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Creatività: Conta la Fortuna, le Fortune, o la Civita?

Cosa c’è alle radici della creatività di una città? La fortuna, nel senso del caso, le fortune, nel  senso di disponibilità economiche e patrimoniali, o l’essere “civita”, cioè  avere leggi che garantiscano diritti e doveri, incluse la libertà di espressione e di pensiero? La più recente analisi economica indica la terza risposta come quella giusta. La ricerca economica si sta interrogando sulla presenza, o meno, di origini lontane in fenomeni che invece sono evidenti al giorno d’oggi.
È il filone di indagine che è stato chiamato della persistenza. L’idea è semplice: investigare con gli strumenti dell’analisi econometrica se caratteristiche, anche non economiche, che caratterizzano la realtà odierna, possano essere state originate da fatti, anche non economici, avvenuti molto tempo prima. È una prospettiva di analisi che richiede di intrecciare competenze e sensibilità appartenenti a discipline diverse: le scienze economiche, storiche, politiche, giuridiche, e l’elenco non è completo. Inoltre, è un approccio che necessita pazienza e prudenza, per evitare, come è facile immaginare, di arrivare a conclusioni che sono magari affascinanti, ma poggiate su basi, metodologiche ed empiriche, di argilla.
Prendiamo il fenomeno della creatività. L’analisi economica è partita dalla constatazione che alcune città, in secoli diversi, sono state un sorgente di creatività nella arti: Firenze nel Cinquecento, Londra nel Seicento, Parigi nel Settecento, Vienna nell’ Ottocento, fino a San Francisco e New York nei decenni a noi più vicini. Da cosa può dipendere lo sbocciare rigoglioso della cultura in un tessuto urbano? Le possibili cause che sono state esplorate sono soprattutto due. In primo luogo può essere rilevante  la ricchezza di una città: al crescere delle dotazioni patrimoniali e reddituali cresce da un lato la capacità di finanziare la formazione del cosiddetto capitale umano, da un altro lato quella di attrarre i talenti.
In secondo luogo può essere cruciale un altro aspetto noto come capitale civile: se una città ha leggi e consuetudini che proteggono i diritti individuali delle persone sul piano politico e sociale, inclusa la libertà di espressione, più facilmente sarà un ambiente che stimola e favorisce la creatività.
Un recente studio, che si concentra sul periodo a cavallo tra il diciassettesimo ed il diciannovesimo secolo, afferma che il capitale civile è più importante di quello economico.
Gli studiosi hanno analizzato le “elite creative”, costruendo una banca dati di luogo e data di nascita delle personalità che si sono distinte nelle arti e nelle scienze. Due le variabili di maggiore interesse: il numero di personalità nate e morte  in uno specifico centro urbano.
Il numero delle nascite è una metrica che coglie la capacità di una città di far gemmare talenti, mentre il numero di decessi sintetizza quella di attirarli. Mettendo insieme le due variabili si ottiene un indice di creatività, ed il passo successivo è quello di indicare se il fenomeno può essere spiegato dalla dotazione di capitale economico, o da quella di capitale civile.
Il primo risultato è che il capitale economico non sembra essere una variabile rilevante. Quali variabili utilizzare per rappresentare l’evoluzione del capitale economico su orizzonti temporali così lunghi? L’analisi economica utilizza innanzitutto l’andamento di variabili demografiche, come quella del tasso di variazione della popolazione urbana: l’assunzione è che al crescere della ricchezza di una città aumenti la sua popolazione. Poi, viene utilizzato l’andamento dei salari reali: una crescita del potere d’acquisto dei cittadini è di solito correlata con l’aumento della ricchezza di una città. In entrambi i casi, le due variabili non sono significative. I risultati econometrici generali confermano la storia che alcuni casi famosi raccontano: la Firenze del Rinascimento, nonché le città spagnole del diciassettesimo secolo sono esempi di vette di creatività raggiunte in situazioni economiche difficili; al contrario, l’opulenta repubblica marinara di Genova non ha mai brillato per creatività.
Il secondo risultato è invece quello che associa la creatività alla presenza di istituzioni cittadine forti, nel senso della protezione dei diritti individuali e della collettività contro l’arbitrio di un potere discrezionale. L’esempio classico è quello delle città comunali, espressione di virtù civili, ad esempio storicamente presenti nell’ Italia settentrionale,  contrapposte alle città feudali, che, continuando a far riferimento alla nostra penisola, vengono associate in modo automatico all’Italia settentrionale. Da questo punto di vista, potrà essere interessante esplorare il ruolo che l’esperienza delle città demaniali del Sud Italia possono aver giocato,  essendo comunità urbane che possono essere interpretate come una via di mezzo tra il libero comune ed il feudo.
Più in generale, è il Rinascimento al Meridione che andrebbe studiato di più. In questa direzione va un recente e corposo volume che, nei fatti, si muone nel verso opposto allo stereotipo prima ricordato, che vede le regioni meridionali come aree uniformemente e sistematicamente caratterizzate da marginalità economica e politica, immobilità sociale, povertà ed isolamento culturale. Uno stereotipo che si conclude immancabilmente con il dire che per il  Cinquecento ed il Seicento, in quelle regioni, di Rinascimento non si può parlare. Il volume mette invece in luce come il Regno di Napoli sia stata una realtà molto più complessa e sfaccettata di quello che il tradizionale stereotipo ci rappresenta, anche per l’attenzione, quasi ossessiva, allo studio della capitale napoletana del Regno, trascurando le altre comunità urbane. Da una visione meno “napoli-centrica” del Regno emerge, di nuovo, la rilevanza delle elite locali che animarono, anche dal punto di vista culturale, la vita delle università locali.
Insomma, la più ricerca economica e storica, che va comunque non solo  approfondita, ma sempre provata popperianamente a confutare, ci dà una indicazione, o se si vuole una speranza: un centro urbano può fiorire, anche se le sue condizioni economiche e patrimoniali non sono le migliori possibili. Al contrario, la ricchezza economica non significa automaticamente creatività, che è ricchezza umana, sia in senso individuale che collettivo. Ma la speranza è meglio fondata se una città ha, o sviluppa, il suo capitale civile. L’essere civita conta. E la fortuna? Come dice la famosa canzone di “Bulli e Pupe”, che sia gentildonna: che premi il capitale civile, e non badi a quello economico.

Donato Masciandaro
(Prof.re Ordinario di Economia Politica, Università Bocconi-Milano)

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