La parola che caratterizza questo numero è “cànone”. È una bella idea quella di stimolare i contenuti di una rivista periodica con una parola chiave, e non solo perché offre un non troppo vincolante filo conduttore tra contributi. Chi si interroga sull’etimo delle parole, per professione o semplice amatoriale diletto, spesso vi trova motivi di riflessione o spunti di avvio di ragionamenti, a volte per analogia a volte per contrasto altre volte perché improvvisamente si palesano connessioni prima ignorate. L’etimo è un precipitato di Storia e, proprio come la Storia, non facit saltus ma spesso ci porta a tu per tu con contraddizioni.
La parola “cànone” deriva dal Greco antico “κανών” (kanòn), a sua volta variazione su “κάννα” (kanna). Il fusto, leggero ma resistente, delle piante tipiche delle aree costiere e lacustri, veniva impiegato, opportunamente tagliato e provvisto di tacche, come unità di misura facilmente trasportabile. Tutto ciò che rispettava le misure diventava pertanto canonico, fatto a regola d’arte, benfatto; e dall’indicare la correttezza geometrica-architettonica, col tempo il significato si è esteso al rispetto anche delle caratteristiche della bellezza, intesa in senso lato, e di quelle dell’ordine come autenticità, legalità e giustizia.
Di qui, per fare alcuni esempi, il canone egizio o il canone greco per la statuaria, o il Diritto canonico, o il canone tributario per l’utilizzo di un bene o la fruizione di un servizio.
Dalla canna greca deriva una miriade di altri vocaboli passati alle lingue contemporanee. Tra questi ce n’è uno il cui accostamento al cànone diventa banale se si parte dell’etimo, ma che desta un po’ di sorpresa se ci si ferma ai significati correnti senza risalire l’albero genealogico. Accanto all’accezione positiva e costruttiva di cànone (fintantoché non si eccede in canonizzazione, beninteso), dalla stessa radice greca antica deriva, con spostamento dell’accento e trasformazione accrescitiva, la grande canna o il cannòne, l’arma da fuoco che si è affacciata nella storia del mondo occidentale agli inizi del XIII secolo e che da allora, nei suoi vari perfezionamenti tecnologici, è diventata uno dei mezzi con cui si sono misurate (beffardamente ritorna qui il cànone come unità di misura) le volontà e le pretese contrapposte di popoli e Stati, soprattutto in Europa.
Dentro questi due significati generati da una medesima radice si possono riconoscere i due termini dell’equilibrio e dello squilibrio, della composizione armonica secondo un disegno positivo da un lato e, dall’altro, della contrapposizione distruttiva e autodistruttiva delle parti. Due termini che ciclicamente contraddistinguono il lungo corso della Storia e che sono stati a più riprese evocati nel confronto tra gli anni Venti del Novecento e i Venti del nostro secolo. Il confronto è nato in concomitanza con il centenario della Prima guerra mondiale e dei Trattati di Versailles, ma poi ha purtroppo trovato sostanza “palpitante” in eventi nazionali e internazionali che hanno creato dei parallelismi più profondi e per molti versi anche preoccupanti.
L’Europa spaccata e ancora piena di ostilità che uscì dal conflitto del ‘15-’18 aveva aspetti che si rispecchiano nell’Europa litigiosa e inconcludente di oggi: Brexit (l’abbandono della Comunità europea da parte della Gran Bretagna), difficoltà ad avviare programmi coordinati anti crisi (solo in parte superate sotto le urgenze da COVID-19), sospettosità reciproca sul tema del bilancio comune per azioni di politica economica su scala continentale, debolezza e incompletezza delle Istituzioni (ahinoi, travolte anche da scandali), le sirene della demagogia e del populismo e, da ultimo, lo scoppio del conflitto tra Ucraina e Russia con potenziali ripercussioni mondiali che le ultime guerre europee, quelle nei Balcani, pur nella loro drammaticità non avevano.
