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uaderni de La Scaletta

Le cose più importanti nella vita delle persone sono i loro sogni e le loro speranze, ciò che hanno realizzato e pure quello che hanno perduto

Memorie

Sinisgalli e la meraviglia bretoniana in “Vidi Le Muse”

Il manifesto del Surrealismo [1] di André Breton ha compiuto cento anni, qualche mese fa (1924-2024). Riflettendo sul rapporto tra Sinisgalli e il surrealismo, non poteva non stupirmi lo spazio che Breton dedicò in quest’opera al concetto di “meraviglioso” in letteratura.
 «Nel campo letterario, il meraviglioso soltanto è capace di fecondare opere dipendenti da un genere inferiore, quale il romanzo …»[2].
 L’idea è che la poesia rappresenti, al contrario della prosa, il genere letterario per eccellenza. La sua intenzione è quella di far giustizia dell’“odio al meraviglioso”. E in un imperativo categorico scrive:
«Finiamola: il meraviglioso è sempre bello, un qualsiasi meraviglioso è bello, non vi ha altro che il meraviglioso che sia bello»[3].
Il concetto ricorda la chiusa di una delle poesie più famose di Leonardo Sinisgalli, “Vidi le Muse”, pubblicata in Campi Elisi[4] del 1939, per All’insegna del pesce d’oro, con la cura di Giovanni Scheiwiller, che riporto per intero.

Vidi Le Muse

Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie.
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le Muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.

Gli ultimi tre versi (il corsivo è mio) sono un calco quasi identico della frase di Breton.
Se per quest’ultimo il binomio “meraviglioso-bello” è ripetuto tre volte, lo stesso accade in Sinisgalli, in cui, sostituendo “bello” con “cuore”, ripropone, anche lui per tre volte, il binomio “meraviglia-cuore”.
In tutte e due i casi si parla di poesia: nel primo è la poesia della meraviglia, nel secondo è la scoperta della poesia, per Sinisgalli, che si traduce in meraviglia, in una meraviglia indicibile e balbettante, tanto che Luca Stefanelli parla di “vero e proprio ingorgo afasico”[5]. E quando nell’ultimo verso avviene il ritorno alla dicibilità (“Io dissi al mio cuore la meraviglia”), “l’epifania orfica”, dice sempre Stefanelli,
«avviene nella pienezza apollinea della luce, dove il confine tra vista e visione non è abolito, ma risalta, nella sua vivida presenza, il contrasto surreale tra i due livelli»[6].
Non solo Sinisgalli conosceva Breton e il Manifesto del Surrealismo, ma traduce in pratica o, meglio, in poesia uno dei concetti teorici principali del movimento avanguardistico: il meraviglioso. Anche per Leonardo la poesia è la scoperta di una meraviglia che si colloca in una dimensione terza, tra razionale e irrazionale, tra veglia e sogno, nella surrealtà appunto, intesa come «risoluzione dei due stati, in apparenza contraddittori»[7].
Per Stefanelli il rimando poetico è “a certi rimescolamenti orfici di Campana”[8], in cui follia, sogno, poesia e realtà si fondono. Pure potrebbe essere, e non è in contraddizione, anche un velato omaggio al Surrealismo, forse un affioramento carsico di una passionale, perché giovanile, infatuazione letteraria e artistica. Ma di anfratti e di ipogei in cui si agita l’impuro magma sinisgalliano ce ne sono altri. Forse, come ebbe a scrivere in Horror vacui:
«Forse io ho troppo premuto sulla mia vita col peso de mio cuore»[9].

 

Questo articolo è parte di un saggio che sarà pubblicato prossimamente.

Biagio Russo
(Cts Fondazione Leonardo Sinisgalli. Montemurro)
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