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uaderni de La Scaletta

La poesia in quanto tale è elemento costitutivo della natura umana

InCanto Dantesco

“O sante Muse, poi che vostro sono”: Dante e l’ispirazione poetica.

Il primo verso dell’opera che inaugura la letteratura occidentale, il notissimo “Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta…” comincia con un’invocazione: il poeta chiede alla Musa di sostenere il suo sforzo creativo e di concedergli la perizia del canto. È solo l’inizio: dall’Iliade in poi, “ogni pagina della letteratura europea parla delle Muse”, come scrisse saggiamente Curtius, uno dei più eminenti studiosi della letteratura classica e medievale.
Tradizionalmente le Muse nella mitologia classica erano le nove figlie di Zeus e della Memoria, in greco Mnemosyne, una genealogia che pare ripercuotersi al livello etimologico: il termine Μοῦσα deriva dal protogreco μόν-σα, la cui radice men/mon è attiva proprio in Mnemosyne (e poi nel latino mens, mentis). Per Platone (Crat. 406 a) il loro nome è legato invece al verbo μάομαι, ossia “desiderare, aspirare a qualcosa”. Ad ogni modo, già il vocabolo ci lascia intuire molto della loro essenza: sono figlie della Memoria e sono depositarie delle arti, che tramandano ai poeti ispirando in essi la creazione artistica.
A differenza di altre divinità, le Muse hanno tratti evanescenti e poco connotati; si configurano, infatti, come delle entità astratte e puramente spirituali, al punto che gli antichi non ci hanno offerto descrizioni dettagliate delle loro fattezze o delle loro caratteristiche fisiche. C’era al contrario grande incertezza sia sui loro nomi, sia sul numero e perfino sulle sedi in cui esse dimoravano. Una tradizione che parte da Esiodo vuole che popolassero il monte Elicona in Beozia (più tardi saranno collocate sul Parnaso, altra montagna nei pressi di Delfi) e che ciascuna di esse fosse la depositaria e la promotrice di una specifica disciplina artistica: Calliope era la Musa dell’epica, Clio della storia, Polimnia della poesia innodica, Euterpe della musica, Tersicore della danza, Erato della poesia corale e amorosa, Melpomene della tragedia, Talia della commedia e Urania dell’astronomia.
Ad ogni modo, era consuetudine invocare le Muse nei proemi dei poemi epici: non si trattava di una semplice convenzione letteraria, ma un modo con cui il cantore nobilitava la sua materia facendola discendere direttamente dalla divinità; soprattutto in momenti di particolare impegno poetico, era prassi ritornare a richiedere l’aiuto delle Muse, come fa ancora Omero nel libro II dell’Iliade prima del famoso “catalogo delle navi”. Virgilio prosegue nel solco della tradizione omerica: all’inizio dell’Eneide invoca una generica Musa (v. 8: Musa, mihi causas memora) affinché lo aiuti a richiamare le cause dell’ira di Giunione, ma nel corso del poema seguono altri appelli: nel VII libro il poeta chiama direttamente Erato, la musa della poesia amorosa, e nel IX, prima di narrare le gesta eroiche dell’antagonista Turno, si rivolge a Calliope, la musa dell’epica.
Oltre a simboleggiare le arti, le Muse erano le protettrici della sapienza e della conoscenza. Cicerone (Tusculanae V 66) affermava convintamente che frequentare le Muse significava vivere con l’umanità e la conoscenza (cum Musis, id est cum humanitate et cum doctrina): non a caso l’Accademia platonica era collocata in un giardino sacro ad Apollo e alla Muse. Ancora Virgilio, nelle Georgiche, aveva chiesto alle Muse non l’ispirazione per la composizione poetica, ma la spiegazione delle leggi fisiche dell’universo (II, 475-478):

Me vero primum dulces ante omnia Musae,
quarum sacra fero ingenti percussus amore,
accipiant, caelique vias et sidera monstrent,
defectus solis varios lunaeque labores.

