“Michele Fumagallo, giornalista che ha attraversato per intero la storia di un gruppo politico comunista nato sull’onda del Sessantotto, preferirebbe essere chiamato più un militante politico che un giornalista.
Ha attraversato vari pezzi del Sud con preferenza verso quello che una volta si chiamava Sud interno. Una scelta della parte più povera della società in linea con le sue idee. Uno strano meridionale in fondo che ama molto la cultura nordica, che odia il complesso di inferiorità ovunque si annidi, che ama l’autonomia del mondo del lavoro dipendente e del mondo femminile. Tra i territori Matera ha rappresentato più che un interesse, un amore”.
Non c’è cosa più brutta che autocitarsi ma la scheda su scritta mi fu chiesta dall’ufficio stampa del Circolo La Scaletta in preparazione degli incontri per il 60° anniversario della nascita a cui ebbi l’onore di essere invitato. L’ho riprodotta per intero perché dà l’idea della mia postura giornalistica negli anni (per quel che ho potuto, vista la povertà di mezzi), cioè un tentativo di marcare una realtà e garantire una continuità di attenzione che nel giornalismo comunemente inteso non c’è. Per Matera mi sono avvicinato di più (purtroppo non quanto avrei voluto) alla mia idea di “giornalismo militante” che segue la realtà non per lo spazio effimero di un momento. Questo è stato possibile perché la città non era per me un luogo come un altro ma, appunto, un amore.
Nato nelle letture, magari superficiali ma voraci, dell’adolescenza, in cui tra autori vari, a cominciare da Carlo Levi e Rocco Scotellaro, si insinuò in me un amore per la Lucania vista non solo come più forte del mio territorio d’origine, la contigua Alta Irpinia, ma più interessante per elaborare un mio progetto di autonomia delle “zone interne”, lontano dalle dannose dipendenze delle zone metropolitane forti.
Ecco una cosa che si dimentica spesso:i luoghi come Matera hanno rappresentato per tanti esterni, che cercavano per i propri territori un mito di rafforzamento della loro autonomia, la speranza di un riscatto dalla sopraffazione della grande città.
È ciò che mi ha aiutato a coltivare Matera – chiamiamola pure una fortuna – quando l’ho scoperta poco più che ventenne dopo anni che la sognavo attraverso la lettura e il cinema. Ricordo che quando mi affacciai da svariati punti sui Sassi, allora abbandonati, volevo urlare per l’emozione. E avevo persino una rabbia verso di me poco più che ventenne, siamo agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso, per averla frequentata “in ritardo” (come cambia la concezione del tempo!).
Da allora non c’è stato avvenimento che non abbia seguito da vicino o da lontano, con o senza la scrittura giornalistica. Dalle cronache politiche o sociali alla cultura che si sviluppava in città ma anche nel territorio: convegni, mostre d’arte, le continue scoperte di nuove chiese rupestri, incontri cinematografici o musicali. Con un’amarezza, mano a mano che terminavano gli anni dell’impegno: non poter più accompagnare “politicamente” gli avvenimenti ma limitarsi a “registrarli”.
Ricordo le continue discussioni sul destino dei Sassi, sulla figura di Carlo Levi, i passaggi su Pasolini con tutte le persone incontrate attraverso la sua figura. Indimenticabile fu l’incontro con Enrique Irazoqui, interprete del Cristo pasoliniano, venuto a Matera dopo 47 anni. Con lui, complice il comune amico fotografo Domenico Notarangelo, concordammo un’intervista esclusiva (uscì nell’inserto culturale de “Il Manifesto” più completa e intrigante di quelle uscite su altri giornali).
Mi commuovo al ricordo degli scambi con Friedrich Friedmann, ritornato a Matera dopo il soggiorno lavorativo nel dopoguerra del Piano Marshall: mi parlò passeggiando nei Sassi di essere scettico sul loro recupero perché non conosceva casi di città abbandonate e poi riabitate. Ricordo che obiettai che i quartieri non erano lontani dal resto della città ma profondamente “attaccati”.
Peccato non aver potuto continuare la discussione con una persona amabile che mi raccontava, assieme alla moglie Elisabeth, gli anni giovanili dell’incontro con Aldo Natoli fondatore de “Il Manifesto”. E poi amici che non ci sono più. Mi risuona all’orecchio la voce polemica di Leonardo Sacco («Devi venire, urgentemente. Dobbiamo fare un articolo») uno dei primi che ho incrociato anche attraverso le sue pubblicazioni su “Basilicata”. Tralascio, perché siamo in casa, i molti incontri d’arte a La Scaletta.
E poi ci sarebbe da fare un cenno ai rapporti più intimi con la città. Vivido è il ricordo delle passeggiate di sera nei Sassi abbandonati e a luce spenta, pieni di immondizie varie. Un gironzolare con paura e timore ma anche con il piacere del fascino morboso delle cose morte. E qui c’è forse una riflessione da fare su questa grande contraddizione della vita: l’attrazione dei Sassi di oggi, per me che pure sono stato tra quelli che hanno condiviso la lotta per la loro riabitazione (concepita diversamente da come è andata per la verità) non è paragonabile alla seduzione di allora. Perché? Lascio l’interrogativo senza risposta.
Racconto soltanto un fatto curioso che mi capitò la sera che seguivo un’edizione di Materadio prima del 2019, anno della Capitale europea della cultura. Passando da un concerto a un’altra piazza gremita (era già iniziato il valzer dell’assalto di massa alla città) fui sopraffatto e me ne tornai in albergo a leggere. Mi sentivo per la prima volta estraneo a Matera, a “quella” Matera. Fu solo un momento ma triste. Poi riprese – è inevitabile per gli amori di gioventù che vanno al di là del contingente e conservano l’impronta della commozione – , l’interesse per la città, per il suo futuro. Ritornò quindi quella fortuna di cui ho parlato prima. Memore anche del tempo in cui una minoranza coraggiosa promuoveva idee lungimiranti sulla città, spesso non ascoltate. Idee sperimentali su Matera, una capacità critica che si nutriva delle migliori culture nazionali, insomma un gusto di pensare alla città del futuro
Tutte cose in parte estranee a Matera, prima e dopo la sbornia del 2019. Faceva rabbia la sua indifferenza al turismo di massa tanti anni fa così come fa rabbia la mancanza di spirito critico verso le degenerazioni del turismo di massa oggi. Irritava allora la sua indolenza e ipocrisia verso i Sassi abbandonati così come irrita oggi la sua mancanza di critica verso un uso distorto degli antichi quartieri.
A Matera come altrove c’è una cappa di nuovo conformismo che uccide il futuro. Perché c’è una retorica sulla modernità malata che viene spesso presentata come progresso.
Perché c’è un conformismo latente che copre vecchie abitudini: il clientelismo può anche nascondersi dietro qualche parola di inglese. Se invece vogliamo iniziare una storia nuova – imperativo categorico per non essere risucchiati negli errori del passato – abbiamo due “santi” cui aggrapparci: il mondo del lavoro vivo e il mondo femminile.
E abbiamo un sentiero da seguire: quello dove colto e popolare (termini entrambi spinti verso la qualità più alta) stiano a braccetto, inseparabili.