Sotto l’antichissimo albero della Bodhi, il Principe Siddhartha seduto in profonda meditazione sta per raggiungere il risveglio che gli farà comprendere la causa della sofferenza umana e lo farà diventare il Buddha. Le belle ragazze sono illusorie, tentazioni con cui l’ego cerca di distrarre e separare il Principe dalla realtà. Assistono al miracolo dell’illuminazione tre bambini, uno occidentale e due locali, che vivono nel tempo attuale e sono reincarnazioni del Buddha. È una foto di scena del Piccolo Buddha (1993), l’unico film di genere fantastico di Bernardo Bertolucci. Come ha raccontato il regista: “Chiesi al Dalai Lama se potevo chiamare il mio film Piccolo Buddha. Lui rise e volle sapere perché volevo chiamarlo così. Perché vorrei che fosse un film per bambini, perché in Occidente quando si parla di buddhismo gli adulti sono come dei bambini, non sanno nulla.
Il Dalai Lama mi disse sì, anche perché siamo tutti dei bambini e dentro ognuno di noi c’è un piccolo Buddha. Qualcuno ha accusato il film di essere una favola, ma è esattamente quello che volevo fare: aprire una piccola finestra sul buddhismo”.
Oltre al soggetto, anche la storia personale che mi ha portata a scattare questa foto mi sembra una favola, cioè qualcosa di straordinario più vero dell’ordinario. All’epoca sono una giovane fotografa, lavoro a Roma nel mondo dello spettacolo ma ho voglia di viaggiare lontano e sono irresistibilmente attratta dall’Oriente. Il mio primo viaggio da sola è nei monasteri tibetani in India, dove scatto ritratti che saranno pubblicati più volte.
Con una serie realizzo la mia prima, piccola mostra, in un romantico locale underground del regista Silvano Agosti e, sapendo che Bertolucci stava preparando il Piccolo Buddha, in cuor mio la dedico a lui, senza manco provare ad invitarlo, perché per me viveva in un altro mondo. All’inaugurazione non credo ai miei occhi: lo vedo davanti alle mie fotografie!
Non potendola contenere, racconto la mia emozione alla prima persona che mi è accanto, che si rivela suo grande amico nonché prolifico regista e realizzatore di documentari sui backstage de Il tè nel deserto e L’ultimo imperatore, Paolo Brunatto. Finisco a far parte di quella che Bernardo chiama “la piccola troupe romantica” che gira sul set del suo kolossal in Bhutan e Nepal. E la foto della scena dell’illuminazione è scattata con uno spezzone di pellicola pretrattata da Vittorio Storaro con uno dei suoi immancabili filtri orange, e sviluppata nello stesso laboratorio del film.
Può una fotografia raccontare una favola? La fotografia, anche se nata in pieno positivismo con l’ossessione della registrazione obiettiva, imparziale della realtà, è sempre, più o meno, una finzione. Perfino dell’immagine più iconica del fotogiornalismo e forse di tutto il XX° secolo, “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa, ancora non si ha la certezza che sia autentica. Il fotogiornalismo è il genere che dovrebbe mentire il meno possibile. Ma alcune immagini anche se sono finzioni raccontano la verità, come le favole.
Quella foto racconta meglio di ogni altra, il trauma della morte in guerra e in fondo poco importa se sia stata scattata durante una battaglia o una schermaglia, un’esercitazione o addirittura messa in scena, poiché nessuno può mettere in dubbio l’esperienza e la capacità di raccontare di Capa, e dunque la sua credibilità.
Come diceva Picasso: “L’arte è una menzogna che ci permette di dire la verità”. È ben altra la manipolazione da smascherare e combattere, oggi ancora più potente grazie all’intelligenza artificiale.