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uaderni de La Scaletta

La memoria è più di un sussurro della polvere…

Mediterraneum

Fati bradanici. Destini basentani

“Scherza coi fanti ma lascia stare i Santi”. E invece Edoardo Delle Donne, prima si inventa la rubrica Mediterraneum, e subito dopo propone come file-rouge di questo Quaderno nientemeno che la Fortuna, nelle millenarie vesti di Fato, Destino o Caso (sue parole) in cui da sempre si palesa a noi, in particolar modo qui, in questo lembo di Magna Graecia di cui resteremo sempre più o meno inconsapevoli frutti. Dei due fiumi lucani avevo già deciso di scrivere prima ancora che mi fosse assegnato il Mediterraneum e che fossero scomodati i Santi. Poi, nelle ultime settimane, mi è successo di parlare con Maurizio Gala della bellezza immobile, quasi preistorica, di alcuni luoghi tra il fondovalle del Bradano e l’Alta Murgia pugliese, e a distanza di pochi giorni con Gianluca Navone di una vicenda, quella dei missili nucleari Jupiter in area bradanico-murgiana, ormai di pubblico dominio ma trattata ancora con uno strano pudore da piccoli di provincia e precedente solo di una manciata di anni l’interruzione dei progetti ENI in Val Basento dopo la drammatica scomparsa di Enrico Mattei.
È successo anche di trovare, riordinando le carte paterne in cantina, una mappa dettagliata degli anni ’50 della bonifica dei comprensori della media Valle del Bradano e del Metapontino che adesso faccio incorniciare e appendo nella piccola stanza che uso come studio-scrittoio; e poi, solo qualche settimana fa, di leggere tra i progetti del Piano di ripresa e resilienza (PNRR) per la Basilicata il completamento del raccordo ferroviario tra Matera e la stazione di Ferrandina in Val Basento, ma nessun intervento che riguardi l’asse viario longitudinale che dalla Capitanata tira diritto verso la costa Jonica utilizzando la Fossa Bradanica e intersecando l’Autostrada Napoli-Bari al casello di Candela. Proprio mentre scrivo, il 21 marzo viene assegnato all’italiano Andrea Rinaldo, ordinario di Costruzioni idrauliche all’Università di Padova, lo Stockholm Water Prize, il “premio Nobel dell’acqua”, mentre il 22 marzo si celebra la Giornata mondiale dell’acqua. Insomma, si è concentrata una serie di elementi, dalla classicità alla Guerra Fredda ai giorni d’oggi, e tutti collegabili ai fiumi, che nelle mani del Collettivo Wu-Ming farebbe faville.
Con doverosa modestia, e per evitare di peccare palesemente di ὕβρις, ne ho dedotto, parafrasando Camilleri, che il miscuglio di queste quattro righe “voleva essere scritto”, non so se per fato, per destino o per puro caso o addirittura per Chaos, quello che spesso abbiamo dentro e che può trovare temporaneo sollievo riempiendo qualche pagina. Giuro che non ho usato Chat GPT, anche se il mix dadaista lo potrebbe fare ipotizzare, e non me ne vogliano gli specialisti di Storia e Geologia.
Ma andiamo per ordine. La radice etimologica di <fato> rimanda al verbo deponente latino <for, faris, fatus sum, fari> che significa <dire>, <parlare>. Nominalizzato, il participio passato diventa il detto per antonomasia, il deciso una volta per tutte, facoltà che spetta all’entità o alle forze al di sopra dell’umano. Prima o poi tutto si sottomette o si allinea al Fato (con la “F” maiuscola), è solo questione di tempo. L’etimologico Garzanti ricorda anche che, prima ancora che la radice latina, se ne può rintracciare una nella lingua degli Osci parlata proprio a sud dell’Ofanto e condivisa dai Lucani. Osci e Lucani furono tra le prime genti italiche a entrare in contatto con quel mondo greco che aveva già fatto delle riflessioni sull’esistenza e sul tempo una delle sue molteplici cifre. L’etimo di <destino> ha invece matrice indoeuropea passante per il Greco antico <ἵστημι> che si traduce con fermarsi, stare, ma a noi è arrivato filtrato dalla mentalità più concreta e volitiva di Roma che col verbo regolare di prima coniugazione <destĭnāre>, composta dal de- privativo e da <stĭnāre> forma allungata <stāre>, intendeva lo smuovere, lo scegliere, l’indirizzare. Se il Fato è più forte e prima o poi arriva perché esprime un ordine naturale delle cose, il Destino porta traccia delle scelte e anche degli errori umani (del libero arbitrio).
