Dalla narrazione mitologica agli storytelling virtuali. L’opera d’arte tra ticktocker ed epica.
Sono radicalmente cambiati gli orizzonti di comprensione delle cose.
Il post human ha cambiato tutto lo scibile intorno a noi: sapere, scienza, erudizione, dottrina, istruzione. Un repentino quanto oculato stravolgimento di tutti gli assetti mondiali imposti dal Capitalismo e Globalizzazione. Vedo Il “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo sul desktop di un computer. I figuranti del popolo hanno tutti gli smartphone in mano, sono delle torce accese che illuminano la scena. Chissà se la più grande ambizione di un capolavoro dell’arte è quella di diventare un’icona pubblicitaria. Il brand è scritto a caratteri trascendentali mentre l’autore del quadro è rimasto nell’anonimato più assoluto. Tombato dai pixel. Dalla perdita dell’Aura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, al recupero dell’Aura nell’era virtuale della sua riproducibilità digitale sono trascorsi 80 anni, nel frattempo che fine ha fatto l’opera d’arte, vorrei chiederlo davvero a Walter Benjamin, avendo il suo saggio influenzato e non poco diversi campi culturali. O quanto, il ruolo dei mass media abbia influenzato i nuovissimi linguaggi contemporanei.
Il pezzo unico, l’originalità, l’unicità, la riconoscibilità sono ancora peculiarità necessarie o l’opera originale è solo la reliquia esposta in un cimitero museale, prodromo dell’intelligenza artificiale, immagine usa e getta, photoshoppata, cannibalizzata per meri espedienti speculativi? Come è cambiata la percezione dell’opera d’arte nel corso dei secoli? Le opere d’arte sono fra noi, possiamo far parte di un CENACOLO o dell’URLO con una semplice applicazione sullo smartphone.
Dagli smartphone sono partite le grandi rivoluzioni dei brand, affidandosi sempre più a nuove figure professionali nate dai social network: Art Creator e Art Influencer. Qual è lo stato di forma dell’opera d’arte nel mercato dell’economia globale? Dal Marketing al merchandising, dai brand al packaging accattivante, dai Reels di Instagram ai video dei Tik Toker come è cambiata, la fama, la notorietà di un capolavoro assoluto dell’arte? A dirottare le sorti della cultura, a determinare la diffusione e la consacrazione di un’opera d’arte in passato ci hanno pensato il cinema, la pubblicità, la moda, infine il web. Tutti fattori collaterali in grado di rendere virale la popolarità di un piatto gourmet veicolato su un desco di Seurat. Gli intenti sono espliciti (intenti speculativi ovviamente) del business funzionale allo scopo.
Oggi la celebrità si misura in visualizzazioni e followers sulle piattaforme, in abbondanza d’informazione si è notata una scarsità di conoscenza, talvolta il sapere è nascosto tra le righe fittissime di algoritmi e paradigmi. Cosa conferisce ad un’opera d’arte lo status di Icona? Quali possono essere gli indicatori di notorietà?
Ci sono voluti più di tre secoli per conferire a “La ragazza con l’orecchino di perla “ di Vermeer lo status di icona globale, dimostrando che il valore di una immagine è superiore alle sue qualità artistiche, e che a determinare il successo talvolta non è l’opera, né l’artista, tantomeno l’aura di mistero. A risollevarne le sorti o a decretarne il successo dopo secoli di oblio, sono fattori esterni; nel caso della -Gioconda del nord- furono il romanzo di Tracy Chevalier e poi il film di Webber a farla entrare nell’immaginario collettivo mondiale. Tutti furono stuzzicati, e a cavalcarne l’onda mediatica e commerciale furono pubblicitari e stilisti. Il web ha massacrato tutto, l’opera più sacra è stata vittima di scherno e vilipendio, manipolata per finalità commerciali e propaganda politica. Nulla può sottrarsi alla globalizzazione, alle immagini spazzatura diffuse su internet. Il mito è stato deposto, e con esso l’immagine simbolica, il diritto di riproduzione di un’opera, il copyright. Si sono moltiplicati i diversi livelli di accessibilità all’arte. Compri un pezzo di immaginario stampato su una borsa e ci cammini insieme con le amiche in metropolitana.