Serpeggia in questi versi una richiesta diversa dalla semplice infusione di versi altamente ispirati: qui le Muse sono latrici di quella sapienza cosmologica che permette all’uomo di superare le paure e le angosce, una aspirazione alla conoscenza che anche l’epicureo Lucrezio credeva fosse il segreto per liberarci dalla superstizione e dai timori della morte.
Nell’età imperiale comincia però a prendere piede un certo scetticismo circa il ruolo tradizionale delle Muse, al punto che Ovidio definisce la sua poesia “Musa iocosa”, mentre il poeta satirico Persio, nutrito di dottrine stoiche, orgogliosamente nega di essersi accostato alle cime del Parnaso, luogo tradizionale di residenza delle Muse, per marcare la sua poesia come sincera e rustica, contro una tradizione poetica vuota e lontana dalla realtà.
Questo rifiuto delle Muse diviene un topos molto sfruttato nella prima poesia cristiana: autori come Giovenco, Prudenzio e Paolino da Nola condannano la poesia pagana che le Muse rappresentano e ad esse sostituiscono lo Spirito Santo o Dio stesso. Paolino (Poemata X, 21-22) dice chiaramente che chi si vota al Signore non può accogliere né Apollo né le Camene (le Muse agresti dell’antica Roma): Negant Camenis nec patent Apollini / dicata Christo pectora. Sarebbe troppo lungo ora addentrarsi in una disamina puntuale del complesso rapporto con le Muse pagane instaurato dai tantissimi autori cristiani: se Venanzio Fortunato non intende lanciare crociate contro i simboli della poesia classica, Arnobio e lo stesso Agostino, in nome della Verità, sconfessano la tradizione delle Muse come dispensatrici di sapienza, perché in mancanza della Grazia divina ogni sapere è da considerarsi fallace.
Il vescovo inglese Aldelmo di Malmesbury (VIII sec.) al contrario non vede nelle Muse alcun pericolo di regressione verso il paganesimo, ma le declassa a puri elementi esornativi della poesia, dichiarandosi, come Persio, completamente estraneo alla Ninfe Castalie e alle vette del Parnaso.
E così l’umanesimo carolingio non ebbe paura di reintrodurre le figlie di Mnemosyne nel loro officio tradizionale di dee ispiratrici della poesia, premurandosi di distinguere il loro ruolo convenzionale dalla matrice cristiana della materia cantata (Alcuino, Angilberto, Rabano Mauro). Si compiva in tal modo un processo di secolarizzazione estetica di figure mitologiche della classicità.
I due elementi che abbiamo testé individuato, ossia le Muse come deità dell’arte e della poesia e al contempo emblemi e allegoria della sapienza, sono compartecipi in Dante, il quale, coerentemente con la sua interpretazione della mitologia antica, non le ricaccia nel mondo pagano, ma le assume come elemento di una tradizione epica che non era possibile ignorare (soprattutto per lui che ritiene Virgilio suo “maestro e autore”) e altresì le considera un simbolo di un sapere alto che innalza la dignità umana e permette la poiesi del canto. Nove sono le invocazioni che ritroviamo nelle Divina Commedia, e di esse cinque sono dedicate alle Muse. Inf. II, 7-9, Inf. XXXII, 10-12, Purg. I, 7-12, Purg. XXIX, 37-42, Par. XVIII, 82-87.
All’inizio del canto II dell’Inferno, che rappresenta praticamente l’introduzione alla prima cantica, Dante, in procinto di prepararsi “a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate” (Inf. II, 4-5), invoca le divinità della poesia (Inf. II. 7-9):

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.

Se l’invocazione alle Muse si modella sugli esempi che Dante trovava nei poemi di Virgilio, Stazio e Ovidio, notiamo che essa è pronunciata con una sommessa umiltà: al “cantami” di ascendenza omerica o virgiliana, Dante preferisce un “m’aiutate” che palesa la sua consapevolezza di stare per affrontare un’ardua impresa poetica in cui dovrà dimostrare la sua bravura (“nobilitate”). Non a caso il verbo “aiutare” è ripetuto nella seconda invocazione alle Muse nel canto XXXII, dove le dee sono apostrofate con un più familiare “donne” (Inf. XXXII, 9-12):
ma quelle donne aiutino il mio verso

ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe

sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Dante ha a cuore la corrispondenza tra elocuzione e oggetto del canto: per raccontare il “tristo buco” della Caina e dell’Antenora, dove sono puniti i traditori dei parenti e della patria, il suo dettato ha bisogno di impiegare “rime aspre e chiocce” (XXXII, 1) che egli confessa di non possedere (v. 5: “perch’io non l’abbo”): solo le Muse possono fornirgli quei mezzi espressivi per far sì che il racconto (“il dir”) sia esteticamente rispondente al contesto di dolore che caratterizza la zona più bassa dell’Inferno.
Diversa l’atmosfera nel secondo regno. Nel Canto I del Purgatorio l’invocazione alle Muse comunica un maggiore ottimismo: Dante non chiede aiuto, ma, dopo la prova poetica sostenuta nella prima cantica, dichiara, con accenti che richiamano l’ode alle Muse di Orazio (III, 4, 21-2: Vester, Camenae, vester in arduos tollor Sabinos) di essersi completamente affidato alle dee dell’arte:

ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calliopè alquanto surga

L’aggettivo “sante” conferisce all’invocazione quasi un accento religioso da preghiera: l’esortazione alla musa dell’epos Calliope (già presente in Eneide IX 525) e l’invito a innalzare il canto (“surga”) richiamano di certo un luogo ovidiano (Metamorfosi V 338-340: surgit et inmissos hedera collecta capillos / Calliope querulas praetemptat pollice chordas), ma riecheggiano altresì toni solenni delle Scritture (Salmo 108, 1-2: cantabo, et psallam in gloria mea. Exsurge, gloria mea; exsurge, psalterium et cithara). Questo nuovo innesto delle Muse in una atmosfera sacra trova il suo culmine verso la fine Purgatorio, dove il poeta le definisce “sacrosante vergini” (Purg. XXIX, 37-42):

O sacrosante Vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami.
Or convien che Elicona per me versi,
e Uranìe m’aiuti col suo coro
forti cose a pensar mettere in versi.