Se il Fato procede per orizzonti lunghissimi e non ha fretta, il Destino si misura su cicli umani (una vita oppure una, due, massimo tre generazioni). Di mezzo, tra Fato e Destino, c’è l’imponderabile, il Chaos del mondo greco e la Fortuna del mondo romano. Nella mitologia greca Fato e Destino corrispondono ad Ananke e Tiche, due divinità superne di cui, come di tutte le altre superne, sono state lasciate pochissime tracce scritte, a dispetto della innumerevole letteratura in cui sono chiamati in ballo gli dèi inferiori, quelli, da Zeus in giù, che si comportano come noi, litigano come noi, tradiscono come noi, bramano e si pentono come noi. Gli dèi superni  toccavano aspetti troppo importanti, primigeni e avvolti dai limiti dell’umano sapere perché si spendesse il loro nome con disinvoltura. Nelle versioni più empiriche del mito, Ananke era figlia (il Fato è femmina! e secondo me si chiama pure Roberta ma questa è altra storia) di Terra e Acqua, gli elementi primi che l’uomo greco vedeva attorno a sé.
In altre versioni compare addirittura all’inizio di tutto, a volte da sola come l’attimo zero del Big Bang, altre volte assieme a Chronos, il Tempo che inizia a scorrere, e a Chaos, l’infinita possibilità di percorsi e deviazioni. Le informazioni su Tiche sono più variegate ma, se ci si rifà a quelle più arcaiche, la dea era una delle Oceanine (anche lei una femmina!) discendenti dalla unione di Cielo e Terra e protettrici delle nuvole, dei fiumi e dei torrenti, del ciclo delle acque dolci diremmo oggi.
Il cambiamento climatico che stiamo sperimentando da qualche anno, con estati sempre più calde che obbligano a razionare le forniture idriche e mettono a rischio le coltivazioni tradizionali, porta esempio efficace del perché la divinità del Destino fosse messa a tutela della pioggia e dei corsi d’acqua. Nei giorni scorsi, le statistiche ISTAT sull’utilizzo delle acque per usi civili hanno piazzato la Basilicata all’ultimo posto per incidenza delle perdite sulla rete, oltre il 60 per cento.
In alcune delle tante versioni del mito, Tiche è madre di Pluto che, prima di diventare ai nostri giorni sinonimo di ricchezza finanziaria, era la divinità dell’agricoltura, delle messi e di tutte le risorse sotterranee, anche loro con cicli ed equilibri da rispettare, comprese le risorse minerarie come il metano e il petrolio che in Basilicata sono presenti assieme alle acque. Queste coincidenze sono puramente casuali o stiamo sottovalutando gravemente il mito?
