Nel 2015, con i docenti universitari Marco Bertozzi, Monica Centanni e Daniela Sacco, abbiamo sviluppato uno spettacolo teatrale intitolato Omaggio di Venezia a Palmyra, una performance musicale e letteraria che raccontava di Palmyra, la città siriana all’epoca occupata militarmente dall’organizzazione terroristica ISIS.
L’allora direttore degli scavi archeologici di Palmyra, Khaled Al-Asaad, era stato brutalmente assassinato per essersi rifiutato di indicare dov’erano tenute nascoste le preziose sculture del sito archeologico. In seguito l’arco trionfale di Palmyra venne fatto saltare in aria, assieme ad altre aree del sito archeologico.
La comunità archeologica internazionale reagì repentinamente in diverse modalità, una tra le altre fu l’apertura del portale online “The Million Image Database” la cui mission principale consisteva nella raccolta di immagini fotografiche dell’arco trionfale prima della sua distruzione. Il portale veicolava una open call rivolta a chiunque avesse visto e fotografato l’arco, inclusi turisti e persone che quotidianamente vivevano il sito archeologico. Con il materiale fotografico raccolto, ed una collaborazione internazionale tra università e istituzioni, l’arco di Palmyra fu ricostruito tramite una particolare tecnica digitale chiamata fotogrammetria e stampato tridimensionalmente su pietra grazie ad un’azienda di Carrara.
Era la prima volta che si tentava la via della ricostruzione virtuale di un oggetto reale ormai scomparso tramite immagini realizzate da non professionisti raccolte via web. Erano necessarie infatti le migliaia di fotografie scattate da un turismo di massa che ha visitato ed immortalato l’arco trionfale di Palmyra per anni.
La fotogrammetria è oggi una tecnica di conservazione digitale archeologica ampiamente usata e impiegata, poiché facile da realizzare, non lesiva degli oggetti da duplicare ed in grado di restituire modelli tridimensionali virtuali particolarmente fedeli all’originale.
Il suo funzionamento è abbastanza intuitivo: attorno ad un solido centrale si realizzano fotografie a 360°, sino a coprire tutti i prospetti e punti di vista sullo stesso; queste fotografie vengono poi caricate su software che sono in grado di riconoscere il soggetto principale e astrarne la forma in un modello tridimensionale in una nube di punti, ossia nebulose di vettori. La forma completamente virtuale può poi essere elaborata, modificata, ingrandita o resa più piccola e stampata in un numero di copie a piacimento.
Per lo spettacolo teatrale Omaggio di Venezia a Palmyra mi occupavo della ricerca video e fotografica per i fondali da proiettare. Sono venuta a conoscenza del portale “The Million Image Database” e dell’open call per raccolta immagini. Mi sono quindi chiesta se questa stessa modalità potesse essere applicata ad un contesto più protetto e reiterato nel tempo, un rito ad esempio. Volevo comprendere come l’attitudine fotografica fosse ormai divenuta parte della nostra vita ordinaria e si fosse integrata perfettamente nel nostro comportamento quotidiano. Così ho trovato la Festa della Madonna della Bruna a Matera, festa religiosa e popolare che racchiude innumerevoli stratificazioni della cultura orale materana. La festa, che avviene ogni 2 luglio da secoli è complessissima e dura quasi 24 ore. Essa mette in scena l’aspetto rituale e reiterato della distruzione, ossia lo “strazzo”: ogni anno è simile al precedente, eppure in graduale mutamento, che vede l’integrazione progressiva dei sistemi di diffusione mediatici contemporanei – esempio gli smartphone.
Con questa intuizione (e con un pizzico di fortuna) ho iniziato a partecipare alla festa nel 2016, per studiarla e per capirla in modo da poter realizzare un video d’artista cortometraggio che ne raccontasse lo “strazzo” del carro trionfale e la sua duplicazione digitale.
