano e “una rete neurale convoluzionale”, un’architettura digitale ispirata all’organizzazione del cervello umano che, per semplificare al massimo, è alla base dei processi informatici che insegnano alle macchine a pensare/riconoscere per astrazione.
Ovviamente queste cyber opere sono rese subito disponibili in formati adatti all’immediata condivisione sui social. Firmate “dall’autore” o dichiarate come AI Art, di fatto, sono come proiettili sparati sulla sempre più sottile barriera che limita i confini tra il transumano tecnologico e l’umanità bio-logicamente intesa.
Ma il punto non è (solo) la riflessione filosofica ed etica. Infatti, sotto il profilo legale ed economico la situazione è davvero molto complessa e spinosa. In primis è bene sapere che tutte le immagini generate tramite AI da questi strumenti funzionano sulla base di un collegamento tra la semantica testuale e la sua rappresentazione generata attraverso l’analisi di centinaia di milioni di immagini e relative didascalie prelevate direttamente dal Web.
Che le si veicolino con ingenuità, compiacimento, sarcasmo, ironia o consapevolezza, il punto è che si mina parzialmente l’inviolabile diritto d’autore, perché il sistema apprende quanto sia correlata una determinata didascalia ad un’immagine già esistente. Queste immagini, inoltre, sono attualmente considerate di dominio pubblico e quindi teoricamente svincolate dalle leggi sul copyright. Dulcis in fundo, i modelli text-to-image vengono generalmente allenati su grandi set di dati della Rete che, seppur sempre più evoluta, non è sensibile alla valutazione di stereotipi sociali, pregiudizi e norme di buongusto.
Non a caso Google, che ha creato l’app AI Imagen, non ha ancora reso disponibile il suo utilizzo pubblico non ritenendo opportuno un uso generalizzato di queste risorse d’avanguardia tecnologica.
Il focus della singolar tenzone, quindi, vede schierati fondamentalmente da una parte gli addetti ai lavori che ritengono che l’AI Art non abbia niente di originale, sia dannosa per gli autori e una minaccia per il divino spirito artistico e dall’altra i laboratori che sviluppano intelligenze artificiali, sostenuti dai fans dell’evoluzione hi tech, che invece rivendicano il diritto dello sviluppo tecnologico e della ricerca come legittimo progresso per l’umanità e accesso al patrimonio creativo universale.
Io non riesco ancora ad immaginare un canone estetico binario ma mi sono comunque cimentata nello sperimentare come la mia immaginazione potesse essere tradotta dall’AI…
Ho testato DALL·E scrivendo “Donna che tira con l’arco su un cavallo blu stile cubista” e “Picasso che parla con un cosmonauta nello spazio”. Giudicate voi il risultato.