Le muse desistono ormai dal sussurrare alle orecchie dei poeti. Licenziate, dismesse, espulse, non sono più oggetto di deferenza ma di autopsia. Sono finite sotto lo sguardo indagatore e circospetto di una cultura occidentale che si chiama continuamente sul banco dei giudici, dei testimoni e al contempo degli imputati, in perenne disamina di sé.
Una cultura quasi integralmente impegnata a scrivere note a margine in revisione di ciò che è stata, alla perenne ricerca del nemico interno, di quell’ente malefico da cui prendere le distanze e a cui non concedere mai anche solo una falla nel proprio stato di vigile guardia. Al punto che, nel parossismo dell’introversione, anche quando sembra guardare all’altro in realtà sta riflettendo sulle modalità del proprio sguardo.
Se la musa è la voce del profondo che conduce allo spossessamento delle facoltà di controllo dell’individuo per condurre all’epopea, alla dimensione della drammaturgia collettiva, allo spirito-più-autentico di una congerie culturale, allora può divenire la principale indiziata per l’emersione di quella zona d’ombra che sfugge alla luce integrale dell’analisi. E se ancora oggi apparissero, le muse lo farebbero come spettri fuori luogo, refusi romantici in un’epoca che chiede disincanto, non estasi. Non più presenze misteriose da evocare e contemplare, ma motivi di dissezione critica, inauspicabili cadute della coscienza, residui di immaginari obsoleti.
In questa piega storica in cui l’arte deve continuamente dimostrare di essere sintonizzata e impegnata sui mali del contingente, l’idea stessa di “ispirazione” come movente soprannaturale appare inefficace, inadempiente. Eppure, quello che vorrebbe apparire come un atto di emancipazione, non è semplicemente determinato da un conquistato rigore intellettuale, ma determina anche una ridefinizione incerta delle dinamiche della poiesi.
Se la musa costituiva la rassicurazione del genio come privilegio divino, al di sopra della fatica, della disciplina o della responsabilità, la cultura contemporanea si è inavvertitamente esposta a un dilemma potenzialmente fatale e rivelatore circa la provenienza delle sue immagini più oscure. Se non è più possibile appellarsi a una forza trascendente, se l’artista non è più medium ma produttore consapevole, che cosa muove allora l’atto generativo dell’arte?
Pensiamo per esempio a quanto spesso, per raccontare il proprio lavoro nel contemporaneo, gli artisti si appellino a una forma di morbo, di ossessione, di deformità malata allo scopo di giustificare la propria insistenza su idee, immagini e processualità che ravvedono entro se stessi come ne fossero estranei, e con le quali connotano il proprio operato, lo specializzano e lo rendono riconoscibile, quando non addirittura prevedibile.
E allo stesso tempo pensiamo a quanto questa insistenza sia sempre accompagnata dal clima di un’analisi e di un auto-analisi in cui l’ossessione possa sperare di diventare caso esemplare di interesse collettivo pur nella sua irrimediabile dimensione individuale. Pensiamo a Mark Rothko, a Giorgio Morandi, ad Alberto Giacometti, a Louise Bourgeois, a Félix González-Torres, a On Kawara, a Hanne Darboven, a Roman Opalka… Parole chiave: individuale, ma esemplare.
L’infrequentabilità della categoria dell’ispirazione è una conquista dolorosa delle cognizioni contemporanee, un passaggio indesiderato e ineludibile che disorienta e ci priva della godibilità di un intero livello della gestualità tradizionale dell’arte, ma che allo stesso tempo apre a nuove modalità di esplorazione del reale, a nuovi itinerari di ricerca e di contatto con le radici dell’umano. La decadenza della musa, che dalla propria accezione romantica è ridotta a “spettro fuori luogo”, ci costringe a introiettare la responsabilità di quell’oscuro che emerge, a riconoscere che il vero incontro generativo non è quello con un altro mondo da vagheggiare, ma con le tensioni e le contraddizioni del mondo in cui siamo immersi, di cui siamo parte immanente. E a onor di cronaca, questa non è nemmeno la prima delle compagini storiche in cui prevalga l’analisi sul trasporto più o meno incosciente.
È però indubbio che i nostri tempi adoperino abbondantemente anche un inatteso senso
di sconfitta e scetticismo, di introversione e malinconia, che mal si coniugherebbe con l’approccio analitico.
