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uaderni de La Scaletta

Consegnare il giorno di oggi a quello di domani custodendo la memoria delle tempeste

Storie

Lezioni di immortalità

Quando ero una giovane studentessa ebbi la fortuna di partecipare per la prima volta a una campagna di scavi archeologici ad Ebla in Siria.
Questa esperienza si replicò e durò molti anni della mia vita, arricchendomi straordinariamente. Diventai quindi un membro stabile della Missione Archeologica Italiana, diretta da Paolo Matthiae. La guerra in Siria, che dura da più di un decennio e che ha devastato il paese, ha interrotto gli scavi e non ha più permesso a noi archeologi di recarci lì e di continuare quella impresa archeologica, che Paolo Matthiae aveva iniziato negli anni ’60  quando io non ero ancora nata.
Nel mio libro Lezioni di immortalità, pubblicato da Mondadori nel 2018, partendo dalla mia esperienza sul campo, racconto le lezioni di immortalità ricevute dall’ archeologia nel deserto siriano. Il deserto non ha padroni, né punti di appoggio, è uno spazio senza sintassi che tende al vuoto. Ciò che è pieno viene disfatto dal vento dal sole dalla sabbia e diventa vuoto. È come una tessitrice che smonta la tela. Ma lui non può essere disfatto, nella clausura sterminata delle sue geometrie indivisibili, lui è immortale e millenario.
Porta i segni dei passaggi e detta il suo vangelo. Sono stati anni di immense suggestioni, come scrivo in Lezioni di immortalità: «Desidero raccontare la lezione di immortalità ricevuta da questa terra primordiale, che è molto più di un luogo e merita di essere rivelata. Con le sue città millenarie che hanno resistito a tutto, e sopravviveranno ancora, e di quel deserto, vero o immaginario, simbolo del meraviglioso, del magico e del miracoloso che ebbe una parte così importante nel misticismo medievale orientale, con gli anacoreti, gli eremiti e con le sue rovine che ci benedicono. Scrivendo questo libro sento che quel tempo vissuto e quelle terre amate non sono finiti e che la lezione di immortalità continua». In questi lunghi anni di esplorazione, ho individuato un rapporto prima sconosciuto fra archeologia e poesia. Ed è un legame di cui sono sempre più persuasa e che sento molto stretto.
Nel libro ho provato a raccontare tale rapporto, come scrivo in un passo: «Se il lavoro del poeta è scuotere il cielo aspettando che qualche frammento cada, il lavoro dell’archeologo è scuotere la terra, senza imbarazzo del cosmo, aspettando che qualche frammento di cielo appaia». Inoltre l’archeologia ha una sua poetica, è una poetica del profondo, dell’esplorazione del nascosto, della discesa come metafora della conoscenza e io provo a raccontarla. Con il cuore pieno di commozione, ho cercato anche di raccontare Aleppo, città oggi distrutta, che per me era un viaggio nel tempo, la più bella città di tutto il Medio Oriente.
Seguono alcuni brani del libro che ho selezionato, alcuni passi a cui, per ragioni diverse, sono particolarmente legata …

***

Spesso andavo a sedermi davanti alla cittadella turrita che era una visione che mi colmava, era il coraggio della meraviglia, sembrava una corona dimenticata appoggiata su una collina. La sua visione abbagliante mi appariva sbucando da una galleria del suq e mi lasciava senza fiato. Un vecchio deforme che quasi strisciava a terra, con gli occhi celesti e celestiali, era sempre lì. Il suo corpo era ridotto, come accartocciato, coperto da un panno bianco. Mi guardava e nello sguardo aveva giardini cintati, alcove, larghi mercati, pergolati d’uva, mulini sul fiume, uomini che versavano acqua in coppe come atto di carità. Ogni giovedì lo trovavo fermo allo stesso posto. Pensavo che fosse il custode della visione. Era lui che la garantiva, che assicurava la vita a quella bellezza. Forse era lui il re che aveva appoggiato la corona sulla collina. E poi aveva dimenticato tutto.

***

Ci sono luoghi che puoi visitare per l’ultima volta solo non sapendolo, altrimenti il cuore si frantumerebbe…
Per me Aleppo è molto più che una città, è la mappatura nuda della giovinezza, una geografia dell’anima, l’epifania della mia allegria e incoscienza, è quella topografia esistenziale che è diventata memoria immaginifica in cui credo di non aver mai veramente messo piede, ma di averla solo sognata. E quelle lontananze in sogno continuano a convocarmi a impugnarmi, a visitarmi come una corrente che si tuffa in me. E al risveglio sono pugnali, sono mutilata e la cenere mi guarda.
Io non sono mai stata ad Aleppo e non sono mai andata via. Continuo il mio camminare circolare per le strade di quella città oltraggiata e invisibile. Con il cuore fisso sul punto cardinale della pietà e nelle mie gambe il mondo è finito.

