“Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta.”
Giorgio de Chirico, Memorie
In principio erano nove. Cantavano. O almeno così ci hanno detto. Calliope ispirava gli eroi, Tersicore li faceva danzare, Urania li orientava verso le stelle. E oggi? Sembrano mute, ma lo sono davvero? Le Muse contemporanee non portano la lira né dettano versi, ma osservano, attendono, sussurrano negli spiragli che lasciamo liberi.
Nei miei viaggi e nel mio lavoro, imbattendomi in frammenti e tracce urbane, ho spesso riflettuto sull’enigma dell’ispirazione, giungendo a una conclusione che approfondiremo nel corso dell’articolo: oggi le Muse non abitano più spazi celesti, ma vivono fra noi, assopite nelle pieghe trascurate della nostra quotidianità. Si siedono accanto a noi, riposano in un magazzino abbandonato o sulla superficie arrugginita di un’insegna dimenticata. Sta a noi farci da parte, farci più piccoli, per avvicinarle e ascoltarle. Solo nell’attesa, fuori dai ritmi concitati del nostro tempo, ci accorgiamo della loro esistenza.
La Musa come frammento, l’esperienza delle Contexture
Nell’orizzonte contemporaneo, l’ispirazione non è più verticalità trascendente, ma orizzontalità immanente e relazionale: si genera nello scambio e nell’attrito con frammenti di realtà. Nella mia esperienza di artista, è ciò che mi accade durante un viaggio, quando mi lascio ispirare non rivolgendo lo sguardo alle stelle, ma smarrendomi nelle screpolature, nelle ruggini, nei graffiti, nei segni di vita che si sovrappongono in un lento processo di sedimentazione. L’ispirazione non risiede in un altrove, ma accade qui e ora, nel tempo e nello spazio in cui vivo. La Musa è il viaggio stesso.
Sono sempre stato affascinato dalla stratificazione, quel processo per cui il tempo o l’uomo agiscono sulle cose umane e le trasformano. Con un approccio simile a quello archeologico, sento il bisogno di analizzare gli strati di vita e sintetizzare il tutto visivamente.
Questo lavoro si è condensato nel progetto “Contexture”, ricerca fotografica con cui da anni studio l’effetto del trascorrere del tempo sugli artefatti umani, restituendo valore estetico ai dettagli del degrado. Astrarre un frammento di realtà dal suo contesto originario e portarlo con sé rappresenta, in fondo, un tentativo di fermare il tempo, di immortalare quel luogo esattamente come lo si è vissuto. Camminando per le città, colgo un dettaglio – un cartello stradale, un muro screpolato, il frammento di un’insegna – e lo riscopro, lo osservo come se fosse la prima volta e dono ad esso un nuovo significato. La poetica del frammento e dell’incompiutezza è un modo di interrogare il reale senza pretendere di risolverlo.
L’arte diventa gesto interlocutorio, spazio di co-creazione percettiva. Il frammento, in quanto apertura, permette all’osservatore di penetrare, di rivivere, di abitare l’opera.
Quando smettiamo di correre e ascoltiamo il silenzio, quando ci soffermiamo su una cosa qualsiasi – un ramo, un vetro rotto, un manifesto strappato – allora la realtà si piega, si schiude. E ciò che emerge non è una risposta, ma una domanda più profonda: chi siamo davvero, ora, qui? Una domanda al centro del video “The Scale of Time”, del canale YouTube To Scale, che ha realizzato un modello in scala della durata della vita umana, confrontata con la vita dell’universo. Un esperimento che ci aiuta a mettere ogni cosa nella giusta prospettiva, ponendoci di fronte a un interrogativo fondamentale: cos’è importante nel tempo che abbiamo a disposizione? Perché in fin dei conti siamo il tempo che viviamo, siamo i varchi temporali che riusciamo ad aprire, siamo i minuti strappati all’inesorabile.
In questo senso, l’artista è una sorta di rabdomante di varchi, di spazi e tempi liberi, di pause da amplificare.
Il tempo sospeso dell’arte
Nel mondo greco, le Muse – figlie di Zeus e Mnemosine, dea della memoria – incarnavano le diverse arti: dalla poesia alla musica, dalla danza alla storia. Ma soprattutto, erano portatrici di un’ispirazione che trascendeva il sapere tecnico, un dono divino che non si poteva forzare né possedere, solo accogliere. Nel contesto attuale, le Muse sembrano aver mutato statuto: non più entità superiori e trascendenti, ma modalità interiori, processi cognitivi che si attivano in noi quando la linearità spazio-temporale viene perturbata.
In quest’ottica, è possibile concepire il tempo stesso come una Musa. C’è chi pensa al tempo come a una linea retta, altri lo disegnano come una spirale, un loop, un eterno ritorno. Per l’artista, il tempo è qualcosa che si manifesta. È un varco.
Un momento in cui la realtà, stanca di restare piatta e opaca, si spalanca rivelando un’altra dimensione. Quella della verità. La creazione artistica emerge così da una discontinuità percettiva: un’interruzione nel continuum ordinario dell’esperienza che dischiude un’intercapedine temporale e spaziale in cui si manifesta una visione incipiente.
L’artista viene trasportato in uno spazio-tempo di confine, in cui l’indeterminatezza genera possibilità.