Quello che la cultura contemporanea – e l’arte del contemporaneo nello specifico – imbastisce conto l’aggregato di sensi costituito dal concetto di “musa”, non è solo un tranello inevitabile dell’obsolescenza, ma è talvolta un vero e proprio attacco frontale, di contestazione, decostruzione, dismissione rabbiosa, come avviene lungo il corso del Novecento con molti dispositivi culturali posti in revisione prima dalle avanguardie, e poi dai movimenti marxisti, strutturalisti, femministi, queer, post-coloniali… Il critico, il curatore, lo storico; il museo, la mostra, il piedistallo; il testo, la didascalia, l’apparato espositivo; il concorso, la giuria, il premio… L’ispirazione, quella forza esogena che sembra attraversare l’artista-medium allo scopo di introdurre nel mondo delle entità mistiche prima inimmaginabili, può essere sostituita dalla dissezione, dal caso, dal processo, dall’esercizio, dal lavoro, dallo scandaglio sistematico delle strutture linguistiche, o, in ogni caso, da una forma di necessaria compromissione col reale. Eppure non tutto della musa sembra dover essere dismesso: se la dimensione medianica e trascendentale non è più praticabile, resta che all’artista sia ancora riconosciuta l’esigenza di farsi tramite, seppure non più profeta, attualizzando un potenziale sociale, facendo emergere forze sotterranee e implicite sottese alla realtà, solo in un ruolo più vicino a quello di un antropologo che a quello di un officiante di riti.
Non è ritenuto auspicabile, infatti, che si intesti la facoltà di tracciare segni e gesti di pura, eroica aleatorietà, ma ci si attende che resti piuttosto vincolato e ottemperante a una forza esogena: un’istanza sociale che muoviamo sempre all’arte, e che ha trovato le sue estreme, perverse e contraddittorie conseguenze nei “realismi” dei regimi totalitari.
Quando Paul Cézanne scruta ossessivamente il monte Sainte-Victoire, lo fa con uno spirito analitico che genera una esemplare tensione a due: è l’esercizio di penetrazione dello sguardo, oltre la trappola soggettivizzante dell’impressione, che fa sì che l’arte muova uno scatto decisivo di linguaggio provando a emanciparsi dal non-so-che. Quando André Breton o Tristan Tzara, Max Ernst o Man Ray intraprendono un viaggio alle radici delle facoltà creative, approdano in un luogo delle cognizioni che la psicoanalisi di Freud ha già ampiamente riposizionato dalla trascendentalità divina del mito all’immanenza ultra-umana della psiche e dell’inconscio. Quando Andy Warhol costruisce la sua rigorosissima pantomima dell’arte industrializzata, espelle metodicamente e meticolosamente ogni aspetto di spiritualità dall’opera come spietato, coerente, esemplare prodotto del sistema capitalista e mercantile. Quando Sol LeWitt o John Cage producono opere protocollari, processuali, essenzialmente linguistiche, basate sulla regola o sul caso, radono al suolo ogni parvenza di suggestione, evocazione, allegorismo. Tutti hanno lo scopo spesso dichiarato – Uccidiamo il Chiaro di Luna! – di liberarsi di quella forza che guida la mano come l’angelo nel primo San Matteo di Caravaggio (1599), quello distrutto dalle bombe a Berlino nel 1945: non un ispiratore innocente ed etereo, un canale d’accesso a dimensioni superiori dell’essenza, ma una trappola pedante e oppressiva che guida la penna puntando il dito sulla carta, sotto lo sguardo sbigottito di un Matteo disarmato e impotente.
Tutti gli approcci citati devono quindi, comunque, rendere sommamente conto a un agente esterno che regola, giudica, vieta, misura, accorda, calibra e, seppur liberati dallo spettro della musa, non per questo si sentono indefinitamente liberi di gettarsi nel flusso dell’aleatorio, che resta l’enorme frainteso di quel «potevo farlo anche io» che distingue gli artisti dagli avventori. Perfino il cliché dell’artista-sciamano impersonato da soggetti così diversi come Jackson Pollock o Joseph Beuys non può fare a meno di disciplina, metalinguaggio, opposizione metodica, evolutiva e razionalizzata al desueto.
Non è un caso che siano proprio quelli che il sistema espelle come parvenu a fare appello alla irrinunciabilità di una chiamata, all’ispirazione come attenuante di reato.
C’è però un fronte in cui l’avversione alle muse diviene non solo frontale ed esplicita, ma acquisisce anche un’ulteriore dimensione organica e programmatica, ed è quello di una inedita presenza del femminile nell’arte dal secondo dopoguerra in poi che prova a liberarsi del ruolo designato di entità marginalizzata e privata di operatività.
Mi ha sempre colpito che l’antesignano del realismo artistico moderno, Gustave Courbet, nell’opera manifesto L’atelier del pittore (1854 – 1855) non abbia potuto fare a meno di raffigurare, accanto a una folla di disperati, la nuda verità nelle fattezze mediatissime e allegoriche di una giovane donna disvelata dalla caduta delle vesti. Pronta e ammirante, in osservanza e in contemplazione delle virtù dell’artista che le dà le spalle, la donna impersona una funzione totalmente ancillare. Una presenza strumentale, tutto sommato non necessaria se non addirittura contraddittoria, inutilmente astraente, rarefatta, retorica, specie se posta a confronto con i propositi enunciati dall’artista: attenersi all’osservazione di una realtà le cui ricchezza e flagranza erano state fino ad allora occultate dalle teorie artistiche e intellettualistiche che relegavano l’arte alla dimensione falsa ed elusiva dell’aulico. Ma nemmeno il realismo può fare a meno di coprirsi le spalle con l’allegoria di una nudità femminile costretta in una posa pudibonda.
