Se volessimo simpaticamente riassumere la Divina Commedia con un titolo allusivo di una fiaba, non credo sarebbe improprio definire il nostro pellegrino Dante “il bello addormentato nel bosco”: nota attraverso le versioni di Perrault e dei fratelli Grimm, la fiaba de La Bella Addormenta narra la liberazione di una giovane principessa dall’incantesimo che l’ha costretto a dormire per cento anni in un inaccessibile castello avvolto da una fittissima boscaglia di rovi. Al di là delle debite differenze tra il racconto e il poema dantesco, le figurazioni sembrano simili: Dante è immerso in una selva oscura che gli impedisce di ritrovare la via del Bene, così come i rovi della fiaba non permettono a nessuno di avvicinarsi alla principessa; inoltre, come Dante, addormentatosi nel peccato, può essere svegliato solo da validi aiutanti (Virgilio e Beatrice), parimenti la bella addormentata dovrà dormire a lungo prima di ricevere la visita del principe che le ridarà la vita.
Questo incipit scherzoso con cui abbiamo inaugurato la nostra riflessione, ci induce ad analizzare brevemente gli elementi fiabeschi che sembrano trovare cittadinanza poetica nella Divina Commedia. Probabilmente il poema non sarebbe così accattivante e attraente se non accogliesse al suo interno una massa enorme di luoghi, animali, esseri mostruosi, diavoli, draghi e personaggi mitologici che già popolavano il mito o che comparivano molto simili nelle fiabe popolari. È infatti noto che la Divina Commedia accoglie molti elementi fiabeschi che ricollegano il poema alla tradizione favolistica e mitologica. Il viaggio ultraterreno del poeta, ad esempio, richiama direttamente il topos del percorso iniziatico tipico delle fiabe, dove l’eroe affronta prove, incontra creature straordinarie e supera numerosi ostacoli per raggiungere la conoscenza o la salvezza.
La selva oscura in cui Dante si smarrisce all’inizio dell’Inferno è una ripresa del motivo della foresta incantata, luogo simbolico di trasformazione interiore, o piuttosto spazio buio popolato da incognite e pericoli. Le tre fiere che ostacolano il cammino (la lonza, il leone e soprattutto la lupa) assumono il ruolo di figure antagoniste, simili agli esseri mostruosi delle fiabe che mettono alla prova l’eroe prima che riceva l’aiuto di una guida.
Virgilio stesso, che appare come un soccorritore del poeta, si configura come il classico mentore (il formalista russo Propp direbbe “l’aiutante”) che accompagna il protagonista attraverso un territorio sconosciuto; parimenti Beatrice si configura come la principessa-guida che introduce Dante alla conoscenza suprema, completando il percorso tipico dell’eroe fiabesco che, dopo aver affrontato numerose prove, giunge infine alla rivelazione e alla ricompensa. Numerosi sono poi i mostri e le creature mitologiche che popolano l’Inferno e il Purgatorio e che contribuiscono all’atmosfera fiabesca del racconto: basti pensare a Caronte, Minosse, Cerbero, Gerione, o ai Giganti, che richiamano creature colossali rappresentative di forze primordiali.
Questi elementi fiabeschi all’interno della Commedia avvicinano dunque la materia cantata alla tradizione mitica e popolare; non a caso i fiorentini mandarono una petizione al comune di Firenze nel 1373, per “essere istruiti nel libro di Dante, dal quale tanto nella fuga dei vizi quanto nell’acquisizione delle virtù quanto nella bella eloquenza possono anche i non grammatici essere informati”. D’altro canto, ci sono alcuni particolari che sembrano allontanare la Divina Commedia dal mondo della fiaba. Innanzitutto, le fiabe solitamente delineano una iniziale situazione di benessere e felicità, turbata poi da una contingenza che viene a spezzare gli equilibri: un divieto, un allontanamento, un’infrazione, una disgrazia o la semplice apparizione di un antagonista. Il poema dantesco, al contrario, si apre con la rappresentazione del totale smarrimento del protagonista, già immerso, sin dal secondo rigo del poema, nella “selva oscura”, consapevole, sin da subito, di essere uscito dalla “diritta via”.
