Fu camminando in mezzo ai sepolcri del Pere Lachaise, celebre e mastodontico cimitero parigino, in una giornata d’autunno di qualche anno fa, che fui colta dall’ispirazione per scrivere Eterni. Vite brevi e romantiche di grandi compositori, libro pubblicato dai milanesi di Vololibero nel 2018 e sempre in commercio.
Il Pere Lachaise è il cimitero civile più grande di Parigi ed è costantemente invaso da visitatori, curiosi, soprattutto ragazzi attratti dalla tomba di Jim Morrison. Vengono a donare mazzi di fiori, braccialetti, accendini colorati al loro idolo scomparso ormai da più di mezzo secolo, ma assurto a eterna icona rock. Ma non solo il Re Lucertola: tra i vicoli alberati che traboccano di fascino decadente ci sono circa 70.000 lapidi, e molte di esse ospitano le gloriose spoglia di artisti di fama internazionale, non soltanto francesi: Abelardo ed Eloisa, Moliere, La Fontaine, Oscar Wilde, Apollinaire, Edith Piaf, Maria Callas, Georges Bizet…
Ma fu precisamente nell’undicesima divisione che sentii il desiderio di omaggiare i grandi artisti dalla vita breve: davanti alla tomba verticale e dimenticata di Bellini, nato in Sicilia nel 1802 e morto a Puteaux, vicino a Parigi, nel 1835. Accanto a lui riposa Chopin, in un sepolcro sempre pieno di fiori freschi dai colori sgargianti. Invece Henry Purcell non è sepolto al Pere Lachaise ma nella sua abbazia a Westminster, nel West End di Londra. Anche di lui scrivo in Eterni, come illustre antesignano dei compositori morti anzitempo. Purcell è tra i maggiori nomi della musica barocca oltre che tra i più notevoli musicisti britannici. Però la sua vita è oscura, vissuta nella seconda metà del 17° secolo tra epidemie, incendi che devastarono Londra, inverni straordinariamente rigidi.
Henry riuscì a schivare la morte fino alla fine del 1695, quando si spense all’apice della fortuna e alla giovane età di trentasei anni, non sappiamo se per mano della moglie che lo fece morire di freddo lasciandolo fuori dalla porta di casa come punizione per essere tornato tardi e ubriaco, o forse avvelenato con una cioccolata, o più banalmente ucciso dalla tubercolosi. Comunque sia andata, lasciò alla moglie Frances l’intero patrimonio e il suo Paese privo di una tradizione musicale paragonabile a quella italiana.
Infatti quindici anni dopo la morte di Purcell, a Jesi, in provincia di Ancona nascerà un bambino che avrà vita più breve ma maggior peso nella storia della musica: si chiama Giovanni Battista Pergolesi. Fin da piccolo è affetto da spina bifida, forse poliomelite, di certo tisi, che gli provoca l’anchilosi della gamba sinistra. E fin da piccolo coltiva con straordinaria dedizione ed uguale talento l’amore per la musica, tanto che tutti a Jesi lo chiamano “il fanciullo prodigio” e che alcune famiglie nobili della zona si sentiranno in dovere di sostenerlo. Grazie a loro Pergolesi studierà alla prestigiosa scuola napoletana e riuscirà a dar vita ad opere immortali che gli doneranno un successo di proporzioni vastissime: Lo frate nnamorato, Il prigionier superbo, Adriano in Siria, l’Olimpiade, Il Flaminio. Ma soltanto nella clausura del convento di San Francesco, moribondo, comporrà il suo capolavoro, lo Stabat Mater, il suo meraviglioso canto del cigno, donato al mondo prima di spirare a soli ventisei anni, a Pozzuoli, il 16 marzo del 1736. Come forse toccherà in sorte a Mozart, anche Pergolesi sarà seppellito in tutta fretta nella fossa comune dei poveri. La sua parabola artistica si compie in soli cinque anni di febbrile attività, ma segna profondamente la storia della musica, grazie alla straordinaria fama postuma di una musica composta quasi tre secoli fa ma ancora e sempre attuale.
Ancora più universale e capace di rivoluzionare i canoni artistici dell’epoca fu la straordinaria opera di uno dei massimi geni artistici di sempre: Wolfgang Amadeus Mozart, il compositore più grande e universale, nato a Salisburgo a 46 anni dalla morte di Pergolesi, e fin dalla più tenera età portatore di un talento eccezionale. A 30 anni creò capolavori come Le nozze di Figaro, Il Don Giovanni, Così fan tutte, scritti su libretti di Lorenzo Da Ponte, e infine il Requiem.
Ma Mozart non fu soltanto un compositore senza precedenti, fu anche il primo artista libero, cioè non stipendiato (come erano stati Bach o Haydn). Inoltre fu il primo compositore a ottenere una fama postuma di dimensioni vastissime.
Anche Mozart visse soltanto 35 anni e morì a Vienna nel 1791 in circostanze misteriose. Intorno a lui una miriade di misteri: in verità non sappiamo bene né la causa del decesso (sul certificato di morte fu scritto “febbre miliare acuta”), né chi gli fu vicino nelle ultime ore. E i funerali furono dignitosi o fu veramente gettato in una fossa comune? E ancora: dove è sepolto il suo corpo?
Gli interrogativi non si limitano alla sua scomparsa ma riguardano anche la sua breve esistenza: quale fu il suo carattere, al di là delle beffe e dei canoni sulla cacca e gli sculaccioni, come quello il cui testo riprende la parte finale della lettera alla cugina del 5 novembre 1777: «Buona notte, buona notte, cachi nel letto finché si scassa, buona notte, dorma sana, si tiri il culo fino alla bocca?».