Ammirando la processione nel Paradiso Terrestre e sentendo di dover descriver qualcosa di già impossibile da concepire (“forti cose a pensar”), il poeta apostrofa direttamente Urania, la musa dell’astronomia. Il rapporto con le Muse è pero più simpatetico rispetto all’Inferno: per ottenere il soccorso delle dee, in una sorta di captatio benevolentiae, il poeta ricorda quanta sofferenza e quanti patimenti ha sopportato (“se fami, freddi o vigilie mai per voi soffersi”) per dedicarsi strenuamente al servizio dell’arte (cfr. Purg. XXXI 140-141).
Questo rapporto privilegiato con le Muse pare interrompersi nel Paradiso. Qui nel canto introduttivo Dante le ignora e invoca direttamente il dio della poesia Apollo (Par. I, 13-18):

O buono Apollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.                                  15
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

Il poeta è consapevole che la materia della terza cantica richiede uno sforzo estremo: evidentemente non basta più invocare una cima del Parnaso, quella nota come Nisa e sacra alle Muse, ma c’è bisogno anche del sostegno dell’altro vertice, chiamato Cirra (dal nome della città della Focide non lontana dal Delfi) e consacrato ad Apollo. L’immagine intende significare che le conoscenze umane e la perizia tecnica che le Muse gli hanno sinora garantito non sono sufficienti per supportare la poesia del Paradiso, ma è necessario affidarsi direttamente al dio per attendere umilmente una ispirazione mediata dalla grazia divina: dietro Apollo si cela infatti il Sommo Creatore. L’invocazione al dio pagano permette al poeta di far trapelare, pure nella modestia che egli si sforza di mostrare, la sua ambizione per il raggiungimento della gloria poetica, simboleggiata dall’alloro (la “fronda peneia”, vv. 32-33), pianta sacra al Apollo (Par. I, 25-27):

venir vedra’mi al tuo diletto legno,
e coronarmi allor di quelle foglie
che la matera e tu mi farai degno.

È Dante stesso, nell’Epistola a Cangrande della Scala, a spiegarci le ragioni di questa scelta: per affrontare una prova intellettiva molto difficile come la riproposizione in versi di una esperienza ultraterrena vissuta tra le sfere celesti, “bisogna chiedere ai poteri superiori una specie di dono” (Ep. XIII, 46: superioribus substantiis petendum sit, quasi divinum quoddam munus). Pertanto, parrebbe che il ruolo delle Muse sia da considerarsi esaurito e che per l’ultima fatica poetica, ontologicamente, prima che tecnicamente, più impegnativa delle altre due, siano fondamentali un sostegno e una benedizione di ben altro livello.
L’esclusione delle Muse dal Paradiso non implica necessariamente, come vuole una parte della critica dantesca, che Dante ne abbia ridotto l’importanza in virtù del loro rappresentare una poesia di ispirazione pagana e quindi inadatta alla teologia e alla verità rivelata; esse al contrario subiscono una cristianizzazione progressiva che dall’essere “donne” nell’Inferno (XXXII), le fa diventare “sante Muse” in Purg. I e “sacrosante vergini” in Purg. XXIX. Il poeta non le ha dimenticate, ed infatti esse ricompaiono nuovamente nel secondo proemio di Par. II, 1-15, stavolta a formare un trio “pagano” con Apollo e Minerva (Par. I, 7-9):

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.

