Proust. I colori del Tempo è un libro scritto da Eleonora Marangoni, edito da Feltrinelli Editore Milano. In una originale rilettura del capolavoro proustiano Alla ricerca del tempo perduto, l’autrice immagina un affascinante percorso dove ogni colore domina una specifica area semantica e un determinato spazio emotivo, racconta un mondo più luminoso e svela per ultimo il mistero e il segreto più ambito: la conoscenza dell’immortalità.
Si pubblicano per gentile concessione dell’autrice le pagine che seguono.
Proust. I colori del Tempo
“Pour qu’une chose soit intéressante, il suffit de laregarder longtemps.”
(Gustave Flaubert, Correspondance,
le 16 septembre 1845)
Nel famoso questionario Marcel Proust par lui-même, alla voce “Colore preferito” leggiamo: “La bellezza non è nei colori, ma nella loro armonia”.
Nota scontata, che mal si addice allo spirito del gioco e del giocatore, e stride col tono deciso delle altre risposte. Proust ha le idee chiare in fatto di musica (non c’è nessuno come Beethoven, Wagner e Schumann) e pittura (niente di meglio di Leonardo e Rembrandt), si mostra lucido perfino in campo ornitologico: tra tutti i volatili, predilige la rondine. Da bravo esteta, snobba la politica, e la voce “Riforma più apprezzata” viene lasciata in bianco.
Non è la prima volta che Proust risponde al questionario. Ne ha compilato un altro qualche anno prima su richiesta dell’amica Antoinette Faure.
Le domande erano simili a quelle della versione precedente.
Le risposte, no. A eccezione di una marmorea certezza – già allora la sua “Idea di miseria” coincide con “L’essere separato dalla mamma” –, solo qualche anno prima Proust incoronava idoli diversi (e in qualche modo più ingenui). Niente di più normale per un adolescente curioso e impaziente come lui, il cui passatempo preferito era, per sua stessa ammissione, “entusiasmarsi”. Anche in questo caso, però, il commento riservato ai colori era stato di un qualunquismo spiazzante: Proust non aveva espresso alcuna preferenza e aveva scritto, semplicemente, di amarli tutti.
Perché ostentare tanta indeterminatezza? Proprio lui, futuro scrittore impressionista, maestro delle nuances, incapace di scegliersi un colore preferito!
Il suo tono disimpegnato ci diverte in politica, ci delude quando rosicchia i bordi sacri dell’estetica. Risposte simili potevamo aspettarcele da un Saniette qualunque, dal giurista che Proust non diventerà mai. Non dall’esteta cresciuto a petits-fours e John Ruskin, fedele all’idea di gusto che sommi professeurs de beauté (pensiamo a Robert de Montesquiou, allo stesso Ruskin, ma anche a Charles Haas e Charles Ephrussi, collezionisti, critici d’arte e modelli di Swann) hanno contribuito a formare. Non certo da un uomo che ha fondato la sua opera sui poteri dell’intuizione estetica, che non riesce a prendere sonno in una stanza con le tende troppo viola e che, straziato dalla bellezza di un prato qualunque, scriverà:
«Il colore perfetto di ogni cosa vi commuove come un’armonia, viene voglia di piangere ad accorgersi di quanto le rose siano rosa o, se è inverno, a vedere sui tronchi degli alberi dei bei colori verdi quasi riflettenti; e, se un po’ di luce arriva a toccare quei colori, come ad esempio al tramonto, quando i lillà bianchi cantano il loro biancore, ci sentiamo inondati di bellezza».
Ma, come dimostrano bene gli altarini della Recherche, niente è come sembra, e spesso i legami più profondi sono proprio quelli mal dichiarati. Se Proust è incapace di scegliere i “suoi” colori, non è certo perché questi gli siano indifferenti.
Al contrario, con ognuno di essi ricerca un rapporto esclusivo e intrattiene un dialogo incessante,e quello che a prima vista scambiamo per scarso interesse è in realtà contegno del collezionista, riserbo dell’amateur. Non manca peraltro un velo di adulazione: vere e proprie entità viventi, se i colori fossero eleganti ospiti dei salotti mondani Proust passerebbe il tempo a fare il giro fra le poltrone per essere sicuro di non scontentarne nessuno.
I colori, come le parole, sono carichi di simboli, evocano, trascendono: sono troppo preziosi per essere ridotti a una sola sfumatura, troppo potenti per essere contenuti in una singola preferenza.