Gli anni Venti del Novecento furono gli anni del lucano, nativo di Melfi (1868), Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio tra il 1919 e il 1920 (altro centenario ricorrente) che si trovò ad affrontare contemporaneamente le richieste di progresso sociale all’interno (il cosiddetto “Biennio rosso”), la tentazione di soluzioni radicali (tra cui anche la vicenda di D’Annunzio a Fiume) e la conclusione dei Trattati internazionali per la ricostruzione politica ed economica dell’Europa dopo la guerra. Il suo governo fu molto criticato per debolezza e attendismo (è lui il Sig. Cagoia di D’Annunzio), ma la verità è che tutto il Paese, da poco riunificato, era arretrato e fragile rispetto alle trasformazioni del Secolo Breve.
Nitti fu protagonista e testimone di quegli eventi, e la sua vasta produzione scritta contiene analisi e previsioni che, oltre a essere veri e propri documenti storici di bellezza anche letteraria per la ricchezza delle descrizioni e la lingua alta, hanno molto da raccontare anche ai nostri tempi. In particolare, quattro volumi, scritti tra il 1921 e il 1925, i primi tre conosciuti come la trilogia nittiana sulle condizioni dell’Europa, “L’Europa senza pace”, “La decadenza dell’Europa” e “La tragedia dell’Europa”, e il quarto che, sulla scorta dell’analisi dei precedenti, si interroga su come riconquistare un duraturo sentiero di pace e sviluppo, “La Pace” appunto.
Ma chi fu Nitti? Sapevo già chi fosse, anche senza avere mai studiato il suo pensiero, quando, durante il corso di Scienze delle finanze a Milano-Bocconi, Roberto Artoni, nel ripercorrere le tappe fondamentali dello sviluppo di una disciplina che alle sue origini deve tanto a giuristi ed economisti italiani, sottolineò come il posto riservato a Nitti restasse ben al di sotto del rilievo e della poliedricità dei suoi contributi.
Le Scienze delle finanze studiano il bilancio pubblico, il funzionamento del sistema impositivo e gli effetti delle spese pubbliche sull’economia e sulla distribuzione dei redditi tra cittadini e tra territori. Nitti, favorito anche dall’essere cresciuto in famiglia borghese in un piccolo contesto contadino del Mezzogiorno, le impresse quei connotati di concretezza, risolutezza e multidisciplinarietà che spesso mancavano ai colleghi più innamorati della teoria, e che nelle sue mani fecero della materia qualcosa di molto più simile a quella che nel nord Europa e nelle Università anglosassoni era già l’Economia pubblica (Public economics), interessata, oltre che al bilancio, alla strutturazione e all’ottimizzazione dell’intervento pubblico nell’istruzione, nella sanità, nel sistema sociale, nella realizzazione delle grandi opere soprattutto nei settori dei cosiddetti monopoli naturali (energia, trasporti, approvvigionamento idrico).
Tutti questi temi furono inseriti, con precise prese di posizione, nel programma del Partito Radicale storico (i Partiti storici non vanno confusi con quelli della seconda metà del secolo in epoca repubblicana), di cui Nitti fu tra i fondatori.
Ai surriscaldati temi internazionali del tempo Nitti si applicò con la stessa combinazione di capacità analitiche, visione di insieme e concretezza risolutiva. Le sue valutazioni riescono a fare stare assieme i punti di vista diametralmente opposti di due altri economisti del primo Novecento, il britannico Keynes de “Le Conseguenze economiche della Pace” e il francese Mantoux de “La Pace cartaginese – le conseguenze economiche di Mr. Keynes”. Come Keynes (con cui ebbe scambi epistolari), Nitti riteneva che i Trattati di conclusione della Prima guerra mondiale (Versailles, Saint Germain, Neuilly, Trianon, Sèvres) non preparassero un futuro di pace ma avessero una natura intrinsecamente punitiva in cui si perpetuavano le ostilità dei secoli precedenti, quella franco prussiana interna al mondo carolingio e quella tra mondo carolingio e mondo slavo lungo il confine ovest-est che un ventennio dopo Winston Churchill avrebbe chiamato “Cortina di ferro”.