La festa ha inizio all’alba del 2 luglio. Nel cuore della civitas medievale fa il suo ingresso, con al seguito i suoi animali, la figura del pastore che per eccellenza appartiene alla campagna. La giornata passa velocemente, sino alla sera, quando avviene lo “strazzo” in Piazza Vittorio Veneto.
Nella sinossi del mio film Il cielo stellato scrivo:
Ore 22:30. Nell’affollatissima piazza principale, smartphones e macchine fotografiche sopra le teste del pubblico sono puntate sull’imminente “strazzo” del carro trionfale. L’aria è elettrica, nell’attesa del momento finale della festa. Il carro in cartapesta sopraggiunge trainato da muli in corsa. La piazza si contrae e si lancia, il gigante scompare sotto gli occhi di tutti, diviso in migliaia di frammenti. Nell’attimo prima della sua evanescenza, la piazza costellata di dispositivi ha inconsapevolmente astratto e duplicato il grande artefatto. È una nube di punti, una fotogrammetria composta da vettori luminosi nello spazio nero virtuale: il terzo cielo stellato.
Con un rimando all’opera di Joseph Kosuth “una e tre sedie”, che descrive visivamente il triangolo semiotico, ho sviluppato l’idea di “uno e tre cieli” in relazione alle teorie de la media anthropology, che analizza i termini mediali e di circolazione delle immagini generate dagli esseri umani.
Il primo cielo è quello che veniva visto dai viaggiatori in arrivo a Matera. Così descriveva i Sassi di Matera nel 1703 Giovan Battista Pacichelli nel suo Regno di Napoli in prospettiva: «I lumi notturni» li fanno «parere un cielo disceso e stellato».
L’idea della vallata dei Sassi di Matera come città e/o cielo speculare alla volta celeste, si riferisce alle innumerevoli luci delle candele che di notte si diffondevano dalle aperture delle abitazioni scavate nel tufo.
Il secondo cielo è costituito dall’orizzonte tecnologico che si costruisce nella piazza Vittorio Veneto poco prima dello “strazzo”: sono i telefoni dallo schermo luminoso che creano una costellazione sopra le teste del pubblico. Il terzo cielo stellato è formato dalle immagini scattate a 360° del carro trionfale, che assieme creano la fotogrammetria, ossia la nube di punti luminosi nello spazio nero digitale.
Alla festa della Madonna della Bruna si partecipa anche attraverso gli smartphone, con fotografie e filmati, perciò quello che avviene è un doppio “strazzo”: uno reale dove gli assaltatori si lanciano sul carro trionfale in cartapesta per prenderne un pezzo e uno virtuale, dove coloro che restano attorno al carro fotografano e immortalano uno scorcio, un prospetto, un punto di vista. Inconsciamente, la folla nella piazza, realizza una fotogrammetria e conserva nelle migliaia di immagini ciò che è appena stato diviso in migliaia di pezzi, ossia la versione digitale ancora integra del carro trionfale appena scomparso.
Con la necessità di raccogliere queste fotografie generate collettivamente, ho lanciato a mia volta un’open call per la raccolta delle immagini fotografiche che avessero il carro come soggetto principale. L’open call è rimasta aperta più di un anno e mezzo.
In questo modo sono riuscita a raccogliere e dare in pasto al software sufficienti immagini da ricostruire quasi interamente il carro trionfale del 2017, per intero quello del 2016 e parzialmente quello del 2015, più innumerevoli frammenti e statue.
Tuttavia, nei tre mesi in cui ho abitato a Matera nel 2017, mi sono resa conto che la festa incarnava molto di più della tensione tecnologica, con la messa in scena di una narrativa popolare orale che si trasmetteva, modellava, diffondeva anche attraverso l’uso di nuovi media e nuove forme di narrativa. Assieme alle immagini circolano anche le storie. Quindi il film, originariamente pensato come un cortometraggio, è diventato un mediometraggio di ’50 minuti in cui ho raccolto, attraverso diverse interviste, molteplici punti di vista narrativi sulla festa e le sue storie. Esso tocca diversi temi, dall’ormai classico e traumatico dello sfollamento dei Sassi, che però ha aperto la strada al cinema d’autore che si è fatto a Matera, alle storie che alcuni film hanno iniettato all’interno delle narrazioni mitiche della festa stessa, sino al tema del “riscatto” che è anche inteso come riscatto tecnico e tecnologico contemporaneo.