Nel passaggio al mondo romano di qualche secolo dopo, la triade Ananke, Tiche e Chaos si condensa in capo a una meno speculativa e più stocastica dea Fortuna. Non c’è traccia di una vera e propria divinità del Fato distinta da quella del Destino nella Roma dall’età repubblicana in poi, nonostante la lingua latina porti per sempre traccia, nelle sue radici greche e italiche, del complesso rapporto di soggezione, a mano a mano sempre meno timoroso e più laico, con i grandi dubbi esistenziali sulle forze che orientano la vita umana. L’etimo della Fortuna romana è dal sostantivo <fors, fortis>, la sorte, a sua volta dal verbo <fero, fers, tuli, latum, ferre>,  portare, nel senso di  far sopraggiungere eventi, fatti, cause, concorrenze. Il tempio della Fortuna Primigenia è uno dei più belli che Roma ha lasciato nel Mediterraneo e forse anche il più greco di tutti perché ricorda Delphi o Cuma, edificato su una magnifica terrazza naturale da cui si domina tutta la piana Pontina con di fronte il Circeo e il tratto rettilineo dell’Appia antica voluto direttamente dal Cieco per correre il più rapidamente possibile verso sud, verso la Magna Graecia. Ed è plausibile che anche nelle funzioni il tempio fosse simile ai plessi oracolari greci, una stanza di compensazione, luogo isolato e protetto dove riflettere, da soli e assieme ai contendenti, per cercare le soluzioni migliori, costruire la fortuna e non arrischiarsi la sorte.
La dea Fortuna si accompagnava spesso a Mercurio, il dio delle strade (ci stiamo avvicinando all’argomento annunciato dal titolo), dei crocicchi, dei viaggiatori, della (alta) velocità (era pie’ alato), dei commerci e, come derivazione di quest’ultima attitudine, dei trasformisti, degli eloquenti, dei furbi e dei ladri. Molti affreschi di Pompei, Ercolano e delle Ville Vesuviane ritraggono Fortuna e Mercurio a braccetto, con il dio sempre provvisto del suo copricapo a falda larga e tonda, che era di manifattura sannita e percetta ma, soprattutto, era ed è il copricapo di chi attraversa i campi sotto il sole.
È una lunga premessa in salsa Wu-Ming, per testimoniare che se adesso ci si avventura in alcuni, pochi commenti su fiumi, strade, viaggi, campi di grano e commerci, spazio, tempo e velocità, ciò che doveva essere e ciò che è stato, osservando il tutto da Matera, non è per polemica o per politica spiccia da campanile, ma per seguire i tempi lunghi della Storia, quelli che aiutano a fare chiarezza perché circondano tutto di silenzio e lasciano solo fatti e non colpevoli.
Da queste parti la strada veloce, della fortuna e dei commerci, arrivò oltre due millenni fa. All’altezza di Napoli, l’Appia antica proveniente da Roma virava all’interno e puntava verso il Foggiano, seguendo grossomodo quello che oggi è il tracciato della Napoli-Bari e in parte sfruttando la valle dell’Ofanto; incrociata la Fossa Bradanica, più o meno tra quelli che oggi sono i caselli autostradali di Lacedonia e Candela, sterzava ancora verso sud-sud est imboccando la Fossa e utilizzando il suo tracciato naturale sino all’odierna Gravina in Puglia, per poi lasciarsi Altamura sulla sinistra, Matera sulla destra e tirare avanti in direzione Laterza, Palagiano, Taranto, Mesagne, Brindisi (con toponomastica moderna). Fu l’unione del percorso più veloce realizzato dall’uomo e di quelli più veloci e più comodi creati dalla Natura (o da Gea per continuare ancora un po’ col mito). La Fossa Bradanica è una lunga e larga depressione tettonica che va dal Foggiano sino allo Jonio abbracciando la costa Jonica da Taranto a est sino a superare Metaponto a ovest. Di questa vera e propria autostrada dell’antichità restano testimonianze affascinanti ingegneristiche e letterarie. Solo per fare due esempi, chi viaggia sulla A16 in direzione Bari può, poco prima di Candela, vedere gli archi del Ponte di Palino sul torrente Carapelle, uno dei tanti che collegavano il tracciato principale dell’Appia alla viabilità locale.
