Il Canone inteso come regola della società il cui scopo è quello di definire bellezza e armonia affonda le sue radici nel V secolo a.c. È infatti lo scultore Policleto a tradurre la simmetria del corpo umano in proporzioni numeriche sempre riconoscibili e applicabili alle arti visive. Proporzioni che poi hanno, nei secoli, dettato le regole del valore estetico di perfezione da raggiungere in ogni opera.
Arte e architettura sono state a loro volta influenzate da questi canoni estetici. Nell’arte classica per esempio troviamo il Pondus e il Chiasmo intese come proporzioni di misura e peso delle parti rispetto al tutto in una scultura. Allo stesso modo l’architettura razionale del movimento moderno vuole imporre una linguaggio del costruito che comunichi tecnica, conoscenza e facilità di ripetizione nel tempo e nello spazio. Si tratta di quel movimento architettonico che segue la rinnovata funzionalità, velocità e internazionalità della Società. La comunicazione tra le parti deve dunque essere semplice e di immediata comprensione per poter essere espansa in tutto il globo. Si pensi solo ai cinque principi di Le Corbusier legati al concetto della casa come macchina per abitare.
La perfezione è una lettura teorica della realtà. Studiarne i fenomeni fisici e sociali comporta l’intrinseca necessità di trovare un modo univoco di comunicarli.
Basti pensare agli studi sulla proporzione aurea. È il rapporto matematico che concretizza quello che Policleto aveva precedentemente teorizzato misurando empiricamente le parti del corpo di un numero sufficiente di persone. Le singole parti sono in proporzione al tutto, secondo uno specifico rapporto.
Nei secoli è diventato un canone di bellezza assoluto tanto da essere definita “divina proporzione”. Le origini divine di questo principio di bellezza trovano riscontro nella sua presenza in natura, diventando un parametro chiave per definire una certa estetica bella ed armoniosa. Quello che però viene trascurato in queste teorie è la non applicabilità della teoria ad ogni singolo caso in natura. Ma allora ciò che viene definito bello secondo determinate proporzioni è davvero bello ai nostri occhi o è solo la conferma di una mentalità che affonda le sue radici in una storia lunga millenni?
Dove c’è bellezza ed armonia c’è spesso rapporto aureo. Spesso, non sempre. Io credo che a livello sociale abbia avuto senso fino al secolo scorso, ma che ora non sia più possibile forzare questo pezzo di puzzle entro confini che non gli appartengono. È una questione di visione. Questa è potente solo quando tiene traccia delle impronte della storia e delle regole che ha dettato, ma credo debba, per sua essenza libera, necessariamente guardare avanti. I canoni esistenti sono la misura necessaria, non discriminante, del loro approfondimento, superamento e strumento di maggiore aderenza con la realtà; non di come vorremmo fosse la realtà. Sempre che lo scopo del singolo sia agire sugli effetti possibili che ha su di essa. Finché il campo di azione rimane quello teorico è vero che il ventaglio di ragionamento è molto più ampio, seppur più limitato quanto a interpolazione delle arti.
Il pezzo del puzzle, il canone, non dovrebbe più essere forzatamente imposto al quadro finale non suo, ovvero la natura. Semplicemente dovrebbero esistere più puzzle, con regole, colori e forme loro, in grado di ospitare i pezzi mancanti.
Ciò che ho appena descritto deve e dovrà comunque essere sempre una tendenza, dato che la perfezione non esiste in natura e dunque non sarà mai possibile alloggiare sempre tutti i pezzi. Sicuramente però una tale tendenza del pensiero comune porta ad allargare lo spettro dei punti di vista riguardo il canone estetico. Si arriva a quella serena consapevolezza del fallimento in senso di raggiungimento di perfezione ma dall’altra parte si ha la giusta carica pragmatica per arrivarci tendenzialmente il più possibile vicino.
Invece a volte ho come l’impressione che la società non sia ancora entrata del tutto in questa tendenza e cerchi piuttosto di aggrapparsi saldamente ai pochi capisaldi del passato che hanno fatto la storia della bellezza senza che si riesca quasi mai a scardinare questa abitudine.