Quale fu il rapporto con la moglie Constanze, che gli sopravvisse mezzo secolo arricchendosi grazie al genio del consorte che non comprese mai a pieno? In Eterni cerco di rispondere ai vari quesiti che avvolgono la figura dello straordinario compositore osteggiato dal destino.
Ma il mondo va avanti e nella stessa città, Vienna, sei anni dopo la morte di Mozart nascerà un altro grande compositore che avrà un destino ugualmente osteggiato e vita ancora più breve, di soli 31 anni. Si tratta di un musicista che in Eterni ho definito “libero da morire”, Franz Schubert. La musica fu sempre la sua ragione di vita, fin da quando a 19 anni abbandonò gli studi di giurisprudenza per seguire la sua passione a tempo pieno, in particolare la composizione della Sinfonia n.5. E poi tutte le sue Lieder, tra cui la celebre Ave Maria. Incontrò Beethoven quando ormai stava morendo e fu tra i pochi musicisti viennesi che il 29 marzo del 1827 trasportarono le fiaccole e la bara del grande compositore; in seguito si chiese più volte cosa potesse fare un musicista dopo di lui. E infatti Schubert non ebbe vita facile, da nessun punto di vista: le occasioni di lavoro erano molto scarse, non aveva mecenati dalla sua.
Ma si consolava circondandosi di artisti eccentrici e formando le schubertiadi, riunioni conviviali dove le musiche e le danze – intervallate a lunghe sessioni di lettura – si accompagnavano a grandi abbuffate che avevano luogo nelle dimore dei suoi amici ma prevedevano anche gite nei boschi e pranzi sui prati.
Nel 1828 lo colse la malattia, che se lo portò via nel giro di pochi mesi. Si trattava di sifilide, comunque una malattia contratta sessualmente da giovanissimo. E il profondo senso di vergogna che aveva pervaso la sua vita dopo essersi ammalato aumentava durante le fasi acute. Del resto pare che Schubert fosse dominato dagli impulsi di una vita sessuale vigorosa ma clandestina: la sua natura era bisessuale, fatto confermato da molte testimonianze provenienti dalla sua cerchia di amici. E la disperazione che percorse l’intera vita di Schubert si riflesse nella sua scrittura, soprattutto in certe opere come la Sinfonia Incompiuta o Viaggio d’inverno. Del resto, come ebbe modo di ripetere lui stesso, l’esistenza di Schubert fu infelice, anzi disperata. Eppure in meno di un ventennio scrisse 600 canzoni, 50 opere corali e molto altro, anche se la sua opera al tempo ricevette generalmente poco riconoscimento.
Da questo punto di vista, di segno opposto fu la carriera di Vincenzo Bellini, contemporaneo di Schubert. Nato a Catania nel 1801, a trent’anni aveva già ottenuto un successo di pubblico così ampio da renderlo tronfio, quasi arrogante: con le sue opere aveva espugnato i teatri di Catania, Napoli, Milano, Londra, Parigi, e sembrava che nessuno potesse fermarlo. Del resto era sempre stato un ragazzo fortunato, fin dalla nascita: suo nonno, grande musicista, aveva coltivato il talento del nipotino con straordinaria cura e dedizione e appena aveva potuto l’aveva introdotto alla migliore aristocrazia siciliana.
Poi il bel Vincenzo aveva lasciato la Sicilia e aveva iniziato a mietere successi, uno dopo l’altro: Bianca e Fernando, Il Pirata, La Straniera… Successo ne aveva anche con le donne, anche se il porto sicuro della sua vita fu Francesco Florimo, amico conosciuto al Conservatorio e mai più abbandonato: la loro amicizia non si consumò come tutte le passioni vissute da Vincenzo con le donne, con cui non volle avere legami totalizzanti e duraturi: era già fin troppo innamorato della musica.
La sua morte, avvenuta a Puteaux il 23 settembre del 1835, all’età di 34 anni e all’apice del successo, fu imputata a un’infiammazione acuta dell’intestino; forse perforazione intestinale e ascesso al fegato, anche se in quell’occasione, come già era successo con il presunto e leggendario avvelenamento di Mozart ad opera dell’invidioso Salieri, la gente iniziò a mormorare che Bellini fosse stato avvelenato dall’amico Samuele Levy, geloso della relazione che pare si fosse instaurata tra il musicista e sua moglie. Oppure dalla bellissima aristocratica russa Giulia von Pahlen Samoyloff, con cui aveva avuto una breve liaison.
Nelle pagine di Eterni racconto anche parte delle esistenze gloriose, misteriose e sfortunate di Felix Mendelssohn e di sua sorella Fanny, non meno talentuosa ma completamente ignorata come musicista perché nata del sesso sbagliato, della vita romantica e malata di Fryderyk Chopin, l’unico a sfiorare i quarant’anni, della fine di Georges Bizet, celebre autore della Carmen, e della sua gloria postuma, della malattia e del decesso precoce dello statunitense George Gershwin, immortale autore della Rapsodia in blu, e, last but not least, del piccolo gigante Michel Petrucciani, grandissimo pianista jazz e compositore, malato dalla nascita di “osteogenesi imperfetta”, volgarmente chiamata “ossa di cristallo” e morto a 36 anni. Petrucciani stesso non si era mai considerato normale. Lui era straordinario.