C’era una volta la pietra… Pietra che dà origine a una vicenda millenaria. Potrebbe cominciare più o meno in questo modo una favola per la città di Matera. C’era una volta la pietra. O forse: c’era una volta il dolore della pietra. Un dolore sottile e silenzioso che solcava le rughe di calcarenite nel labirinto dei Sassi e fra le pareti tenere e malleabili delle primigenie grotte di tufo che hanno segnato per secoli i respiri e le fatiche di generazioni. Quegli stessi anfratti che seppero catturare sgomenti e stupori di viaggiatori, architetti, antropologi, confinati, studiosi d’ogni risma e artisti giunti da molti Altrove.
Sguardi estranei che però, in mezzo alle afflizioni stratificate dai sedimenti sabbiosi, fra granuli di roccia clastica, seppero riconoscere la presenza di un’oscura bellezza.
Di un irragionevole incanto, frammisto a destini di miseria e marginalità. C’era una volta la meraviglia della pietra che covava accanto all’umano dolore. Così, per una strana combinazione, quella pietra ha imparato, poco a poco, a fiorire. Una fioritura fatta di idee, di progetti visionari, di fatalità. Immaginari che non giungevano soltanto da sguardi esterni, ma nascevano dall’interno della stessa comunità ed erano capaci di inserirsi nella traccia di un pensiero meridionalistico più ampio. Capace di oltrepassare i ristretti confini della città e della stessa regione. Si pensi a quanto è stato capace di produrre un grande intellettuale qual è stato Leonardo Sacco, connesso al pensiero e all’azione del Movimento Comunità, di olivettiana memoria, e all’opera dell’architetto Marcello Fabbri. Lavoro, quello di Sacco, che ha portato alla pubblicazione di periodici prestigiosi come “La Città” e “Basilicata”.
Spazi di analisi e di proposta fondati, sostanzialmente, su un’idea forte: il convincimento che non ci possa essere autentico riscatto, in questo Sud periferico e ferito, senza un processo consapevole e partecipato da parte della comunità e senza la guida di classi dirigenti preparate, all’altezza del proprio compito. Senza la definizione di nuovi orizzonti politici fondati su una elaborazione autonoma. Senza una programmazione nuova, capace di partire dal basso.
Matera, fino al dopoguerra, è stata paradigma delle piaghe e delle contraddizioni che affliggevano i Mezzogiorni di questo nostro Paese. Questa realtà l’avevano percepita e denunciata, a metà ‘900, sguardi estranei alla sua storia. Tutti rimasti costernati dinanzi alla scoperta di una condizione umana insospettata, che allignava nel “cortile di casa”.
Ci vollero personalità come Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi perché lo scandalo potesse raggiungere gli orecchi dei decisori. Fu un grido che scosse la coscienza dell’intero Paese. Togliatti parlò di “vergogna d’Italia”. E De Gasperi pronunciò quelle parole: “…se finora nessuno si è preoccupato di queste persone, è venuto il tempo che si faccia qualcosa in loro favore per liberarle da una tristissima condizione”.
Era il presupposto della legge speciale sui Sassi, la numero 19 del 17 maggio 1952. Primo passo di un lento processo di rinascita che avrebbe portato a completare l’operazione di recupero, con annesso trasferimento del popolo residente nelle abitazioni civili costruite nei nuovi quartieri di La Martella, Serra Venerdì, Lanera, Venusio. Un’azione, questa, che ha richiesto ben trentaquattro anni per giungere al proprio compimento: la legge 771 sarebbe stata approvata, infatti, l’11 novembre 1986. Fu un processo non semplice, né scontato, che in primo luogo salvò il patrimonio dei Sassi dalle tentazioni di abbattimento (come, invece, avveniva in rioni storici della vecchia città di Potenza: si pensi, ad esempio, a Vico Addone raso al suolo, insieme alla sua storia e alla sua memoria, sotto le carezze metalliche dei bulldozer).
Quello realizzato a Matera fu un progetto di recupero che si propose, meritoriamente, di provare a mantenere, nelle nuove residenze, anche i rapporti di vicinato. Relazioni intorno alle quali si era fondata, per generazioni, la vita degli abitanti nei Sassi. Un’azione lungimirante ma che, all’epoca, fu comunque percepita da tanti come un fatto traumatico. Una sorta di deportazione obbligata. Questo passaggio, certamente decisivo per la città di Matera, non poteva risultare però sufficiente alla realizzazione del completo riscatto di un popolo.
Ci si era lasciati alle spalle, non senza fatica, i turbamenti vissuti da Carlo Levi, raccontati nel suo Cristo si è fermato a Eboli quando, dinanzi all’inferno di “cenci stesi”, di esistenze abbandonate a miserie e promiscuità obbligate (di umani e bestie), di scenari desolanti fatti di “lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizzi”, affermò: “sembrava di essere in mezzo a una città colpita dalla peste”. Ma qual era la strada maestra da seguire? Quale il percorso che avrebbe potuto condurre alla redenzione?
È nella ricerca di una risposta a questo interrogativo che il destino di Matera del nuovo millennio comincia a compiersi. E prende la forma di un convincimento: trasformare l’antica miseria in bellezza. Ma per far questo, prima ancora, occorreva imparare a riconoscere la bellezza che già era custodita nell’asperità delle sue pieghe più ingrate.
E la bellezza cercata fioriva innanzitutto dentro gli alfabeti dell’arte e della cultura.
È accaduto quando le antiche chiese rupestri, insieme alle strade e alle piazze, sono diventate musei vivi. Teatri a cielo aperto. Altari di una laica sacralità. Spazio di esposizione per creazioni preziose realizzate da scultori, pittori, musici, poeti e offerti alle emozioni di residenti e visitatori.