Il lettore si imbatte immediatamente nella difficoltà e nell’angoscia che affliggono il personaggio (Tant’è amara che poco è più morte, Inf. I, 7); d’altra parte, il Dante autore, che ora ripercorre nella sua memoria il viaggio ultraterreno che ha vissuto il Dante personaggio, sa bene che chi legge ha bisogno di spiegazioni più dettagliate, e promette: (Inf. I, 8-9):
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Infatti presto sapremo che Dante, dopo aver subito cercato di fuggire dal pericolo dirigendosi verso un colle illuminato dal Sole, si era invece imbattuto nelle tre fiere che lo avevano ricacciato indietro nel buio della selva, fino all’arrivo del maestro Virgilio. Tuttavia, come Dante si sia ritrovato nel peccato e cosa abbia determinato la rottura di una ipotetica condizione di prosperità iniziale non è detto chiaramente nel testo, ma è desumibile dall’allegoria con cui viene presentato il maestro Virgilio (Inf. I, 63): chi per lungo silenzio parea fioco.
Il silenzio corrisponde infatti ad un tacere della Ragione, quella facoltà che ha il compito di indirizzarci al Bene, elemento imprescindibile nel nostro agire terreno, eppure insufficiente per cogliere pienamente la trascendenza dell’Eterno, per cui nella terza cantica sarà necessario l’intervento della Virtù teologale rappresentata da Beatrice.
Altro elemento distintivo rispetto allo schema classico della fiaba è l’incapacità del protagonista di produrre un cambiamento reale nella società. Il maligno, che è declinato nelle varie forme del peccato, non verrà sconfitto, ma verrà soltanto conosciuto dal personaggio per salvare la sua anima dall’aberrazione e dalla condanna eterna. Dante osserverà, apprenderà, capirà, e cercherà di offrire la sua esperienza ultraterrena a tutta l’umanità: la salvezza della sua anima assurgerà simbolicamente alla sperata salvezza dell’intera società. Si potrebbe dire che il mondo fiabesco di Dante non è un mondo pieno di sorprese ed evoluzioni, ma un luogo in cui da un lato il Male ha già trionfato (Inferno), e dall’altro il Bene ha già operato (Paradiso) o si prepara a farlo (Purgatorio).
Se il viaggio è una prova, esso è comunque puramente speculativo, un viaggio senza ostacoli e senza rischi, un percorso di conoscenza, un viaggio dell’anima.
Tuttavia, la Commedia può a buon diritto configurarsi come una Summa delle fiabe perché fornisce un campionario inimitabile dei vizi e delle virtù umane. Cosa sono le favole e le fiabe se non racconti che descrivono l’intero universo fisico e psichico dell’uomo, i desideri e i bisogni, le paure e i limiti, trascrizione figurativa e narrativa di ancestrali riti di passaggio delle società umane o incarnazione naturale di atavici sentimenti? Ogni fiaba, apparentemente un genere di intrattenimento, è invece un piccolo trattato di antropologia culturale. La consapevolezza che hanno i moderni della natura fittizia del racconto fiabesco non era una caratteristica degli uomini del mondo antico e medievale, per cui il mito era parte integrante di una narrazione considerata vera in tutti i suoi aspetti, e per cui non aveva molto senso sapere se quel mostro o quel luogo fantastico fosse reale o meno.
Non era dunque necessario, per l’uomo del Medioevo, selezionare elementi naturali (animali, piante, pietre) che fossero evocativi di un concetto astratto, poiché già la Natura stessa, in quanto immagine di Dio, era di per sé pregna di significazioni morali ed etiche. Alano di Lilla nel suo poema Rhythmus alter (Patrologia Latina, vol. 210, col. 579) scriveva che:
Omnis mundi creatura
quasi liber et pictura
nobis est in speculum:
nostrae vitae, nostrae mortis,
nostri status, nostrae sortis
fidele signaculum.
(“Ogni creatura del mondo / è per noi come un libro / una pittura, uno specchio: / della nostra vita, della nostra morte, del nostro stato, della nostra sorte è fedele simbolo”).
Questa concezione di un reale “gravido” era riconducibile al concetto medievale di allegoria, procedimento per cui un determinato oggetto o essere animato rimandava ad un concetto astratto e immateriale (dal greco ἄλλον ἀγορεύω, ossia “dico un’altra cosa”). In tal senso si spiega la grande importanza che nel Medioevo assumevano le grandi raccolte iconografiche che vanno sotto il nome di lapidari e bestiari, vere e proprie enciclopedie che catalogavano pietre e animali, poco importa se reali o immaginari, in base ai significati allegorici, morali, magici ad essi attribuiti da una sapienza che sarebbe riduttivo definire popolare, risalente invece ad Aristotele e alle Scritture, e portata avanti nel Medioevo dal notissimo Physiologus (trattatello del II-III secolo d.C. in lingua greca e poi tradotto in latino) e da testi ben noti a Dante, come le Etymologiae di Isidoro di Siviglia o il De universo di Rabano Mauro.
