“L’Italia è la culla der diritto ed er diritto ce s’è cullato così bene che s’è addormito e nun se sveia più”, diceva nel lontano anno accademico 1973-74 l’Ordinario di procedura civile e poi Giudice costituzionale Virgilio Andrioli, nostro indimenticato Maestro.
Nella deprecata letargia è caduto anche il diritto penale, in merito al quale sembra opportuna qualche riflessione. Il nucleo primario di ogni sistema penale va colto in comportamenti avvertiti come forti disvalori dalla coscienza degli uomini d’ogni tempo, di ogni luogo, di ogni convinzione religiosa o laica (quali, ad esempio, il ledere l’incolumità, la libertà o la proprietà dell’individuo): si tratta dunque di violazioni arrecate a dei diritti naturali.
Un nucleo più ampio è costituito, con carattere mutevole, dalle norme atte a reprimere comportamenti lesivi dell’ordine sociale ed economico conseguito da una collettività in un momento storico ben determinato (per esempio, nel passato, in Italia era vietata l’esportazione di capitali all’estero). Ciò appare coerente con l’evoluzione delle finalità di base di un sistema che, nel secolo XX erano essenzialmente conservative, vale a dire di tutela dell’ordine morale, economico e sociale esistente; nei tempi presenti, invece, in linea con la tendenza evolutiva dell’intero assetto normativo, esse sono propulsive, poiché anche il diritto penale coopera all’ascesa sociale e civile della collettività. Dalla sintesi delle varie correnti di pensiero nacque la formula dell’art. 27, 3° comma della Costituzione : “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La concezione retributiva della pena è integrata dalla prevenzione speciale che viene attuata attraverso due metodi: il sistema del “doppio binario” (presente nel codice Rocco, risalente al 1930), che dispone al fianco delle pene tradizionali fissate in relazione alla gravità del reato, delle misure di sicurezza indeterminate nel tempo, per i delinquenti ritenuti socialmente pericolosi, destinate a durare finché non muti la prognosi circa la pericolosità del soggetto.
Così come la personalizzazione della pena nel caso dei delinquenti che destano maggior allarme sociale, può avvenire tramite le richiamate misure, per converso – nel caso di soggetti che appaiano maggiormente recettivi in una prospettiva di recupero sociale – è stato inserito il principio di flessibilità delle modalità attuative della pena, che pur essendo doverosamente predeterminata, può nei casi particolari essere oggetto di una sorta di ‘adattamento sartoriale’ alla personalità del singolo reo, attraverso un apposito percorso riadattativo – trattamentale.
Nascono da tale esigenza le sanzioni sostitutive, che consentono di applicare misure limitative della libertà personale (libertà controllata, semidetenzione, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà), meno costrittive della reclusione e che, non comportando un totale sradicamento, rendono più facile il riadattamento sociale del reo. Dalla stessa logica nascono gli istituti giuridici della liberazione anticipata e dei permessi premio, riconosciuti dall’ordinamento penitenziario.
Ma oggi, di fatto, assistiamo ad uno stravolgimento mediatico della dignità della Persona, tramite la gogna anticipata ed amplificata dall’abominio perpetrato a mezzo stampa e tramite strumenti di comunicazione vari, con la diffusione della notizia dello stato di “inquisito”, in cui chiunque nel corso della vita può incorrere, anche per un solo giorno, a propria insaputa.
In spregio alla Costituzione, ma prima ancora alla logica, al buon senso, alla buona fede ed alla ragionevolezza, coloro che ricoprono cariche pubbliche o che comunque hanno notorietà nello sport, nello spettacolo, nella politica, eccetera, possono divenire quindi prede incolpevoli della pubblica esecrazione, con la non desiderabile notorietà di titoli da prima pagina; mentre alla loro successiva accertata innocenza, non viene accordata alcuna pubblicità, salvo – nella migliore delle ipotesi – quella di un trafiletto di ultima pagina. Purtroppo il sacrosanto principio della definitività della condanna a garanzia di qualsivoglia imputato, è stato stravolto con una serie di sofismi dalla legge Severino, con il successivo avallo della Corte Costituzionale in tema di incandidabilità dei pubblici amministratori sottoposti a determinati processi, pur in assenza di condanna irrevocabile.
Dobbiamo dunque evidentemente constatare che -in atto- la giustizia intesa come “ragionevolezza”, come “coerenza”, come aderenza al comune sentire, è divenuta una favola, ma sovente senza lieto fine.