È chiamato anche Ponte di Orazio, che lo cita nei diari dei suoi viaggi dall’Urbe verso la natìa Venosa. Ed è proprio di Orazio un curioso ricordo di usi e costumi dei paesi appulo-lucani lungo l’Appia antica, lì nel quinto racconto del primo libro delle sue Satire dove prende in giro gli abitanti che si vantano di avere le migliori acque (sarà stata l’area di Monticchio?) e quelli che si contendono di avere il miglior pane (c’è l’imbarazzo della scelta di chi abbia ereditato questa vis competitiva). Quando l’Appia arrivò da queste parti, la Fossa era già stata abbondantemente utilizzata. Per secoli aveva funzionato in senso opposto, come naturale porta di accesso dal mare verso l’interno, mettendo in comunicazione (incontri e scontri come sempre) gli indigeni e i popoli d’oltremare, primi fra tutti i Greci antichi. È lungo questa enorme carotide che la Magna Graecia ebbe una delle sue più profonde intrusioni nell’entroterra del Mezzogiorno.
La testimonianza più spettacolare e piena di vere e proprie sfumature mitiche è Acerenza, la Signora incontrastata del tratto lucano della Fossa. Chiamata la Città-Cattedrale, più Cattedrale che Città, perché qui la chiesa madre gemma direttamente dalle strutture del tempio di Ercole Acheruntino, un Mercurio di qualche generazione precedente, più muscoloso, greve e taciturno, ma anche lui protettore di greggi, messi, viandanti, commerci, strade ma con due vantaggi strategici rispetto a Mercurio: aveva un’arma convincente come la clava, e dalla cima di Acerenza controllava tutto, dal lembo più a sud della spianata di Foggia sino alle colline di Matera. Acerenza da Acheronte, l’originario nome del Bradano che da solo basta a ricollegare questi luoghi con il mondo greco antico.
Tra tante ipotesi su dove si collocasse, secondo l’immaginario greco, il fiume che metteva in comunicazione il mondo dei vivi e quello dei morti, la toponomastica odierna ne conserva formalmente due: il nostro Acheronte-Bradano, che si affaccia in Jonio a qualche chilometro da Metaponto, e l’altro Acheronte, in Epiro, che si affaccia in Adriatico a qualche chilometro da Mesopotamos. Lo abbiamo già ricordato: attenzione a prendersi beffa troppo facilmente del mito!
L’autostrada dell’antichità assunse tale importanza da essere rafforzata affiancando a quello iniziale un secondo troncone passato alla storia con il nome di Appia-Traiana. Invece che imboccare la Fossa, la variante traianea tirava diritto per diritto verso Canosa, con prodigioso ponte (che ancora si offre alla vista) scavalcava l’Ofanto e poi raggiungeva la costa per diventare litoranea adriatica sino a Brindisi. Ma il completamento infrastrutturale più importante in chiave europea (diremmo oggi) consistette nel suo prolungamento dall’altra parte della costa adriatica dove, anche se con il nome diverso di Traiana-Egnatia o semplicemente Egnatia, era sempre Lei, la Regina Viarum, a riemergere dalle acque per correre ancora verso Pella, Tessalonica (Salonicco) e Bisanzio-Costantinopoli.
Una  Blue Banana ante literam, un vero e proprio corridoio continentale tra ovest ed est, congiungente i due Acheronti e soprattutto aree oggi appartenenti a cinque nazioni diverse (Albania, Grecia, Macedonia, Bulgaria e Turchia) e il Mediterraneo con il Mar Nero. Della Blue Banana del mondo antico non rimane molto; anche se su quel lungo tracciato passano adesso importanti vie di comunicazione che fanno parte di distinti corridoi europei, non c’è più quel grande corridoio latitudinale, unitario e universale.
Questo, però, non deve stupire, perché le vie di comunicazione, in tutte le loro modalità, sono il frutto e il termometro delle vicende geopolitiche che ovviamente troppe volte sono cambiate in due millenni.