Tuttavia, diversamente da Keynes, per Nitti le criticità dei Trattati non riguardavano soltanto gli aspetti economici e le riparazioni di guerra, che in effetti furono molto alleggerite e diluite rispetto alle prime quantificazioni attirando le sferzanti critiche di Mantoux che avvertiva il pericolo di ridare possibilità di riarmo agli stessi fronti contrapposti di prima.
Per Nitti il “convitato di pietra” ai tavoli della pace era il progetto politico della nuova Europa, totalmente assente o addirittura avversato. Non era pronta un’idea o una aspirazione di Europa diversa da quella entrata in guerra qualche anno prima. Inoltre, nella trilogia sono ripetutamente sottolineati due fatti destinati a pesare nei decenni successivi con conseguenze che arrivano sino ai nostri giorni.
Il primo fatto è che la latitanza di un genuino endogeno progetto europeo fece sì che sulle decisioni più rilevanti avessero troppo peso gli Stati uniti nella persona del Presidente Wilson, che Nitti critica perché, senza avere alcuna conoscenza dei popoli e dei territori dell’Europa dell’est, si occupò di tracciare la nuova mappa politica in alcuni casi accorpando e in altri dividendo, avendo come riferimento solo i suoi bellissimi ma astratti “Quattordici punti” scritti a Washington e votati dal Congresso. Le critiche a Wilson sono tutt’uno con quelle che Nitti muove alla neonata Società delle nazioni (la progenitrice dell’ONU), a cui rimprovera di agire in nome dei vincitori e non come un consesso super partes con la finalità di seminare fiducia.
Il secondo fatto sono, come li definisce Nitti, i destini della Russia.
Nitti esprime continue preoccupazioni che la rivoluzione comunista del 1917 potesse dividere in due l’Europa e divaricare a lungo, o addirittura per sempre, i percorsi delle due parti del continente. Nelle pagine de “La Pace” chiede uno sforzo congiunto internazionale per lasciare il più possibile aperti i rapporti con la Russia e, tramite il dialogo, mantenerla legata alla famiglia europea a beneficio di tutti. Andava evitato l’oltranzismo che invece calò. Se queste sintetiche ricostruzioni vi ricordano qualcosa dei giorni nostri non vi state sbagliando. A distanza di un secolo, sul fronte tra Ucraina e Russia l’Europa si presenta ancora titubante, divisa tra convenienze, incapace, pur su questioni che la riguardano alle radici, di un indirizzo autonomo distinto sul piano strategico da quello dall’Alleanza Atlantica che ormai, legata al mondo bipolare e ideologizzato del secondo Novecento, sembra sempre più vecchia e inadeguata negli strumenti e persino nel linguaggio.
Non è invece invecchiata, e anzi è la sfida che ancora ci attende, l’idea di Stati uniti d’Europa che Nitti descrive nell’ultimo capitolo de “La Pace”, in cui argomenta i vantaggi politici, economici e sociali di un continente senza barriere e proteso a valorizzare al meglio risorse umane e materiali. In quel continente Nitti inseriva anche la Russia.
Per osservare qualcosa di vagamente simile bisognerà aspettare parecchi anni, il 1957 con i Trattati di Roma. Sicuramente tanto è stato fatto da allora, ma il cantiere è ancora in corso.
Per i suoi scritti dedicati all’Europa, Francesco Saverio Nitti ricevette per ben tre volte (1922, 1923 e 1924) la proposta di candidatura al Premio Nobel per la Pace, che si scontrò con le resistenze degli ambienti nazionalisti soprattutto francesi e italiani, a dimostrazione di quanto poco si fosse appresa la pesantissima lezione della Prima guerra mondiale, e quanta cecità ci fosse sui disastri che ancora si andavano preparando.
In questi mesi in cui l’Europa è di nuovo tornata senza pace, è utile ricordare questo protagonista del Novecento nato in Lucania, tra i padri del progetto di un’Europa unita negli stessi anni di Monnet e prima di Schumann e Spinelli, che si spese per la pace e l’edificazione democratica tra le due guerre e che, pur avanti negli anni, non fece mancare il suo apporto e il suo magistero all’Assemblea costituente.
Si spense a Roma nel 1953.