“Colui che è innamorato non vede il proprio riflesso nell’acqua.”
“Allora cosa vede?”
“Contempla la sua anima.”
Bab’Aziz – Il principe che contemplava la sua anima (2005) del regista tunisino Nacer Khemir è il terzo film di una trilogia, la cosiddetta Trilogia del deserto, comprendente “I figli delle mille e una notte” (1984) e “La collana perduta della colomba” (1991).
Le riprese sono state effettuate in parte in Iran e in altre in Tunisia, a Tataouine, il luogo che ha dato tra l’altro, volto e nome a Tatooine di Guerre stellari.
La trama
“È sufficiente camminare, solo camminare
E se ci perdiamo?
Chi ha fede non si perde mai.”
Bab’Aziz è un anziano derviscio cieco che attraversa il deserto accompagnato dalla sua nipotina Ishtar (dal nome della dea babilonese dell’amore e della fertilità ) per recarsi a un misterioso raduno di dervisci (monaci-mistici che utilizzano il canto e la danza come metodo di consapevolezza e di illuminazione spirituale) che si tiene ogni trent’anni, in un luogo sconosciuto agli invitati. Una musica dolcissima li accompagna, le poesie di Rumi, Attar, Ibn Arabi, Ibn Farid e di altri mistici sufi riempiono l’aria. E’ il canto della semplice vita quotidiana, della magia di una notte del deserto tempestata di fuochi , è la ricca sensualità verbale del canto d’amore.
Durante il viaggio, Bab’Aziz racconta alla nipote la favola di un principe che un giorno, improvvisamente, decide di rinunciare al suo potere e agli agi per inseguire una gazzella attraverso il deserto. Giunto ad una pozza d’acqua vi scorge, invece del viso, la sua anima (in una inusuale variante del mito di Narciso) e nella totale contemplazione di essa, scivola verso il mondo dell’intangibile.
Scoprire la propria interiorità
“Il principe che contemplava la sua anima” (che intreccia una storia, quella del principe viaggiatore, nella storia ) non racconta ovviamente solo di un pellegrinaggio nel deserto alla ricerca del raduno dei sufi, ma soprattutto un percorso interiore, il viaggio alla scoperta di sé per sondarne l’ampiezza e la profondità, avvolti nella luce della soglia tra il giorno e la notte, dove la notte non è altro che il rovescio di un altro oggi.
E d’altronde, ogni essere umano non è forse una creatura di confine, errabondo ai margini di un’identità e di un’essenza inafferrabili, straniero a se stesso, anima migrante in luoghi che non possiede?