Sul ring della contemporaneità, sacro e profano, trovano ancora spazi demagogici e ritualità. L’opera è spogliata e vestita, Nuda e Desnuda per parafrasare Goya, dicotomie e scambi di ruoli più o meno fittizi sono accettati. Da una parte l’autore, l’epoca, il periodo e il luogo che ha in custodia l’opera. Dall’altra il tritacarne mediatico, l’orco dell’intelligenza artificiale, l’onnivora predatrice del mercato, la commercializzazione delle IMMAGINI riprodotte, provenienti dall’arte: dalle tazzine di caffè alle borse, dalle tappezzerie ai capi di moda, dal web e dalla televisione, siamo bombardati di arte o ciò che ne rimane esteticamente di essa, una reliquia appunto da mostrare appesa al lobo dell’orecchio. Le probabilità di imbattersi nei girasoli di Van Gogh nella sala d’attesa di un dentista, di indossare un capo firmato con gli stilemi di Keith Haring, sono di gran lunga superiori all’ incontro casuale della luna riflessa sul mare o di un parente stretto.
Entrare in un pub ci rende familiare Andy Warhol più di quanto farebbe una lezione sulla pop-art a scuola. La scelta di recarsi in un museo per vedere una sua mostra non aggiungerebbe nulla. Siamo talmente integrati e connessi dentro il quadro virtuale della vita, che la nostra esistenza reale sparisce in quella fantastica, l’unico punto di contatto è credere che indossare un capo griffato da un artista ci renda unici e originali. Semplicemente si è stati sedotti dal brand e una volta aver espletato il ruolo di consumatore gettati nel cestino dell’omologazione. Ma l’arte d’altronde non è forse una grande illusione?
Gli artisti sfidavano la vita e rivaleggiavano con la natura. Oggi a contendersi il primato con l’arte è il brand, il marketing. L’arte viene svelata dal web, vivisezionata dall’intelligenza artificiale, fornendone una chiave di lettura più immediata che intellettuale. Infrangere un’icona, depotenziarla, banalizzarla per renderla digeribile dalle masse, sconvolgere la sua ideale perfezione, sottrargli la bellezza classica per una strategia commerciale, è l’atto più parossistico e speculativo.
Darne una versione sghemba e goffa, patetica e ironica, predispone di gran lunga meglio al raggiungimento delle finalità di successo richieste dal business e dalla commercializzazione della stessa. Spesso l’ascensione di una immagine a ruolo di icona la si deve ad un singolo dettaglio sottratto dal suo contesto iconografico.
Pensate ai cherubini di Raffaello protagonisti ai piedi della Madonna Sistina, estrapolati dalla pala d’altare rinascimentale e manipolati da Italo Lupi in “ANGELS “per il marchio Fiorucci. Quei putti alati potreste ritrovarveli stampati sulle lenzuola, su scatole di cartone e dietro i lunotti delle automobili.
Il mistico cede il passo al glamour. L’umanità degli angeli sulla testata del letto degli sposi fu negli anni 90 un cliché dell’arredamento. I russi in passato furono colti da una vera e propria Raffaello mania riproducendo di continuo i due simboli religiosi della purezza. Ritagliare i putti dal suo contesto ebbe una risonanza planetaria, fu proprio una operazione di merchandising, portando l’icona da divina a divinità commerciale, trascendendo i fini spirituali della chiesa. L’icona è la perfetta sintesi subliminale di tutti i contenuti semantici e formali che l’hanno resa celebre. Come la guerra anche l’opera d’arte è diventata un business commerciale privata di ideali valori etica e morale.
Ti porti a casa il souvenir in plastica, il ciondolo venduto ai bookshop nei musei, un surrogato spesso orribile delle opere d’arte originali. Appropriarsi di un ricordo rende tutti più felici, tutti protagonisti di un selfie, di una “storia” condivisa con i followers sui social, in attesa che le visualizzazioni rendano likes.
