Siete a Vienna, dinanzi a voi due dipinti del neoclassicismo settecentesco, e un pensiero vi rode: c’è una recondito, moderno, filo rosso che li unisce? In un quadro è raffigurata Clio, la Musa della storia, del tempo, con un enorme papiro, il suo simbolo. Nell’altro quadro c’è Urania, la Musa dell’astronomia, dello spazio, con un bel globo blu, il suo emblema.
Clio e Urania, il tempo e lo spazio: il filo rosso si svela, se si associano le immagini ad una parola oggi tanto usata: geoeconomia. La geoeconomia è una prospettiva sempre più frequente nelle analisi di quello che sta accadendo nello scenario economico e politico internazionale.
Il recente sviluppo di questa materia è avvenuto grazie all’intreccio tra l’analisi economica e le scienze politiche, accendendo i riflettori sulle ragioni di politica internazionale che possono spiegare la politica economica. E’ una tematica che in realtà ha da sempre attirato l’attenzione della storia economica, detto in altri termini, come l’esercizio del potere economico possa essere utilizzato al fine di perseguire obiettivi di politica internazionale. E’ un racconto che può partire dalla storia degli antichi imperi, come quello Romano, passando dalle Città Stato come Siena e Firenze, ed arrivare, via l’impero inglese, ai nostri giorni, in cui i protagonisti ora si chiamano – a citare solo i maggiori – Donald Trump, Vladimir Putin, Xi Jinping. Ma cosa è la geoeconomia?
Il punto di partenza è chiarire la distinzione tra la tradizionale macroeconomia e la geoeconomia. L’analisi macroeconomica standard può essere in sintesi così raccontata: l’economia è una nave, il suo equipaggio è composto da famiglie, imprese e mercati, ed il suo comandante è il governo in carica. La nave ha una rotta ottimale, con un porto d’arrivo: avere una crescita economica stabile, senza che ci siano rilevanti perturbazioni dei prezzi dei beni e servizi.
Ma durante il viaggio eventuali marosi (gli shock non previsti) possono allontanare la nave dalla sua rotta ottimale. Tali shock possono dipendere dall’equipaggio – ad esempio crisi di fiducia – o da fattori non economici – ad esempio una pandemia.
Il compito del comandante è allora quello di definire ed implementare una azione correttiva – si chiama politica economica – per riportare la nave sulla rotta desiderata. In termini più tecnici: la politica economica ha come obiettivo quello di stabilizzare il ciclo economico, in modo da minimizzare la volatilità e l’incertezza rispetto ad un percorso di crescita di lungo periodo.
Nella geoeconomia il comportamento del comandante cambia: la rotta della sua nave dipende da quello che fanno i comandanti delle altre navi, cioè i governi dei Paesi esteri.
Di nuovo in termini più tecnici: l’interesse nazionale dipende da quello che fanno, o non fanno, gli altri Paesi. Dunque la politica economica del governo in carica viene disegnata avendo un obiettivo squisitamente politico: influenzare il comportamento dei Paesi esteri, condizionando le scelte dei rispettivi governi, nonché dei relativi mercati, delle imprese e dei cittadini.
Ma come mai l’interesse nazionale che muove il governo in carica appare così evidente nella prospettiva geopolitica, mentre non ne abbiamo fatto menzione descrivendo l’analisi macroeconomica tradizionale?
Se battezziamo l’interesse nazionale con il sostantivo “nazionalismo”, scopriremo che il nazionalismo esiste anche nella macroeconomia tradizionale, spesso sottinteso – vogliamo dire nascosto? – dall’aggettivo “liberale”.
Nel nazionalismo liberale, il connotato “nazionale” si declina esclusivamente in termini generali, su un orizzonte di medio-lungo periodo, ed è perseguito utilizzando come strumento l’efficienza. Continuando nella metafora, il comandante è una brava persona, che ha a cuore l’interesse di tutto l’equipaggio, e vuol portare la nave in porto. La sua strategia di navigazione si chiama efficienza. Fuori dalla metafora: il decisore politico viene considerato un soggetto che massimizza il bene pubblico, avendo un orizzonte temporale esteso, ed utilizzando come strumento la ricerca della competitività in tutti i mercati. L’efficienza si misura dalla capacità di creare valore, ed ha come presupposto il fatto che nessuno dei membri dell’equipaggio – famiglie, imprese e mercati – viene discriminato, ma neanche privilegiato. Vale cioè il principio di pari opportunità.