Quello che stupisce invece, ma non da adesso, è che a livello nazionale e locale sia rimasta largamente sottovalutata sino a oggi la Fossa Bradanica che, per lunghezza e conformazione geografica, avrebbe potuto ospitare più modalità di trasporto, coordinate tra loro, serventi tanti Comuni frontalieri sia lato Puglia sia lato Basilicata, da Termoli sino alla costa Jonica e a Taranto. Qui potrebbero passare una strada a scorrimento veloce e a doppia carreggiata, o addirittura una diramazione della A16, e una  rete ferroviaria ad alta velocità, sia merci che passeggeri, collegata anch’essa con la direttrice Napoli-Bari e a nord con Foggia e poi con la dorsale ferrata Adriatica all’altezza di Termoli. Se l’alta velocità non può per definizione fare troppe fermate, in Fossa ne basterebbe anche una sola, a metà strada tra Candela e Matera, per esempio all’altezza dell’incrocio con la SS 96bis “Barese”, e da lì potrebbe servire una moltitudine di Comuni, compresa Matera. Che cosa non ha funzionato?
Che cosa ha interrotto la continuazione dei Fati bradanici per spostare i Destini di questa ampia porzione del Mezzogiorno verso l’altra fondovalle lucana, la Basentana, anch’essa meravigliosa e piena di storie (compresa forse questa che stiamo raccontando), ma con geomorfologia più complicata (per un lungo tratto è strada di montagna), minori potenzialità di interconnessione e limitate possibilità intermodali?
Gli snodi del destino sono stati due: uno molto molto lontano ma, si sa, l’eco della grande Storia è come le onde del Big Bang da cui abbiamo preso le mosse parlando di Ananke e Tiche; l’altro contemporaneo, tutto contenuto nel Novecento che da queste parti periferiche non ha mancato di lasciare la sua pesante impronta.
Il primo snodo del destino è nel XII secolo. Federico II vuole fare di Foggia la sua capitale. A metà strada tra la Palermo del nonno Ruggero e la Svevia del nonno Barbarossa, è al centro di una pianura fertile (la prima parte della Fossa), vicina al mare quanto basta per beneficiare delle rotte adriatiche e dei collegamenti marittimi verso l’Oriente e il nord Africa, a poca distanza i ricchi boschi del Gargano, della Daunia e della Lucania. Ha pronte nuove leggi (le Constitutiones Melfitanae) e nuove istituzioni ma il suo progetto non gli sopravvive. La vendetta dei Papi e degli Angioini si abbatte sugli ultimi Hohenstaufen. Il centro politico ed economico si sposta bruscamente da Foggia e dalla costa adriatica a Napoli e alla costa tirrenica e lì resterà a lungo, passando da Aragonesi a Borbone di Spagna e Borbone delle Due Sicilie, sino all’Unità.
L’impianto viario si adatta alla nuova mappa del potere. La direttrice longitudinale Termoli-Taranto perde gradualmente importanza e così pure il tratto dell’Appia passante per la Fossa Bradanica e il suo fascio di strade secondarie. Assumono importanza crescente, invece, i collegamenti a raggiera da Napoli verso il resto del Regno.
Con un balzo di diversi secoli (di quelli che in realtà potrebbe fare solo Wu-Ming, ce ne scusiamo), la Legge 17 maggio 1928, n. 1094, istitutiva dell’AASS (poi ANAS dal Secondo dopoguerra) e la prima a fare ricognizione delle Strade statali (SS), riportava l’Appia (SS 7) con un percorso ribassato rispetto al tracciato antico e passante, nel tratto lucano, su montagne e colline alla sinistra del fiume Basento.
Il Destino aveva preso il sopravvento sul Fato. Da questo tracciato spiccavano altre statali tutte di orientamento latitudinale (ovest-est): la “Delle Puglie” (SS 90) da Avellino a Foggia, la “Appulo-Lucana” (SS 93) da Potenza a Barletta, la “Barese” (SS 96) da Tolve a Bari (ora retrocessa a SP e sostituita dalla 96bis), la “Di Matera” (SS 99) da Matera ad Altamura, la “Di Gioia del Colle” (SS 100) da Mottola a Bari. Nessuna strada utilizzava la Fossa. Alla nascita dell’AASS, in Val Basento si snodava già la ferrovia che da Napoli portava a Taranto, progettata e avviata prima dell’Unità e poi lentamente completata prima del secolo nuovo. È ancora oggi la tratta principale che attraversa la Basilicata in diagonale con Intercity e Frecce Rosse. Non ci sono mai stati collegamenti ferroviari longitudinali sfruttanti la lunghezza della Fossa Bradanica.
