In regni lontani nel tempo, c’era una volta la narrazione orale delle fiabe, patrimonio educativo sacro per ogni civiltà del pianeta. Strumento per la trasmissione di valori, conoscenze e insegnamenti, i racconti fiabeschi erano considerati come scintille vitali per accendere la fantasia, dialogare con i mondi invisibili, rintracciare i fili del bene e del male disegnati dal Fato, utili anche per costruire il tessuto dell’identità morale della comunità.
Poi la voce dei racconti si iniziò a materializzare nell’imperitura forma della scrittura, anche d’autore, e arrivarono le favole, convenzionalmente caratterizzate dalla forma scritta rispetto alle fiabe, che si tradussero in cultura materiale.
Si pensi a quante ingegnose menti di studiosi hanno ripercorso, nei secoli, le avventure “magiche” di animali parlanti, creature straordinarie, eroine ed eroi, a partire dagli amanuensi che permisero di custodire nei secoli le favole evergreen di Esopo e Fedro.
Con l’invenzione della stampa, poi, la tecnologia iniziò ad avere un ruolo da protagonista nella divulgazione delle favole. Sulle pagine di carta stampata, infatti, si perimetrarono i confini di un universo incredibilmente vasto e complesso, che arrivò ad intrattenere (o addormentare) i piccini di ogni paese, destinatari primari di un “genere letterario”, la letteratura per l’infanzia, le cui origini in Europa sono state oggetto di acceso dibattito tra gli addetti ai lavori.
Per alcuni coincide con la pubblicazione de Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille, la raccolta di favole di Giambattista Basile, edita a Napoli tra il 1634 e il 1636; per altri è il 1697, anno in cui Charles Perrault pubblicò I racconti di mamma Oca.
Sicura, invece, è la data in cui il mondo fiabesco è stato nobilitato come oggetto di studio delle discipline umanistiche moderne: 1928. Questo è l’anno in cui Vladimir Propp pubblicò il saggio Morfologia della fiaba, in cui codificò le 31 funzioni della teoria narratologica, legittimando il patrimonio della tradizione come archivio di dati/archetipi/costrutti universali a cui attingono antropologia, semiotica, sociologia, psicologia, linguistica e, non ultima, arte, visto che l’illustrazione dai manoscritti miniati ai cartoon ha avuto un ruolo determinante nel contesto dell’immaginario delle Fairy stories. Sono abbastanza convinta che se si operasse un’analisi statistica sulle citazioni delle tesi di laurea in ogni ambito delle scienze umane, dalla metà del 900’ ad oggi, l’antropologo russo sarebbe nella top five delle note bibliografiche.
Dagli anni Sessanta, un’ulteriore evoluzione della tecnologia prêt-à-porter, ha poi permesso di diffondere le gioie delle favole portatili a prezzi abbordabili che fecero un rivoluzionario incantesimo di massa. Le fortunate famiglie del boom economico, infatti, dotarono i pargoli di ma(n)giadischi e ma(n)gianastri, svincolandosi, di fatto, dall’istituzione della “favola della buonanotte” a vantaggio del relax serale davanti al piccolo schermo. Sono sicura che ancora a tanti risuonerà teneramente familiare la sigletta di “A mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar”.
A seguire la rivoluzione GlobalTech di internet rapidamente ha fatto traslocare il favoloso esercito di fate, sirene, streghe e maghi, principesse, elfi, orchi cattivi, lupi e pirati, su pc, cellulari, tablet e dispositivi domestici tipo Amazon Alexa.
Con l’avvento dell’era digitale, la tecnologia non ha solo cambiato ulteriormente il modo in cui si raccontano le storie, ma ha anche ridefinito i confini di senso della favola, che da magica esperienza di narrazione partecipata, si è trasformata in esperienza interattiva, multisensoriale, personalizzata (e spesso solitaria) grazie all’incredibile offerta di app modello Inventastorie 5.0, più vicine all’intrattenimento ludico che all’idea di trasmissione creativa di idee e suggestioni per stimolare la fantasia.
L’intelligenza artificiale, infatti, sta emergendo come una nuova musa capace di reinventare inedite modalità di racconto digitale “su misura” dei frenetici tempi moderni. Per curiosità visitate i vostri digital stores. Tra gli infiniti esempi cito solo le app Wendy StoryTeller, Personal Story Creator, Storie Notte Personalizzate. Assodato che le favole non muoiono mai, ma si trasformano, non solo nelle dinamiche di trasmissione ma anche nei contenuti, ai tempi dell’AI però urge chiedersi: cosa rimane dell’essenza educativa, originaria della Favola?
Italo Calvino che raccolse e rivisitò l’enorme patrimonio della tradizione nazionale (“Fiabe Italiane”, 1956) affermò: “Io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna”. Ma oggi gli ibridi racconti che viaggiano sui codici binari sono ancora in grado di trasmettere questa “verità”? Gli input che provengono da un mondo già saturo di iper effetti artificiali e stimoli virtuali possono ancora ispirare stupore?
La tradizione narrativa, inoltre, implica che per comprendere la “morale della favola” i protagonisti devono superare ostacoli e pericoli spesso truculenti, a tratti impressionanti, per far provare emozioni forti, come la paura e lo smarrimento, utili ad instillare quella ansiosa consapevolezza necessaria ad educare alla realtà in cui lupi cattivi, orchi e streghe “lancia maledizioni” sono presenti in incognito. Oggi si assiste, invece, anche ad un diffuso “delitto di edulcorazione” di molte storie che il politically correct imperante ritiene troppo traumatizzanti per i piccini del nuovo millennio. Il problema fu già disvelato da Natalia Ginzburg nel 1972 in Senza fate e senza maghi.
“Le ragioni per cui oggi scrivere per i bambini è così difficile, sono infinite, ma una certo è che è nata in noi l’idea che ai bambini tutto può far male. La fantasia ci atterrisce perché è avventurosa, imprevedibile e forte. Noi ne abbiamo poca, e per giunta l’adoperiamo con mani parsimoniose e schifiltose. Quando si scrivono o si stampano libri per bambini, per prima cosa si sbarrano porte e finestre. No alle storie di dolore perché il dolore fa male. No alle storie di miseria perché sono patetiche. No alle lagrime. No alla commozione. No alla crudeltà. No ai cattivi, perché non bisogna che i bambini conoscano la cattiveria. No ai buoni perché la bontà è sentimentale. No al sangue perché fa impressione. No ai castelli lussuosissimi perché sono evasione. No alle fate perché non esistono. I bambini sono fragili e perciò li nutriremo con vivande lavate e disinfettate. Li educheremo alla concretezza, avendo però sterilizzato la concretezza, avendo isolato nella concretezza ciò che non manda né bagliori né lampi.”
Semplificando, un po’ a malincuore, non ci resta che chiederci se ci saranno in futuro bimbi che immagineranno che il robot di casa alla fine diventerà umano, come Pinocchio. Paradossalmente lo “Specchio delle mie brame” a cui chiedere risposte oggi esiste davvero: è il display che si utilizza quando si utilizza Chat GPT e simili. Sarà mica un caso che l’icona operativa di molti programmi di intelligenza artificiale sia proprio la bacchetta magica?