Accade invece che Carla Lonzi, a partire da Sputiamo su Hegel (1970), ingaggi una revisione radicale della scrittura storica come prodotto di una predominanza maschile data per assodata, scontata, naturale, per ripristinare una soggettività attiva e determinante della donna in seno alla società. Ecco che la cristallizzazione della donna nella musa e nella sua funzione ispirante che lascia corso all’azione maschile diventa una costruzione culturale goffa e inaccettabile. Emerge quindi una pletora di donne la cui rilevanza non è stata posta in dovuta considerazione: l’artista femminista militante Judy Chicago con The Dinner Party (1974 — 1979) inscena una tavolata che idealmente chiama a convegno alcune di queste soggettività obliate, tra cui l’imperatrice bizantina Teodora, Artemisia Gentileschi, Isabella d’Este o Virginia Woolf. Emergono poi tutte le figure femminili sacrificate o restate un passo dietro a un uomo riconosciuto come unico legittimo artefice della storia: Dora Maar con Pablo Picasso, Lilly Reich con Ludwig Mies van der Rohe, Camille Claudel con Auguste Rodin, Lee Krasner con Jackson Pollock, Sophie Taeuber-Arp con Hans Arp, Ray Eames (Ray Kaiser) con Charles Eames. E poi un’ondata di donne-soggetto, performer che mettono al centro dell’azione significante le funzioni del proprio corpo, per sbarazzarsi del ruolo virginale e pudibondo della musa ispiratrice intesa come entità non attiva, non determinante, non efficiente della storia.
Pensiamo a Pippa Bacca, che con la sua performance Sposa in viaggio (2008) decide di attraversare in autostop undici paesi in guerra vestita da sposa, per promuovere la pace e la fiducia nel prossimo: verrà violentata e uccisa a Gebze, in Turchia, quinto paese della traversata che aveva l’arrivo programmato a Gerusalemme. Oppure pensiamo a Adrian Piper con la sua Catalysis (1970 — 71): una serie di azioni nello spazio pubblico in cui l’artista provoca, attraverso il proprio corpo e la propria viva presenza, alcune alterazioni nelle reazioni delle folle metropolitane, normalmente abituate all’assopimento e all’indifferenza e qui inavvertitamente poste di fronte a sostanze maleodoranti, cartelli declamatori, comportamenti sconvenienti, deformazioni abnormi dell’aspetto o dell’abbigliamento. Ana Mendieta nelle sue Siluetas (1973 — 1977) filma tracce evanescenti del proprio corpo già transitato, lasciate nelle paludi, nell’erba o nelle argille, cercando una misura cosmica e fisica che connetta individuo e ambiente. Regina José Galindo in ¿Quién puede borrar las huellas? (2003) intinge periodicamente i piedi nudi in una ciotola di sangue per poi lasciare tracce evanescenti del proprio attraversamento tra le vie della capitale guatemalteca, città sconvolta da guerre civili ed epurazioni politiche. Mona Hatoum, artista libanese di origine palestinese che dall’età di 23 anni vive in esilio, con Corps étranger (1994) allestisce un padiglione cilindrico in cui isola un’area circolare dello spazio su cui proiettare un video: una telecamera endoscopica percorre il corpo della performer dall’interno dei suoi tessuti, dei suoi condotti vitali, dei suoi organi, capovolgendo privato e pubblico, interno ed esterno, familiare e perturbante, affine ed estraneo.
La lista sarebbe lunghissima, con artiste come Pipilotti Rist, Valie Export, Gina Pane, Tomaso Binga, Marina Abramovic, Rebecca Horn, Carolee Schneemann, Orlan, Cindy Sherman, Shirin Neshat. Oltre ogni tentazione in chiave “quote rosa”, in una dimensione storica di superamento delle istanze femministe in una più universale e radicale ridiscussione del ruolo del genere nella società, la persistenza di un atteggiamento di messa in gioco, di presa in carico dei dolori del mondo attraverso la compromissione del corpo della donna, conduce a un capovolgimento degli assunti patriarcali ma anche a una precisa cifra del femminile che non accetta di recitare ruoli prestabiliti. E preferisce, anche a proprio rischio e pericolo, avventurarsi oltre il campo dell’innocuo.
Chi avrebbe mai pensato che il peggior nemico delle muse non sarebbe stato un uomo?