***

Per me il deserto è sempre stato un antispazio in cui la temporalità vacillava, luogo del silenzio, dell’ascolto, della traccia, dell’impronta, del cammino, dell’andare verso l’indispensabile. Nel deserto si dissoda il campo dell’anima con l’aratro del silenzio. Ma c’è silenzio e silenzio. Il silenzio bianco immacolato della neve. Il silenzio che protegge, intimo, del buio, quello doloroso e nero dell’assenza. Il silenzio rosso infuocato della sentenza prima di essere pronunciata. Ci sono silenzi operosi, pieni di petali. Altri curvi, arrugginiti o impigliati nell’imbarazzo.
Ci sono silenzi psichici che sigillano, altri onirici che si affacciano. Ci sono silenzi chiusi, altri aperti, annuvolati o arrotolati, a volte distesi. Alcuni siderali e trasparenti, quelli della prossimità sono azzurri. In quelli delle indecisioni i lillà tremano. Ci sono silenzi che convergono, altri muti o quelli che fanno finta di dormire invece sono rumorosi. Alcuni sono nascosti, quando non sono accesi d’incapacità. Ci sono silenzi millimetrici, altri con le chiome che traducono l’infinito. Ogni silenzio ubbidisce alla sua evidenza. Quello del deserto è un decollo color cadmio smisurato e spettacolare, un’immortalità sonora, una nota tenuta su una corda.

***

Anch’io lì ascoltavo il battito della terra, la sua primitiva saggezza, cercavo un rapporto intatto e primordiale con il luogo. Accadeva che la terra facesse il primo gesto e io mi rotolassi in essa cercando di prendere in prestito i secoli, i millenni, qualche sogno brigante e solubile rimasto lì fermo o la circostanza ruspante dell’eternità.
Era come tenere in mano e filare un tempo lunghissimo, con un gesto di devozione assoluta, tirando le fila al passato; distendersi e mettersi in ascolto della sua radiazione indecifrabile e moribonda. Volevo recuperare il mio senso tangibile, beccare dalla terra, come un uccello che viene da un lungo viaggio, la mia essenza profonda e dimenticata, fatta di pietre, ruscelli, fiori e fango, riportarla alla luce.
Avrei voluto incarnarmi in quella terra, nella forza del suo ventre, condividere la sua emozione, quella terra un giorno era stata incinta di me, anche se non lo ricordavo ne avevo nostalgia, io che ero inzuppata di stelle.

***

In Oriente c’è una città tutta bianca, imperlata di polvere, con un’indole nobile e allegra, perennemente innamorata. È una direzione del mondo in cui non mi fermo mai a lungo, ma che mi sta particolarmente a cuore perché bersaglia la mia anima con l’allegoria dei miei desideri. Potessi afferrarla, indebolire la sua imprendibilità, la farei mia, ma essa rimane lì riparata dagli anni come una tentazione che non scompare mai. Qui come simboli onirici procedono superbe donne nerovestite con pacchi in testa, uomini dai turbanti bianchi sgranano il rosario invocando i novantanove nomi di Allah. Un uomo che non ha né fratelli né sorelle ha trovato rifugio nella deformazione del suo corpo, da terra raccolgo il suo sguardo celeste, interrogativo, avvolto in un panno bianco.
C’è un gruppo di vecchi accanto alla moschea, a loro la città ha giurato il silenzio e vivono vestiti di immaginazione sepolti nelle loro giornate occulte. Poi d’un tratto l’urlo dissonante dei muezzin invita alla contemplazione e prende al laccio i miei sentimenti.
[…]. Questa è Aleppo che meglio di chiunque conosce i tornei del mio cuore. Nella città del latte dove il presente è assente sono stata felice per me stessa di una gioia senza condivisione. Quando la forma naturale della notte poi si adagia sulla cittadella, ad assolvere la rota del principio creatore, la materia riposa e riordina le sue contraddizioni. Allora come presa in un incantamento mi addormento su quella città e libero la mia fantasia.
A volte penso che non esista affatto, poi guardo il palmo della mia mano e sono sicura della sua esistenza perché, tu non ci crederai, ma nel ripetere il gesto interiore di afferrarla, lei rarefatta e veloce si dileguava, ma per un moto di gratitudine che le è proprio, mi ha lasciato la sua suggestione impressa qui, nell’ordito della mano.