Basterebbero questi tre versi per illustrare come Dante, in controtendenza rispetto ai primi poeti cristiani, non abbia paura di inserire gli dei della classicità all’interno della sua poesia e di riconoscerne l’alto valore morale e sapienziale. Qui in particolare, le Muse hanno il compito di indicargli le stelle e guidare il suo viaggio in compagnia della dea della sapienza Minerva e del dio della poesia Apollo.
Se dunque le Muse rappresentano per Dante le divinità tradizionali dell’arte alle quali il poeta deve fare appello nell’atto della creazione artistica, tuttavia la vera musa ispiratrice dell’intera sua opera è, come tutti noi sappiamo, una persona in carne ed ossa, colei che gli ha fatto battere il cuore e per cui ha composto le prime liriche e alla quale ha dedicato tutta la sua attività di cantore dell’amore: Beatrice Portinari, figlia del ricco banchiere di origine forlivese Folco Portinari, sposata a sua volta con il banchiere Simone de’ Bardi. Beatrice incrociò il suo coetaneo Dante all’età di 9 anni e lo rivide all’età di 18, secondo il racconto, a metà tra realtà e trasfigurazione mitica e poetica, che Dante stesso ci fornisce nella Vita Nova. Senza Beatrice probabilmente oggi Dante non sarebbe per noi il Sommo Poeta che tutto il mondo occidentale conosce e non avrebbe forse nemmeno composto la Divina Commedia, progetto che forse già gli balenava in mente quando scriveva, alla fine della Vita Nova, di sperare un giorno “di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna” (XLII, 3).
Al di là delle figure mitologiche figlie di Mnemosyne, nella storia della letteratura, dell’arte e della musica, la Musa è sempre stata, come per Dante, una donna reale, capace di agire, ora tramite una suadente femminilità, ora per mezzo di una delicata finezza intellettuale, con una forza dirompente sugli artisti. Basti pensare alle numerose donne che sono state fonte di ispirazione per tanti pittori e musicisti. La Fornarina fu la modella amante di Raffaello, Dora Maar “la musa del dolore” per Picasso, Clara Wieck, pianista e compositrice, fu contesa sentimentalmente tra suo marito Schumann e il suo amante Brahms, George Sand fu determinante per l’arte pianistica di Chopin, Alma Mahler, donna intellettuale della Vienna decadente di inizio Novecento, attrasse a sé figure come il marito Gustav Mahler e poi pittori come Klimt e Kokoschka e architetti come Gropius. Sul versante poetico, se troppo note sono Eleonora Duse, attrice e amante di D’Annunzio, o Fanny Targioni Tozzetti, dama fiorentina a cui un Leopardi innamorato e non ricambiato dedicò il ciclo di Aspasia (a sua volta notissima etera greca e vera musa ispiratrice del programma politico e culturale di Pericle nell’Atene del V sec. a. C.), possiamo ricordare le donne di Montale, Clizia (Irma Brandeis) e Mosca (Drusilla Tanzi), compagne e amanti trasformate in emblemi di sentimenti e sensazioni, correlativi oggettivi di un sentire la vita come espressione del male di vivere. Gli esempi sarebbero numerosissimi, ma basta allargare lo sguardo all’origine della letteratura italiana per vedere che per ogni poeta la musa ispiratrice è sempre una donna: sulla scia dell’amore cortese che nasce in Francia come segno di omaggio feudale per la dama di corte, la poesia provenzale dei trovatori francesi e italiani, la poesia della Scuola siciliana federiciana (Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini) e poi quella stilnovista fiorentina e bolognese (Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, lo stesso Dante) indentificano nella donna inarrivabile, angelicata, agognata e mai posseduta, la musa ispiratrice di chi vuol essere poeta: senza una donna non si può parlar d’amore, non si conosce la gentilezza, non si possiede altezza di ingegno: in poche parole, non si è artisti.
Sono le donne vere, in pratica, a provocare i primi vagiti della storia letteraria europea nelle lingue volgari. Cosa sarebbe della poesia italiana se Petrarca non avesse trovato in Laura la musa alla quale dedicare il suo Canzoniere, opera che ha inaugurato una intera stagione poetica durata fino al Settecento?
Queste osservazioni ci trascinano ad una conclusione finale: se è vero che le Muse proteggono la sacralità dell’arte e ne custodiscono i segreti, l’arte stessa, che è manifestazione partecipe di un afflato divino, nasce e trova alimento nel concreto, nella realtà, nella persona umana ed in particolare nella donna: idealizzata o concretizzata, la musa esiste tra noi, proviene dal nostro passato o vive nel nostro presente, ci guarda, ci disdegna o ci accompagna. Solo il Divino ha il potere di creare l’essere dal nulla. A noi mortali è concesso solo di ricomporre e connettere ciò che giace come già dato: il poeta è colui che compone (letteralmente “colui che fa”, dal greco ποιητής), che crea qualcosa che non nasce però dal nulla, ma che proviene da una tradizione di saperi e conoscenze che vivono nella memoria. L’arte e l’armonia etimologicamente significano solo questo: “accordare e adattare” (dalla radice indoeuropea ar). Chi può aiutarci in tutto questo? Proprio loro: le Muse; grandi artisti o semplici tessitori dell’esistenza, noi, come Dante, le avremo sempre come implacabile e imprescindibile fonte di ispirazione.

Fjodor Montemurro
(Presidente della Società Dante Alighieri – Comitato di Matera)
Ary-Scheffer-Dante-and-Beatrice-1851
Ary Scheffer: Dante e Beatrice, 1851

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