C’era una volta la pietra che imparava a fiorire. Il poeta Paul Celan ha saputo dirlo con parole memorabili: “È tempo che si sappia. / È tempo che la pietra / accetti di fiorire, / che l’inquietudine abbia / un cuore che batte. / È tempo che sia tempo”.
È stato poi un linguaggio dell’immaginario, come quello del cinema, a saper scovare, in mezzo alle crepe del tufo, il miracolo che vi era custodito. Anticipatore visionario di questa possibilità è stato un regista che però, prima di essere regista, era innanzitutto poeta.
Pierpaolo Pasolini, già nel 1964, riconobbe nel paesaggio petroso di Matera la sua ideale Gerusalemme. Quella che avrebbe fatto da palcoscenico al suo “Il Vangelo secondo Matteo”. Opera straordinaria, con Enrique Irazoqui che prestò la sua faccia al Cristo e Susanna Pasolini (madre del regista) che segnò, col suo volto e le sue lacrime, il tormento di Maria. Pasolini suggerì la possibilità di inoltrarsi su questo sentiero sino ad allora inesplorato. Un sentiero lungo e impervio. Ci vollero infatti altri quarant’anni perché, in mezzo a quei Sassi, giungesse Mel Gibson, regista americano, che vide nelle pietre di Matera e tra le viuzze di Craco, la scenografia perfetta per restituire al mondo l’immagine del Golgota. E, proprio in quel paesaggio aspro, decise di ambientare “The Passion”.
Si erano rotti gli argini. Ora in tanti si accorgevano di quante suggestioni potevano regalare quegli orizzonti di tufo, le scure grotte, gli antichi tuguri. Tutto pareva capace di assumere nuovi significati. Di offrire imprevedibili potenzialità. Il patrimonio di un paesaggio (che c’era stato da sempre) diventava l’elemento portante di un potenziale progetto di crescita del territorio e dell’intera comunità.
Matera capitale europea della cultura 2019 in fondo è stata l’esplicitazione di questa sfida. La possibilità di riconoscere la bellezza che si possiede, di tutelarla, di metterla a valore e, attraverso di essa, di riconnettere i fili della propria storia per proiettarsi verso il futuro.
In quello stesso 2019, infatti, il cinema americano ha voluto riproporre lo scenario di Matera come spazio deputato per le acrobazie del James Bond con la faccia di Daniel Craig nel film “In no time to die”.
Fino ad approdare, in tempi recenti, ad alcune fortunate fiction televisive su Rai 1.
Come la serie “Sorelle” nel 2017 (regia di Cinzia Th. Torrini; nel cast c’erano – tra gli altri – Ivan Cotroneo, Anna Valle e Loretta Goggi) o “Imma Tataranni, sostituto procuratore” (liberamente tratta dai romanzi di Mariolina Venezia, con l’interpretazione di Vanessa Scalera, affiancata da Massimo Gallo, Barbara Ronchi, Alessio Lapice, Carlo Buccirosso). Fiction di gran successo che, dal 2019, è ormai giunta alla sua quarta stagione.
La strada da seguire sembra essere tracciata. Riconnettere i fili della storia per scommettere sulla capacità di tenere insieme memoria e futuro. Riuscire a inventare inediti percorsi per immaginare risposte efficaci alla minaccia di desertificazione dei territori.
Allo spopolamento arrembante che colpisce soprattutto Mezzogiorno e aree interne. Diventare il soggetto protagonista della spinta propulsiva di una realtà regionale, come quella lucana, che fatica a mettere a valore le proprie specificità: il patrimonio ambientale, storico, culturale, paesaggistico, le produzioni tipiche, le tradizioni. Evitando insomma di arrendersi a ignavia e rassegnazione. A un insensato spreco di risorse, intelligenze e potenzialità. Atteggiamento che marchia il territorio lucano come terra dell’abbandono. Luogo dal quale i giovani se ne vanno via (devono andare: e non per scelta, ma per mancanza di opportunità). E adesso partono persino i vecchi, desiderosi di raggiungere i propri figli disseminati nei molti Altrove.
Così il destino della Basilicata rischia di precipitare ineluttabilmente in un baratro dal quale diventa difficile risorgere. Bollati come terra e umanità di scarto. Terra nella quale si può destinare ogni genere di scarto (la mai scongiurata candidatura a ospitare il deposito unico nazionale di scorie radioattive – opzione respinta dai lucani, con la marcia dei centomila a Scanzano Jonico, il 23 novembre del 2003 – in fondo, non scaturisce anche da questo?).
La missione di Matera, se la stessa Matera sarà disponibile ad assumere su di sé la responsabilità e il peso di questo compito, oggi probabilmente può diventare questo, per il futuro di territori e comunità lucane: farsi paradigma di riconnessione dei fili, tra memoria e innovazione. Tra salvaguardia del patrimonio (ambientale, paesaggistico, culturale, storico) e un progetto partecipato, capace di metterlo a valore.
Tra ciò che siamo stati e ciò che possiamo essere. Si tratta di una sfida esemplare che può essere ben rappresentata dall’immagine dell’Angelus Novus che ci dona l’artista Paul Klee. Raffigurazione emblematica che il filosofo Walter Benjamin ha interpretato come metafora del cammino dell’uomo. È l’Angelo della Storia: gli occhi rivolti sul passato, le ali aperte come trascinate da un vento inarrestabile.
Dice, tra l’altro, Benjamin: “Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”
C’era una volta la pietra… Una pietra capace di fiorire. Pietra antica, con solchi profondi di calcarenite nei quali continuano a insinuarsi storie, memorie e sogni nuovi. C’era una volta una favola di pietra… Con un finale ancora tutto da scrivere.