In barba ad ogni scrupolo scientifico moderno, tali opere testimoniano come l’uomo medievale fosse più interessato ad una conoscenza interpretativa della realtà, fonte di insegnamenti etici e morali, piuttosto che ad una speculazione oggettiva del Creato finalizzata ad una indagine logico-razionale dei fenomeni. Del resto, le Naturales Quaestiones di Seneca o il De Rerum Natura di Lucrezio, due tra le più note opere di fisica e cosmologia della letteratura latina, non avevano precipuamente uno scopo etico, ossia liberare, attraverso la conoscenza dei fenomeni naturali, il saggio dalla paura della morte e del dolore?
Se poi consideriamo il valore dell’immagine come strumento pedagogico di diffusione nel sapere, a partire dalle pitture paleocristiane e per finire alle grandi cattedrali gotiche e romaniche, è chiaro che l’elemento visivo è quello più immediato per riproporre coram populo tutti i sentimenti umani, vizi e virtù, passioni e angosce, fede e dannazione, trionfo e vendetta, santità e peccato.
Se dunque in questo allegorismo di fondo risiede il punto di contatto più profondo tra la Commedia e il mondo della favola e dalla fiaba, e se le fiabe sono specchio dei tempi che vogliono interpretare, ecco che è naturale che esse subiscano modifiche e aggiustamenti, come del resto testimoniano le tante varianti del mito classico. A tal proposito, pare significativo osservare come molti dei personaggi ereditati dal Tartaro virgiliano siano stati risemantizzati da Dante e dotati di caratteristiche e compiti più funzionali alla sua concezione dei regni ultraterreni.
La Divina Commedia infatti non recepisce passivamente la tradizione mitico-fiabesca, ma la reinterpreta per accomodarla meglio all’architettura morale e allegorica del poema e alla concezione del mondo del cristianesimo medievale. Un caso emblematico di questa operazione ermeneutica coinvolge la rappresentazione delle figure mitologiche, per cui appunteremo la nostra attenzione su due di esse.
Una delle più affascinanti figure mostruose che la fantasia di Dante ha modificato è Gerione. Nella mitologia greca, Gerione era una creatura mostruosa, un gigante a tre teste o con tre corpi fusi (definito tricorporis umbrae in Aen. VI, 289), con sei gambe e sei braccia (oltre a Virgilio ce ne parlano Esiodo, il mitografo Apollodoro e poi Ovidio e Orazio), regnante sull’isola di Eritia, situata ai limiti estremi dell’Occidente. Nei canti XVI e XVII dell’Inferno Dante pone Gerione a custode dell’ottavo cerchio delle Malebolge, dove vengono puniti i peccatori fraudolenti (e similmente Virgilio lo avevo collocato a custode dell’Averno), operando così una trasformazione radicale della sua figura attraverso la combinazione di elementi umani, animaleschi e fantastici che mutano il guerriero gigantesco in un essere dotato di un corpo unico diviso in tre nature (Inf. XVII, 10-15):
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Il volto umano è simbolo di falsità e inganno, il corpo ha invece sembiante di un diavolo, le zampe leonine ne accrescono l’aspetto terrificante, ma è simbolicamente significativa la sua coda, che rappresenta il pericolo maggiore che si annida nella frode che egli simboleggia (Inf. XVII, 25-27):
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.
Se il Gerione greco incarna la forza bruta, quello dantesco simboleggia l’inganno sottile, il peccato intellettuale che si cela dietro un’apparenza ingannevole. È probabile che Dante abbia trovato ispirazione, per arricchire figurativamente la figura di Gerione, sia nelle sculture mostruose che affollavano pulpiti e capitelli nelle chiese romaniche, sia in un brano dell’Apocalisse in cui si fa menzione di locuste dal volto di uomo e dalla coda velenosa di scorpione, con probabile allusione sia alla fatale attrazione che i fraudolenti sanno mettere in campo, sia ai raggiri maligni dell’inganno (in cauda venenum!), sia alla mutevolezza e inafferrabilità della realtà, che è restia ad ogni certa definizione e sfugge ad ogni determinazione univoca: proprio in questa manifestazione di affascinante e perversa complessità si annida la frode.
