Le Muse sono entità plurali e sorelle (figlie di Mnemosine, come abbiamo visto nell’articolo sulla Memoria di qualche tempo fa), separate da noi e dalla dimensione terrena.
Nel ricordo, quindi, nasce la sorgente a cui ci appelliamo quando intraprendiamo il cammino dell’espressione. Come a dire, in altri termini, che è dalla storia – biografica e socio culturale, personale e generale – che deriva il nostro messaggio e la sua forma.
A volte capiamo invece che noi stessi possiamo essere quella figura separata a cui rivolgerci per poter comunicare: in fotografia esistono svariati esempi in cui l’autoritratto non è servito tanto come strumento di indagine su di sé, quanto come espediente per attuare un vero e proprio processo di trasformazione. Una metamorfosi che, a differenza di quanto accade in Ovidio, non muta i lineamenti del corpo e la fattezza anatomica, bensì amplia le possibilità del proprio rispecchiamento in immagine.
Diventiamo altro da noi – questo sempre, anche quando ci si guarda allo specchio – ma con lo speciale potere di farci messaggeri e ispiratori – quindi musa – di quel mondo che vorremmo dire.
Nell’immagine verrà riflessa dunque una figura in grado di comunicare al posto nostro, e che pure ci somiglia totalmente. Un simile processo è messo in atto, per esempio, dall’artista statunitense afrodiscendente Carrie Mae Weems (Portland, 1953), il cui lavoro è attualmente celebrato in un’ampia mostra antologica, “The Heart of the Matter”, alle Gallerie d’Italia di Torino. La Weems, nota al grande pubblico fin dal 1990 grazie al lavoro “Kitchen Table Stories”, ha focalizzato fin da subito il proprio impegno artistico verso l’espressione e il recupero della propria identità: singola, familiare e culturale.
Quando si entra nello spazio espositivo e si vede Carrie Mae Weems nelle fotografie di grande formato farsi edificio, oltre che persona che singolarmente si incarica di un dialogo impari con l’architettura dell’imperialismo occidentale (nelle serie “Roaming” e “Museums”, entrambi iniziati nel 2006) vediamo attuato il processo di cui si parlava all’inizio: Mae Weems è, oltre a sé stessa, quella figura che trasporta in sé il messaggio di tutti quanti appartengono al suo popolo, e dunque a una memoria collettiva.
Di fronte al Louvre, o alle colonne dell’antica potenza imperiale di Roma, vestita di nero, Carrie Mae Weems diventa la rappresentante immobile di un unico sentimento comune alle generazioni che l’hanno preceduta finora e a cui pure appartiene.
Mae Weems si incarna nella sua stessa musa, come lei stessa descrive il suo “sé-alter ego”, e si alza come un muro di fronte ai simboli edificati del potere oppressivo delle generazioni e dell’ideologia che hanno diviso il mondo a metà. In effetti anche Carrie Mae Weems è figlia di Mnemosine, musa di se stessa e di tutta la propria discendenza.
Gli autoritratti dei “Museums” e di “Roaming”, innanzitutto, appaiono negati: l’artista dà le spalle a noi mentre resta immobile immersa in un’architettura che di colpo appare aliena, per nulla in dialogo col suo corpo eretto e solido, sebbene nella proporzione svantaggiosa in cui l’umano si è messo rispetto ai propri edifici.
Anche noi spettatori subiamo contemporaneamente una trasformazione, guardando le immagini di Carrie Mae Weems: diventiamo a nostra volta quei musei, e tutte quelle architetture; guardando le grandi stampe diventiamo edifici che circondano alle spalle l’artista, un accerchiamento involontario quanto significativo operato da noi discendenti, in fin dei conti, di chi eresse quelle architetture, di chi appartiene all’altra metà del mondo. Vediamo dunque una musa di spalle, piccola in un mondo che non le appartiene, e che soprattutto non sta aspettando di essere invocata da noi: parla anzi per sé stessa, per un’altra storia.
Per Carrie Mae Weems prendere confidenza con la propria storia genealogica significa accettare i propri familiari come protagonisti attivi di una tragedia di cui non si scorge più l’inizio, una tradizione che parla molto spesso nell’unico verso di una concreta e materiale difficoltà a esistere. La sconfitta reiterata come ovvia condizione esistenziale è infatti ben presente nel recupero della memoria familiare di Mae Weems.
L’artista racconta bene del filtro obbligato con cui lei e il suo popolo guardano ogni dettaglio del mondo che li circonda: tutto parla, direttamente o per riflesso, della divisione manichea del mondo in cui il popolo nero ha sempre occupato il posto in piedi degli oppressi.
Ogni gesto, come reciterà un intervento testuale del ciclo più famoso dell’artista, “Kitchen Table Stories” del 1990, è politico, frutto di un preciso trascorso intergenerazionale.
Nella nota serie, Mae Weems si autoritrae in una sempre identica situazione domestica, composta dal tavolo della cucina, una lampada accesa calata dal soffitto, e qualche immagine a parete. In questo microcosmo, Mae Weems si evolve, si innamora, ha una figlia, soffre: la messa in posa degli scatti è il congelamento delle tappe di un percorso di formazione, la traccia narrativa che collega Mae Weems al mondo universale dell’esistenza, e quindi del dolore, dell’innamoramento, delle relazioni.
In questo caso, precedente ai lavori citati all’inizio, l’autoritratto è usato in funzione metaforica ma pienamente attinente al trascorso biografico dell’autrice. Anche in queste immagini Mae Weems recita una parte, è sé stessa e, allo stesso tempo, un suo sé simbolico, in posa, riassuntivo delle fasi più cruciali della vita e delle donne della sua stirpe (l’ambientazione della cucina vuole essere il palcoscenico privilegiato per scoprire la realtà femminile a cui appartiene, togliendola dallo stereotipo di habitat d’elezione e unico della donna).
La fotografia non trattiene alcun ricordo, ma ne ricrea il senso. Questo passaggio, che qui abbiamo analizzato all’inverso, (dagli esempi più recenti a quelli anteriori), ci dice forse che diventare musa è un percorso che richiede il proprio tempo, che serve guardarsi prima di poter essere l’ente mitico da cui attingere le proprie parole.