Vedo tanti ambiti della vita quotidiana fermi in questo senso e non intendo solo canone estetico a livello di corpo.
Recentemente mi è capitato di parlare di architetture milanesi con alcune persone conosciute al solito bar di quartiere sotto casa e il dibattito si è acceso quando sono emersi temi riguardanti il canone estetico architettonico milanese degli anni 60. Muovendoci tra Magistretti e Ponti una delle tesi sostenute intorno al tavolo è stato quello del canone inteso come linee guida del gusto estetico di quegli anni che non potranno mai più essere replicati nelle architetture odierne, dando a quest’ultime solo accezione negativa.
Io stessa amo quell’estetica elegante e senza tempo che solo artisti, designer e architetti di quel tempo hanno saputo darci ma, allo stesso tempo, non posso che pensare che sia un limite quello di ritenere impossibile il poter avere la stessa potenza sulla società oggi con il nostro pensiero contemporaneo.
Lo vedo come un peccato e ispirarsi solo e unicamente a quel tempo è per me plagio e sinonimo di poca aderenza ai temi attuali da esplorare.
Gli anni ’60 dell’Architettura e del Design erano ancora gli anni della ricostruzione e del boom economico. Erano gli anni in cui i giovani erano liberi di investire il tempo pensando ai sogni, definendone le priorità di ogni singolo aspetto dello scopo. Molte volte questo ha portato ad una cura minuziosa del bello che non ha eguali nella storia degli ultimi secoli. In altri casi invece ha portato ad edifici che oggi, ai nostri occhi, sembrano gravemente incompatibili con l’ambiente in cui si innestano.
Basti pensare al progetto dell’Università della Calabria che viene sviluppato nel 1974 in seguito ad un concorso internazionale e i cui vincitori furono Vittorio Gregotti con Emilio Battisti, Hiromichi Matsui, Pierluigi Nicolin, Franco Purini, Carlo Rusconi Clerici e Bruno Viganò. Il progetto è una chiara fotografia del tempo. Si aveva la completa libertà di ridefinire i contorni del nuovo canone moderno, senza però considerare degli aspetti di impatto sul contesto che ora sono del tutto prioritari.
Il canone dunque cambia con il passare del tempo e ormai sarebbe impossibile definire un canone assoluto e duraturo nel tempo.
In aggiunta noi architetti contemporanei abbiamo secondo me anche l’onere etico di doverci interrogare su questioni di interesse ambientale e sociale su scala mondiale. Il canone estetico contemporaneo dovrebbe avere l’audacia di interpolare tutti gli elementi del sistema in cui si va ad insediare e, allo stesso tempo, avere l’umiltà e la consapevolezza che probabilmente sarà per pochi e poco duraturo nel tempo. Ha senso nel suo tempo, fino a quando non dovrà essere superato.
L’Arte ha, a mio avviso, la forza necessaria per imporsi in questo contesto, grazie alla sua fluidità e mutevolezza delle forme, dei materiali, della durata nel tempo e delle tecniche.
Mi vengono in mente in questo momento artisti viventi come Olafur Eliasson e Gabriel Dawe, i quali hanno entrambi un approccio molto singolare all’arte, nel senso di rispettare la propria essenza che viene comunicata attraverso un canone estetico riconoscibile. Ciò che il canone comunica viene tradotto nel rispetto del Site-specific in Opera D’Arte unica.
L’Arte in questo senso può comunicare dei messaggi di progresso al mondo che non si servano necessariamente di un linguaggio verbale e può valorizzare gli involucri in cui si insedia facendo tutt’uno con l’architettura che può avere così una vita più lunga e gloriosa, senza continuare a sovreccitare l’ambiente costruito.
Il canone estetico di cui abbiamo bisogno è quello che include la soluzione più efficace e di impatto. È quello che non distrugge la natura, anzi è in armonia con essa o almeno si fa portavoce delle proteste a suo nome. Infine deve essere il faro dell’innovazione. Una sfida complessa. Possiamo farcela ma non dobbiamo mai smettere di guardare con orgoglio l’obiettivo.