Altro salto nel tempo e ci si trova di fronte il secondo snodo del destino. Siamo all’indomani della Seconda guerra.
In Basilicata la bonifica, l’approvvigionamento delle acque e la riforma agraria, sostenute dal Piano “Marshall”, riguardano soprattutto, se non esclusivamente, la Fossa Bradanica, da Candela alla Piana del Metapontino sino a Policoro e Scanzano. Durante il Ventennio, gli interventi di politica agraria si erano fermati alla porzione nord della Fossa (il Foggiano), mentre dal 1945 in poi la coinvolgono, con grande impegno di risorse e opere, in tutta la sua ampiezza.
La borgata di Santa Maria d’Irsi fu realizzata tra il ’47 e il ’50 e poi gradualmente ampliata gli anni dopo; borgo Taccone, il centro servizi di tutta l’area dell’Alto Bradano cui l’ingegnere veronese Plinio Marconi, di scuola piacentiniana, applicò le più avanzate tecniche costruttive del tempo, arrivò di lì a poco; lungo tutta la Fossa comparvero case coloniche attrezzate, ognuna al centro di un appezzamento di medie dimensioni da mettere a coltura. Arriveranno anche collegamenti viari e ferroviari all’altezza?, sfruttando la curvatura ampia della Fossa e il fondovalle pianeggiante per circa duecento chilometri, da Candela sino alla costa? Fossero arrivate in tempi utili queste dotazioni, tutta l’area si sarebbe probabilmente potuta evolvere al passo coi tempi, mantenendo sì la sua vocazione agricola ma con più chances di adeguare le tecnologie e di impiantare in loco filiere manifatturiere di trasformazione anche congiunta tra la produzione cerealicola dell’Alto Bradano e quella ortofrutticola della Piana del Metapontino.
A dispetto dei suoi fati protetti dal mito, si sa le cose non andarono così. Qui gli obiettivi della riforma cominciarono a scricchiolare presto, prima che nel Metapontino e addirittura prima che nelle borgate olivettiane attorno a Matera che, oltre alle debolezze di programmazione comuni a tutta la riforma agraria lucana, nacquero con eccessi utopistici e paternalistici verso cui si è stati sempre troppo perdonisti (ma anche questa è un’altra storia). Già prima della fine degli anni ’50, gli accordi “Fanfani-Kennedy” disposero la collocazione in tutta l’Alta Murgia, sia lato pugliese che lucano, dei missili Jupiter armati con testate nucleari. La massima allerta delle basi rimase sino al 1963 quando il loro depotenziamento rientrò negli accordi Usa-Urss per la risoluzione della crisi di Cuba. C’è un reportage di Giovanni Minoli di qualche anno fa che ricostruisce tutta la vicenda, molto informativo ma anche commovente per come, attraverso le testimonianze di tanta gente comune, racconta l’incontro tra il mondo agricolo con tratti arcaici “magnogreci” e la frontiera della tecnologia, tra la purezza istintiva e gli arcana imperii, tra il Fato originario e il Destino del Novecento.
Anche se non più armate con testate nucleari, quelle basi restarono sul territorio a lungo e di alcune sono ancora riconoscibili i siti (una tra Matera e la diga di San Giuliano). La destinazione strategico-militare di quell’ampia porzione di Fossa era chiaramente incompatibile con altri progetti di sviluppo e di intensificazione di qualsiasi attività produttiva e commerciale e del transito di persone e mezzi. Le date sono eloquenti. A inizio anni ‘60 si aprono i cantieri della superstrada Basentana, la nuova Appia ancora più ribassata rispetto alla SS 7, tagliante in diagonale la  Regione da Potenza sino a Metaponto, bellissima, un attraversamento del cuore più intimo della Lucania, ma totalmente estranea alla direttrice longitudinale della Fossa e, soprattutto, con minori potenzialità di sviluppo territoriale per tutta la metà della Regione volgente a Levante.