Inoltre: se tutte le navi in mare – cioè tutti i Paesi – adottano la stessa strategia di navigazione, tutti automaticamente stanno meglio.
In particolare, sono due le principali conseguenze di tale prospettiva.
Nel disegno delle regole, al crescere del numero degli Paesi liberali, la definizione di norme coerenti con l’interesse dei cittadini può essere condivisa anche in sede internazionale:
il nazionalismo liberale tende cioè ad essere globalista, in quanto i criteri di efficienza, se declinati in termini generali e sistematici, possono essere condivisi da tutti. Insomma, le rotte di tutte le navi sono compatibili l’una con l’altra, e tutte le navi possono avere come obiettivo quello di ridurre l’incertezza, cioè essere stabili, e puntare alla crescita economica senza inflazione.
Questa visione liberale e globalista si regge su un assunto forte, cioè che il comandante sia un navigatore lungimirante: l’ideologia, la psicologia, l’interesse personale non contano.
Se si assume invece – riuscendo dalla metafora, ed utilizzando gli sviluppi più recenti dell’analisi economica – che il comandante sia un politico, sensibile al consenso, si scopre che le deviazioni dalla rotta economica ottimale possono dipendere anche dalla sua miopia, perché il politico non guarda lontano, ma alla prossima scadenza elettorale. Il rimedio?
Se l’economia liberale si muove in un sistema di regole democratiche, il comandante può essere cambiato. Non è una garanzia, ma almeno è un’opzione : democrazia, stabilità e crescita possono coesistere.
In ogni caso, la visione liberale è stata messa in seria difficoltà a partire dalla Grande Crisi Finanziaria del 2008. Da quel momento è progressivamente emerso – o meglio riemerso – un altro nazionalismo, quello sovranista. Un’analisi empirica relativa a venti Paesi avanzati nel periodo tra il 1870 ed il 2014 mostra che le crisi finanziarie tendono a far allontanare gli elettori dai partiti tradizionalmente al potere, favorendo il consenso per le posizioni più estreme.
Nel nazionalismo sovranista l’aggettivo “nazionale” è applicato in maniera selettiva e discriminatoria – il soggetto “nazionale” deve essere privilegiato rispetto al “non nazionale” – ed in ogni situazione, anche congiunturale. Per cui la politica sovranista tende ad avere sia un effetto redistributivo che un orizzonte di breve periodo.
Nello scacchiere internazionale, al crescere del numero dei governi sovranisti, sarà più arduo individuare norme internazionali condivise, visto che ciascun governo avrà come priorità gli interessi immediati di una o più categorie di consumatori e/o produttori e/o mercati nazionali.
Il nazionalismo sovranista tende così a produrre geopolitiche. Tornando alla metafora, non si può più contare sul fatto che le rotte delle diverse navi siano tra loro sempre ed automaticamente coerenti.
L’incertezza nei mari aumenterà. Ci sono due possibili scenari estremi, con la realtà delle politiche economiche che andrà, di volta in volta, ad oscillare tra l’uno e l’altro. Da un lato, il dialogo dei comandanti può rendere le rotte compatibili: il coordinamento tra Paesi non è un risultato automatico, ma è ottenibile. Da un altro lato, le navi ingaggiano guerre economiche – tariffarie e finanziarie – con il rischio che sparisca l’aggettivo, e rimanga solo il sostantivo. In questo secondo caso, non si parla più di coordinamento, ma di Paesi leader – dominanti? – e Paesi follower – dominati?. Lo scenario auspicabile è il primo.
La Musa Clio deve ricordare cosa è accaduto in passato, per non ripetere gli stessi errori. La Musa Urania deve ispirare lo sguardo verso le stelle, alla ricerca delle migliori rotte, perché oggi l’unica certezza è l’incertezza: si stanno solcando acque da tempo inesplorate. Buon vento. Nell’interesse di tutti.