Il tempo diventa luogo della possibilità, varco socchiuso sulla creazione. A questo proposito, la composizione 4’33’’ di John Cage rappresenta un celebre esempio.
Il compositore, astenendosi dal produrre suoni per l’intera durata della composizione, introduce un campo percettivo in cui il tempo stesso diventa oggetto dell’ascolto. I suoni ambientali — respiri, colpi di tosse, movimenti del pubblico — affiorano come presenze significative, emergendo come protagonisti della partitura. Il silenzio cessa di essere assenza, diventa una tela bianca su cui tutto è possibile. L’arte non è sempre ciò che si fa, ma ciò che si permette di accadere. Il tempo non è più cornice, spazio bianco sullo spartito, ma protagonista assoluto. In questa sospensione, in quei 4’33’’ di silenzio visibile e palpabile, lì respirano le Muse. Un tempo lineare divenuto circolare, spazio-tempo in cui palpita il possibile.
Lo spazio come epifania
Le Muse cantano ancora, ma non più in cielo. Da tempo hanno lasciato gli Olimpi e i Walhalla per scendere tra noi, nel nostro tempo e nel nostro spazio. Anche lo spazio, infatti, può assumere il ruolo di Musa, non come mero sfondo o cornice, ma come luogo rivelatore, agente attivo nella genesi dell’opera. In un celebre passaggio delle sue Memorie, Giorgio de Chirico ricorda il momento ispirativo che diede origine alla pittura metafisica. Seduto in Piazza Santa Croce a Firenze, l’artista assistette al manifestarsi di un’epifania spaziale:
“In un limpido pomeriggio autunnale ero seduto su una panca al centro di piazza Santa Croce a Firenze. […] Al centro della piazza si erge una statua di Dante, vestita di una lunga tunica. […] Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mia mente.”
Il dipinto a cui si riferisce è Enigma di un pomeriggio d’autunno, manifesto della pittura metafisica. Nel racconto di de Chirico, il luogo, nella sua apparente immobilità, si manifesta come soglia: l’inatteso affiora nell’ordinario. Lo spazio non si limita più ad essere sfondo, ma emerge come soggetto protagonista dell’opera. Analogamente, nella poesia I limoni di Eugenio Montale, il paesaggio quotidiano nasconde luoghi segreti – giardini, cortili, siepi – in cui si apre la possibilità di una rivelazione:
“Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.”
Lo spazio, abitato dal silenzio, si carica di un’intensità rivelativa. È lo spazio a diventare Musa nel momento in cui si fa enigma, tensione tra visibile e invisibile, tra ordinario e straordinario. In questo spazio, in questi silenzi, l’occhio più attento e sensibile può intravvedere “qualche disturbata Divinità”, qualche Musa taciturna in attesa di essere scoperta. Può scorgere, in un frammento di realtà, un varco che lo introduca “nel mezzo di una verità”.
L’estetica del vuoto, il “ma” giapponese
Nel pensiero estetico dell’Estremo Oriente, tale configurazione del vuoto è codificata dal concetto giapponese di ma, che esprime il valore generativo dell’intervallo. Il concetto di ma può essere tradotto come “intervallo”, “pausa” o “spazio vuoto tra due elementi”, ed è alla base di varie forme d’arte tradizionali giapponesi. Ad esempio, nel giardino zen la disposizione dei pieni e dei vuoti costruisce un ritmo contemplativo; nell’ikebana, l’arte della disposizione dei fiori recisi, lo spazio che li separa è di fondamentale importanza; nella calligrafia, il bianco intorno al segno non è sfondo, ma parte del significato. Ritroviamo riferimenti al concetto di ma anche nel Wabi-sabi, filosofia estetica che abbraccia l’imperfezione e la transitorietà, incentrandosi sull’accettazione del vuoto e dello spazio libero. Esiste anche un termine, Yohaku no-bi, per esprimere la “bellezza dello spazio bianco”, ossia la bellezza creata attraverso l’utilizzo strategico dello spazio vuoto.
Il concetto di ma non esprime mera mancanza, quindi, ma un luogo attivo di relazione, di dialogo, un vuoto pieno. Agisce come pausa generativa, architettura invisibile nella quale l’assenza emerge come campo semantico in cui costruire significati. Il vuoto è la Musa che sorregge la forma senza mostrarsi.
Le Muse siamo noi
In conclusione, se le Muse antiche rappresentavano forze divine, entità esterne al vissuto umano, oggi abitano dentro l’artista: nei suoi silenzi, nelle sue attese, nei suoi sguardi inattesi sulla realtà. L’ispirazione, quindi, non è un fulmine divino che scende dall’alto, ma una forma di attenzione profonda, di presenza radicale nel mondo. E quando spazio e tempo smettono di essere solo coordinate per diventare presenze interiori, allora – e solo allora – può nascere l’opera d’arte.
In sostanza, le Muse siamo noi: non perché creatori assoluti, ma perché capaci di lasciare entrare ciò che accade, di sostare nell’indeterminato, di dare forma all’intervallo.
È in questa postura che l’opera può emergere: fragile, incompleta, ma densamente significativa. Come una verità che si lascia intravedere, per un istante, enigma di un pomeriggio d’autunno.