I Destini del Novecento toccheranno in realtà anche per lei, perché la tragica morte di Enrico Mattei a fine 1962 cambierà i piani di investimento e sviluppo della Val Basento, soprattutto per la parte sud da Grassano a Metaponto (un’altra storia anche questa). Solo nel 1989, con uno degli ultimi atti della Cassa del Mezzogiorno, si avviano i lavori per la sistemazione della viabilità nella Fossa Bradanica. Sì, avete letto bene, nel 1989, lo stesso anno in cui collassa l’Urss e cade il Muro e gli scenari nucleari sembrano ormai relegati ai film di fantascienza (magari lo fossero ancora col conflitto sul fronte ucraino che continua a peggiorare!), e ben quarant’anni dopo la riforma agraria “De Gasperi-Segni” (Legge 841/1950) che qui, come in tante altre parti di Italia, aveva provato ad avviare un nuovo corso.
I cantieri della SS Bradanica dureranno trent’anni. L’ultima tratta per portarla a Matera viene inaugurata alla fine del 2021, ma c’è poco spazio per la soddisfazione, non solo perché l’opera arriva con ciclopico ritardo ma anche perché si interrompe a Matera e, per arrivare alla costa e congiungersi con la  litoranea SS 106, è necessario lasciarla, percorrere un tratto di raccordo tra Matera e la Basentana, e poi  imboccare la SP 3 che, benché migliorata da quando avevo i calzoni corti e sedevo sul sedile posteriore di una Fiat 128 Familiare che faceva sistematicamente sosta alla chiesetta di Serramarina prima del tuffo in mare, non offre le stesse prestazioni. Per avverare i Fati bradanici c’è ancora almeno un breve Destino basentano che passa per il raccordo Matera-Ferrandina. Ma siamo ancora in tempo? Dei trent’anni quanti ne è durato il cantiere della Bradanica, in effetti, non  si può fare colpa al Destino del Novecento. Sul cammino del Fato si  sono messe di traverso altre cose. Ma, al di là di questo, nel mondo globalizzato e rimpicciolito di oggi anche per i Fati magnogreci la vita è diventata più dura, devono vedersela con i loro omologhi cinesi, indiani, turchi, etc…
Forse il Fato questo lo  sa, mentre sono i Destini che ci stiamo preparando che non ne hanno ancora preso sufficiente consapevolezza, e il PNRR continua a sottovalutare le potenzialità del corridoio longitudinale bradanico. Siamo sicuri ci saranno altre occasioni?
Nella mia piccola storia privata, ho fatto pace tra Fato e Destino. Non ero mai contento quando, nelle partenze e nei ritorni da lunghi viaggi estivi per il Nord, mio padre insisteva per la Bradanica, anche quando, sino ai primi anni ’80, Bradanica in effetti non c’era, e bisognava aprirsi il percorso entrando e uscendo dai vari paesi frontalieri pugliesi e lucani, mettendo assieme un vero e proprio puzzle bradanico. Non capivo quell’insistenza dietro la quale, oggi, ci scorgo qualcosa di simile a un atto di amore per i suoi luoghi, che restano anche i miei nonostante “espatriato” ormai da decenni. Adesso, ogni volta che mi muovo verso e da Matera, scelgo sempre la Bradanica.
La storia  antica  e recente ci consegna questo pezzo di Mezzogiorno fermo, solitario, silenzioso, isolato e, paradossalmente proprio per questo, stupefacente.
Non è facile, ma attraverso questa bellezza si devono cercare nuove vie per il futuro. Nuova Fortuna.

Nicola C. Salerno
(Economista presso l’Ufficio parlamentare di bilancio)
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Foto di Maurizio Gala in arte “il Galazar”
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