Perché il colore è importante nella Recherche, e in che modo collabora alla sua unità?
Nel romanzo, un costante riferimento alla pittura (e di conseguenza al colore) sembrerebbe garantito dalla presenza di Elstir.
Personaggio ispirato ad artisti realmente esistiti (Monet, Manet, Whistler, Jean Béraud e Paul Helleu), Elstir è un pittore “della vita moderna”. Soggetti e colori dei suoi quadri sono volutamente contemporanei, e svelano al protagonista la bellezza delle cose comuni. Quando arriva a Balbec per la prima volta, il Narratore è il tipico adolescente parigino di buona famiglia: sedentario, viziato, avido di visioni romantiche. Il bel tempo e la vita da spiaggia lo esasperano: dalla finestra della sua stanza vorrebbe piuttosto ammirare le onde altissime, le navi in tempesta e le nebbie impenetrabili dei suoi romanzi preferiti:
«Davanti al mare mi ero sempre sforzato di escludere dal mio campo visivo non soltanto i bagnanti in primo piano, ma anche gli yacht dalle vele troppo bianche, i costumi da spiaggia e, in generale, tutto ciò che mi impediva di convincermi che stavo contemplando l’onda immemore la cui vita misteriosa si svolgeva già prima dell’apparizione della specie umana, perfino le giornate radiose che sembravano ricoprire con la banalità dell’estate quella costa di nebbie e tempeste».
I primi giorni li trascorre annoiandosi sul lungomare, non può immaginare che proprio su quelle spiagge apparentemente senza sorprese sta per incontrare il grande amore (Albertine), nonché una delle sue guide spirituali (Elstir, per l’appunto). Il pittore si trova a Balbec proprio per ritrarre quella che il Narratore chiama la “volgare estate dei bagnanti”.
Imbarcazioni moderne, leziosi ombrellini, fiori di campo e profili assolati svelano al Narratore il fascino del quotidiano, i piani orizzonti delle estati borghesi vestite di bianco, ed è grazie a Elstir che capisce che il mondo reale ha la stessa dignità artistica (e merita la stessa attenzione poetica) di quello immaginario.
Elstir rappresenta un nesso evidente col mondo delle arti visive, ma il suo personaggio non ha niente a che vedere col ruolo, ben più profondo, che Proust ha assegnato al colore.
Nella Recherche il colore non è importante in quanto viene raccontato, è importante perché racconta. È un espediente grazie al quale Proust intreccia legami, definisce idee, svela parentele nascoste. Un vero e proprio narratore che si sostituisce alla parola.
«Era alto cinque piedi, tarchiato, quadrato, con dei polpacci di dodici pollici di circonferenza, delle rotule nodose e delle spalle larghe; il suo volto era tondo, abbronzato, butterato dal vaiolo; il mento era dritto, le labbra prive di ogni sinuosità, e i denti erano bianchi; gli occhi avevano l’espressione calma e divoratrice che il popolo accorda al basilisco; la fronte, piena di rughe trasversali, aveva delle protuberanze significative; i capelli giallastri e brizzolati erano bianchi e oro, dicevano alcuni giovani ignari della gravità di una battuta su monsieur Grandet. Il naso, grosso all’estremità, sorreggeva una cisti venosa che il volgo riteneva, non senza ragione, colma di malizia. Questo volto faceva presagire una pericolosa scaltrezza, una probità senza calore, l’egoismo di un uomo abituato a concentrare i propri sentimenti nel godimento dell’avarizia e sull’unico essere di cui gli importava realmente qualcosa, sua figlia Eugénie, la sua unica erede».
L’Eugénie in questione è Eugénie Grandet, una delle protagoniste del circo sfrenato della Comédie humaine. L’uomo descritto è suo padre Félix, avaro affarista di provincia il cui attaccamento all’oro “sembrava aver comunicato il suo colore al suo viso”. Autore dell’impietoso ritratto, Honoré de Balzac, maestro nelle descrizioni fisiche di lombrosiana minuzia, talvolta così accurate da sfiorare la pedanteria. Sembra di vederlo, Monsieur Grandet, tracagnotto e malinconico con la mano sul panciotto, nel dagherrotipo sbiadito di un fotografo del tempo.
Eugénie Grandet esce nel 1833. Questo modo di raccontare i personaggi ha i giorni contati e, di lì a poco, descrizioni del genere si faranno sempre più rare…