Un altro esempio di modificazione del materiale mitologico originario lo fornisce Caco, tradizionalmente, secondo il racconto virgiliano (Aen. VIII, 184 ss.) un gigante sputa-fiamme figlio di Vulcano e vivente in una tetra grotta presso il colle Aventino. Dante ne modifica molto l’aspetto, trasformandolo in un centauro sormontato da un drago fiammeggiante e con il dorso coperto da numerosi serpenti: è evidente che tale caratterizzazione somatica sia dovuta, come spiega al pellegrino il suo duca Virgilio, alla particolare attitudine all’inganno che Caco mise in campo durante il furto delle vacche di Ercole (Inf. XXV, 25-33). La trasformazione non riguarda solo l’aspetto somatico, ma anche la funzione del personaggio, che viene posto all’interno della settima bolgia riservata ai ladri (Inf. XXV, 1-33): il Caco dantesco è un centauro particolare, pien di rabbia e di scorno (Inf. XXV, 16), separato dagli altri centauri che nel VII cerchio (Canto XII) puniscono i violenti contro il prossimo. È evidente che tale collocazione risente della natura stessa del suo peccato, in quanto il furto ai danni di Ercole non comportava la violenza, quanto piuttosto il raggiro e il tradimento.
La variante dantesca si completa infine con un altro dettaglio significativo: Caco viene rappresentato con un drago sulla schiena, dal quale escono lingue di fuoco (Inf. XXV, 23-25):
Sovra le spalle, dietro dalla coppa,
Con l’ali aperte un draco si distende,
e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Questo particolare, assente nelle fonti classiche, rafforza il valore simbolico della figura:
il drago è un chiaro emblema della natura infida e distruttiva della frode, un segno della dannazione irrevocabile a cui Caco è condannato, mentre il fuoco che sprigiona, se ben addice bene alla sua natura di essere infernale, vale altresì come marchiatura divina per coloro che si macchiano di crimini fraudolenti.
Come già per Gerione, anche per Caco Dante sceglie volutamente di modificare le fattezze fisiche per crearne un emblema di un peccato più raffinato: non un semplice furto, ma un dolo premeditato con la conseguente falsificazione delle prove (evidente nella intelligente trovata di trascinare in grotta le bestie sottratte ad Ercole tenendole per la coda per simulare una direzione di marcia opposta), un’azione che non pertiene alla brutalità fisica, ma coinvolge la dimensione intellettuale della frode e della menzogna (Inf. XXV, vv. 28-30):
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino.
Questi due brevi esempi, se da un lato confermano come la Divina Commedia sia un’opera allegorica e teologica che si nutre di un immaginario fiabesco e mitologico, testimoniano come l’altissima speculazione filosofica e religiosa che ne è alla base non recepisca passivamente l’iconografia fantastica, ma operi significativi cambiamenti e ponderate innovazioni che meglio si prestano a richiamare valori e significati tipici del contesto di espressione. Le fiabe sono infatti modelli archetipici che trasformano schemi culturali e sociali in luoghi, paesaggi e situazioni; per questo, studiare le fiabe dal punto di vista semiotico può apparire molto più interessante che eviscerarne solo l’aspetto formale e compositivo, benché (come rimproverava Levi Strauss a Propp) i due approcci non possano mai dirsi completamente disgiunti. Ad ogni modo, la fiaba si presenta meno cristallizzata della favola, e per questo più malleabile (oggi diremmo “fluida”) ad adattarsi ai costumi del mondo che essa racconta.
La Divina Commedia, già solo con i pochi esempi che abbiamo citato, ci dimostra come elementi mitici e fiabeschi si modificano nel loro “fenotipo” perché sono sostanzialmente mutati nel “cariotipo”: Gerione e Caco appaiono diversi rispetto ai loro originari modelli classici perché si piegano ad esprimere significati diversi di cui non erano portatori prima di Dante.