Le immagini riportate in questo articolo sono vedute della mia mostra personale conclusasi a Milano nel marzo 2023 curata da Marta Cereda presso “Careof – organizzazione non profit” per l’arte contemporanea. Careof ha finanziato e prodotto l’intero film e progetto artistico, assieme alla casa di produzione cinematografica Invisibile Film e grazie al supporto della Lucana Film Commission. Nel percorso di mostra si poteva percepire la complessità del lavoro realizzato, pensato nel 2015 e che ha visto i suoi primi sviluppi nel 2016, per concludersi nel 2022 con le stampe fotografiche de i “Soggetti ricostruiti” e le “Icone”.
Inoltre, in collaborazione con gli eredi, ho dedicato una parete dell’esposizione all’archivio storico Franco Palumbo, riconosciuto dalla Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Basilicata come di interesse. V’era esposta una selezione ragionata dall’archivio, che illustrava brevemente alcuni aspetti popolari e documentativi della festa, alcuni pubblicati anche nel libro 2 luglio a Matera, edito da La Scaletta, con testi di Mauro Padula, Franco Palumbo e fotografie di Franco Palumbo e Mario Cresci, nel 1972. Le immagini dell’archivio inoltre fanno parte del film Il cielo stellato e accompagnano la narrazione da un punto di vista storico.
Accanto alle fotografie di Franco Palumbo e Mario Cresci c’era uno schermo, che riportava l’incipit del film Il cielo stellato nella sua versione estesa con un video intitolato Acheronte della durata di venti minuti.
Il primo momento della festa all’alba è la processione dei pastori. Un segno dell’esterno che entra nella città. Ma di pastori non ne sono rimasti molti. Sulla Murgia materana però ho trovato un vaccaro, che vive di allevamento con le sue cinquecento vacche podoliche e ho documentato la transumanza con l’aiuto di Teresa Lupo.
Con questo video volevo fornire una radice visuale in opposizione alla civitas, esterna alla città, nel luogo originario. Acheronte racconta il tragitto che le mucche compiono dall’alta Murgia sino ad oltre il fiume Bradano, una volta chiamato con questo nome e che segnava il confine della Lucania.
Nel progetto “Il cielo stellato” introduco una riflessione sull’atto fotografico come mezzo di azione inconscia collettiva, la cui capacità è quella di duplicare virtualmente la realtà che ci circonda. È nel nostro agire quotidiano, ripetuto e reiterato, che mappiamo i luoghi della nostra attenzione. Spesso queste fotografie sono messe in circolazione e condivise, finiscono in rete e contribuiscono ad alimentare database e archivi digitali immensi, gli stessi che attualmente sono utilizzati dalle intelligenze artificiali per costruire nuovi immaginari. La compresenza e tacita collaborazione tra soggetto e strumento, crea una nuova e diversa realtà, della quale cominciamo solo ora a vedere i primi spiragli. Con “il cielo stellato” mi sono sostituita ad una intelligenza artificiale e ho utilizzato mezzi e strumenti canonici come software dedicati, social oltre che la carta stampata. Ma è stata la partecipazione volontaria collettiva a poter rendere reale e possibile l’intero progetto.
È chiaro tuttavia che il singolo contributo fotografico si perde nel marasma delle immagini fotogrammetriche, per cui il punto di vista personale non è più riconoscibile.
Per quanto riguarda l’opera d’arte, quindi la mia rielaborazione dell’intero processo, mi sono limitata a scegliere un punto di vista sui modelli tridimensionali. Come regista ho posizionato, nello spazio vuoto e nero digitale del programma, le camere virtuali per scattare delle “fotografie” sulle fotogrammetrie.