***

Quando ritornavo a Roma dagli scavi mi mancava il deserto, il suo Genius loci, la sua sorgente spirituale, e mi manca ancora. Furono anni in cui la mia città natale, Roma, diventava il polo magnetico dell’altro emisfero esistenziale primario. «Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone.»  Ruotavo intorno all’asse passante per i due porti: Ebla e Roma. Curvava la verticale del tempo in quello spazio infinito fatto di memorie, di persone scomparse, di accadimenti che procedevano inesorabili dalla linea dell’orizzonte verso di me. Il deserto è dove lo spazio esce e il tempo finisce. Luogo di elezione dei fantasmi, è lo scenario della loro manifestazione, della comunicazione integrale.
È il luogo smisurato dove si provano le ali, dove si fanno le prove di volo per l’immortalità.

***

Desideravo fare l’archeologa fin da piccola, quando partivo dalla mia casa a Tarquinia con un cucchiaio da cucina e andavo in bicicletta agli scavi etruschi di Gravisca, ritornando con quelli che già chiamavo «reperti». L’area archeologica di Gravisca si trova a pochi passi dal Circolo velico dove ho trascorso la mia infanzia, al mare, andando in barca a vela. Qui lentischi, contrade di allori, trionfi di mirti, confessioni di cipressi, armature di cardi erano liturgie olfattive che
richiedevano un comitato di sensi. Io ero attratta da quel luogo come da un segreto. Su quella radiazione magnetica dell’antico porto sepolto, con il suo rumoroso emporio, pieno di merci che venivano dalla Grecia e dall’Oriente, di pittori vascolari e artigiani che lì avevano abitato e si erano scambiati saperi o che semplicemente vi erano passati, io continuavo a sognare, senza sosta.
E volevo tornare. Volevo tornare sempre. Come si torna a un amore. Apparentemente era un bordo di mare comune, nessuna messa in scena della natura. Ma poi a un tratto il genio del luogo ti battezzava con il fragore del suo spettacolo in dialetto; lì l’ispirazione infantile dorme appoggiata tra cisti selvatici e ginestre, in una luce bianca e in un silenzio di sale.
Ci si è rifugiata un giorno correndo a piedi nudi, e stanca si è addormentata di un sonno virginale, e da allora almanacca nel suo torpore invisibile. Quante buche col cucchiaio ho fatto a Gravisca alla ricerca degli avanzi sfocati, inghiottiti dalla terra, di un banchetto consumato millenni prima da chi non ha più diritto a sorridere, ma che davano battaglia al mio cuore come mai nessuno. Cosa cercavo già così piccola? Non l’ho mai capito veramente.

***

Gli occhi degli archeologi sono sempre rivolti verso il basso, dove la vita antica è diventata radice, reliquia, impronta, traccia, frammento, e sotto la stratificazione, all’altezza della memoria, il suo battito cardiaco risponde ancora.

***

Le sequenze stratigrafiche sono prima organizzate in cronologie relative e poi assolute; la cronologia relativa prevede che qualcosa sia più recente di qualcos’altro, quella assoluta aggancia la sequenza alla storia. Ma si tratta comunque di tempi rovesciati che l’archeologo ripercorre all’indietro, come davanti a una moviola a ritroso, rispetto allo svolgimento degli eventi. Infatti, l’archeologo inizia a rimuovere la terra dallo strato che si è formato per ultimo e scende all’indietro fino al più antico. Ma non sempre ciò che è più in basso è più antico rispetto a ciò che si trova in alto. Il mondo sotterraneo è animato e può succedere che una talpa confonda le cronologie creando una galleria nella terra e trascinando con sé i reperti da uno strato all’altro. È interessante pensare che un animaletto possa confondere i tempi, mescolarli come il cucchiaino agita lo zucchero nel tè, sembra che in archeologia sia «sempre l’ora del tè, e negli intervalli non abbiamo il tempo di lavare le tazze».  Animaletti inquieti come il Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie, con l’orologio in mano, che, quando lei gli domanda «Per quanto tempo è per sempre?» risponde: «A volte, solo un secondo». A volte, anche in archeologia per sempre è solo un secondo e noi archeologi abbiamo sempre il tempo in mano.

Flaminia Cruciani
(Poetessa e archeologa)
014
Campagna di scavi archeologici ad Elba in Siria
015
Campagna di scavi archeologici ad Elba in Siria
016
Campagna di scavi archeologici ad Elba in Siria
017
Campagna di scavi archeologici ad Elba in Siria

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