È interessante osservare come, nel nostro mondo contemporaneo, le fiabe siano chiamate a interpretare i nuovi valori emergenti del femminismo, dell’inclusione, della parità di genere e dell’ambientalismo. È infatti noto che negli ultimi venti anni stiamo assistendo ad un cambio di paradigma epocale all’interno della cultura occidentale, propugnato da istanze in piena rottura con il passato (la cultura woke, ad esempio) e ben capaci di diventare presto un modello imperante di riferimento al punto da imporre (giustamente?) una revisione nella nostra abituale percezione della realtà. Non è dunque un caso che le prime fiabe a subire una variazione (o per alcuni, una deformazione) siano state quelle considerate più tradizionali, come Cenerentola e la Bella Addormentata: ora le principesse non sono più dimesse e passive fanciulle in attesa di un principe salvatore, ma diventano donne moderne indipendenti e coraggiose, pronte a rinunciare anche all’amore romantico per focalizzarsi sulla piena e autonoma affermazione di sé (si pensi al musical Cinderella 2021 di Kay Cannon, in cui la protagonista sogna di diventare stilista).
Analogamente, l’inclusione di culture diverse ha portato al ripensamento delle ambientazioni storiche di talune fiabe che, come dimostrano i remake cinematografici dei classici Disney, stravolgono il cuore della storia, svuotano il senso originale del racconto e sovrascrivono significati altri non presenti nell’originale. Emblematico è stato il nuovo film della Disney La Sirenetta (2023) che, rispetto al classico cartone animato del 1989, introduce innovazioni nella direzione dell’inclusione: l’attrice prescelta per interpretare la protagonista Ariel è una cantante afroamericana (si ricordi che la Sirenetta è un mito genuinamente danese), mentre le sorelle di Ariel hanno origini etniche diverse; Ariel stessa appare più desiderosa di scoprire il mondo piuttosto che di trovare l’amore del principe Eric. Non sono state risparmiate revisioni nemmeno alla colonna sonora, la quale ha subito piccoli ma significativi cambiamenti nei testi (ad esempio, nel brano Poor Unfortunate Souls sono state riscritte alcune frasi per evitare di veicolare il messaggio che le donne debbano restare in silenzio per conquistare l’amore degli uomini).
Altro esempio è offerto dalla principessa Merida, protagonista del film della Pixar Ribelle -The Brave (2012), una ragazza non certo in pericolo e in attesa di un principe, ma una giovane donna forte e determinata che rifiuta la regola, imposta dalla famiglia e dalla società, di sposare uno sconosciuto per ragioni dinastiche. È chiaro che Merida incarni un nuovo archetipo di principessa, lontano dagli stereotipi delle fiabe classiche: a differenza delle vecchie Cenerentola, Biancaneve o Aurora, che subiscono passivamente il proprio destino, Merida vuole essere autrice unica della sua vita, e combatte per la sua libertà e la sua indipendenza. Il conflitto tipico tra il Bene e il Male cede ora il passo ad un più moderno scontro generazionale tra Merida e sua madre Elinor.
Questi appena citati sono solo alcuni esempi di riscritture moderne di fiabe classiche: quanto ci sia di pionieristico in queste rielaborazioni e quanto invece sia dovuto alla sottomissione dell’industria cinematografica o editoriale al nuovo imperialismo del politicamente corretto, lo lasceremo decidere al lettore. Ma è innegabile che tutte le generazioni debbano confrontarsi con le fiabe e i valori di cui esse sono portatrici, poiché Fiabe e favole appartengono al vissuto di ogni tempo, di ogni popolo, di ogni stagione della vita umana. Generazioni intere si sono formate sui racconti di dei, demoni, principesse ed eroi, che continueranno, benché imbevuti di nuovi significati, a costituire il patrimonio genetico della cultura del futuro e che saranno sempre tramandati di padre in figlio.
Mi sia consentita a tal proposito una nota personale. Proprio mentre scrivevo queste piccole riflessioni sulla fiaba e la favola, a dieci metri da me, in una stanza accanto alla sala d’attesa, mia moglie ha dato alla luce la nostra piccola Olimpia, procurandomi una gioia così indescrivibile che potrei definirla “dantesca”, così intensa da essere ineffabile. Non so quali fiabe animeranno l’infanzia e l’adolescenza di mia figlia, ma certamente le cose più belle e più difficili da insegnarle passeranno attraverso i racconti del mito e delle storie senza tempo. Perché non c’è scuola, istruzione o paideia che possa prescindere dal sempreverde e insostituibile “c’era una volta…”