Questo ci ha mostrato Banksy; non si può sfuggire al potere simbolico delle immagini. Utilizzare come strumento di lotta i tabù, i conflitti, le paure delle persone per sfuggire alla cattura degli stereotipi e del politicamente corretto della fatua democrazia Occidentale è pericoloso. Un Banksy esposto in un museo è un oltraggio, un vero e proprio scandalo, una appropriazione indebita, mai autorizzato dall’artista. Solo Banksy è riuscito a generare nuovi significati oggettivi facendo cadere le istituzioni culturali nel tranello della menzogna. Dal continuo spostamento di senso, sempre nuovo e originale alle sue operazioni anticonformiste, le opere di Banksy sono divenute armi di ricostruzione dell’unicità, in contrasto con la distruzione di massa perpetrata dalla globalizzazione e del Capitalismo, dalla pandemia, dalla guerra, massa. L’idea è immateriale, inizia e finisce con essa. E’ la spiritualità, l’umanizzazione, il segreto dell’artista di Bristol.
Alla demolizione del mito ci pensò Duchamp, proseguirono nella profanazione Dalì, Seydoux, Orlan, Gruel, a completare l’atto sacrilego ci ha pensato il web. Colpire le grandi icone è molto in voga, anche il mondo della cultura ha contribuito allo sfruttamento commerciale di alcuni artisti. Opere colpite da satira, da propaganda politica, da sberleffi pubblicitari. È abbastanza ordinario tornare a casa con la Grande Onda di Hokusai stampata sul cartone della pizza.
La popolarità verso il grande pubblico è il primo obiettivo del marketing. L’industria della moda ha trasformato la Venere di Milo in un’icona pop, in un modello estetico; in eroine del fumetto e della cartellonistica di fine 900’. Il cenacolo di Leonardo, il più elevato modello di civiltà del rinascimento fiorentino, è stato ampiamente mitizzato e sdoganato. Al posto dei 12 apostoli abbiamo visto di tutto. Rock star, politici, fotografi, tutti avrebbero voluto appartenere a quella mensa eucaristica. Il cenacolo, il dogma cattolico per eccellenza, trasformato in simbolo della ristorazione, della seduzione. L’ultima cena ebbe la sua notorietà nella sua infinita incompiutezza. Un vero capolavoro spettrale, un fantasma dell’arte. La prova della potenza iconografica è comprovata anche dalle innumerevoli parodie che ne sono state fatte con intento profanatorio.
Un tempo avrebbero fatto inorridire snob e bacchettoni benpensanti, ma già col cinema gli intenti dissacranti furono molto espliciti, dall’uso di scene parodistiche fino all’uso spregiudicato del virtuale e del digitale. Pensiamo alla venere di Milo adottata come baluardo delle lotte femministe, o simbolo della disabilità. Il David di Michelangelo ri- vestito da Missoni o la serigrafia in polimeri del “David” reso da Warhol baluardo dell’estetica Gay. Chi non ha visto in TV la reclame di Einstein fare la spesa al supermercato, riempire il carrello con una spesa intelligente. Opere d’arte, premi Nobel, dive della moda, star del cinema, scienziati, usati per reclamizzare prodotti di largo consumo per la grande distribuzione.
L’opera di Mirone, il “Discobolo” è stato un modello di virilità e salute. Ha guadagnato un ruolo primario nell’immaginario sportivo, associando alla forza fisica il potere politico. Opere divenute soggetti per fiction e serial televisivi. La grande visibilità, l’ondata di popolarità, la fama, il potere evocativo dell’opera è entrato con prepotenza nell’immaginario collettivo e nelle abitudini quotidiane. Il digitale ha concesso una conoscenza più diffusa delle opere d’arte, una immagine sempre interpretabile, versatile, modificabile, riproducibile. Questa è una delle verità. Le ombre di regresso sarebbero tante. Certe opere hanno accresciuto la propria fama attraverso le loro imitazioni piuttosto che dall’osservazione diretta della stessa. La disponibilità alla caricatura, all’irrisione, al grottesco ha favorito la sua antropizzazione. Antropizzato, il capolavoro è più bello, mutuato in messaggio pubblicitario più sostenibile, la conoscenza parodistica, la sua dissacrazione, più fruibile, fuori dai contesti istituzionali dove l’arte spesso prende polvere.
Anche nel caso di opere eccelse talvolta la celebrità (della sua immagine iconica) ha nuociuto all’artista che l’ha realizzata, non concorrendo alla costituzione del mito, ma passando in secondo piano, confinandolo nell’anonimato. Il prestigio, l’epoca storica, il luogo d’esposizione sono ormai solo mete turistiche sui programmi di viaggi organizzati. La tecnica dell’incisione la possiamo considerare l’antesignana, il primo mezzo di riproduzione di massa in grado di moltiplicare e diffondere un dipinto. Trarre copie da opere già esistenti per la divulgazione e lo studio. Poi arrivò la fotografia analogica, quella digitale, infine il web. Portarsi a casa una riproduzione, una copia dell’originale, un ricordo è uno straordinario valore emotivo, fa parte di un inconscio collettivo e di un immaginario coinvolgente.
La Gioconda di Leonardo è stata il primo enigma della storia dell’arte. Il volto di un mistero inaccessibile. A quel sorriso sono stati attribuiti infiniti significati.
Il mistero della sua identità, il furto, la divulgazione popolare, ha reso la Mona Lisa, un modello di perfezione e ambiguità che ben si è adattata alla promiscuità dissacratoria dei nostri tempi irriverenti e irreversibili. Vi sarà capitato di vedere la Gioconda con in testa la parrucca di Marge dei Simpson, la sitcom animata statunitense creata dal fumettista Matt Groening nel 1987. Nei suoi 35 anni di vita il cartone animato ha sancito la fortuna di molti personaggi dell’arte della musica e dello spettacolo. Finire in un episodio della parodia satirica della famiglia americana è tuttora un privilegio, la definitiva consacrazione di un mito. Arrivare al grande pubblico è il massimo riconoscimento commerciale. Ma davvero l’opera d’arte farebbe la fortuna dell’artista? L’artista morirà con l’illusione che l’arte lo renderà immortale. La morte del Mito rassicura le vendite e i mercati. Se per voi finire stampato su uno zerbino è una fortuna, chiedetelo a quegli artisti morti in povertà e solitudine, facili prede di follie e allucinazione, battuti all’asta per milioni di dollari. L’eternità è davvero blandizia della carne, una detenzione imperdonabile per qualsiasi essere umano. Le opere d’arte, sono in grado da sole di compiere grandi rivoluzioni, di incarnare lotte sociali, di fugare sensi di colpa storici e uscire in cerca di nuovi grimaldelli di affermazione? La risposta è NO!
Le opere d’arte, sono solo oggetti di un desiderio di seduzione per teenager, in grado di cambiare le sorti e la reputazione, date in pasto a influencer, in grado con milioni di followers di sentirsi mito, leggenda, icone di un tempo inflazionato, incontrovertibile anche al mito? La risposta è ancora NO! Non dimentichiamoci mai che l’opera d’arte è innanzitutto un prodotto.
Il prodotto ha bisogno di un mercato. E oggi la strategia di vendita sembra l’unica via di salvezza per non rendere il mito, un feticcio obsoleto custodito in un museo. Sempre più spesso ci si rivolge a cultural influence, Art Influencer, per avvicinare più persone possibili al mondo dell’arte. Musei, gallerie ed Istituzioni culturali si rivolgono sempre di più a Art Influencer capaci di sostenere potentemente iniziative semplicemente partecipando ad un vernissage, mostrando sui social network i contenuti virtuali di un vernissage, anteprime di eventi, storie, album fotografici. I social media hanno sdoganato professioni che per troppo tempo si sono mosse solo intorno ad ambiti prettamente accademici, introducendo sul mercato del marketing culturale nuovi ambiti specialistici, nuove figure professionali, molto richieste sul mercato capaci di influenzare, pilotare, e muovere masse di persone, delle vere e proprie fideiussioni del gusto. I contenuti multimediali di Cultural Influence, Art Influencer sono gli enzimi più richiesti dai brand, è come se possedessero pacchetti di consumatori, clienti, rubriche di mail list nelle loro disponibilità, followers e visualizzazioni di un pensiero di mercato sempre più legato ad alleanze con i brand per condividere insieme un sistema di valori amatissimi dai millennial.
Infine se il Mito è una narrazione investita di sacralità relativa alle origini del mondo o alle modalità con cui il mondo stesso e le creature viventi hanno raggiunto la forma presente. Quella del mito è stata una narrazione di eroi protagonisti di leggende di un mondo soprannaturale. Gli influencer allora potremmo considerarli i nuovi narratori dell’intelligenza artificiale (in futuro del metaverso) in grado di raccontarci attraverso reels, storytelling e video quel mondo davvero fatto di pratiche rituali e sociali soprannaturali dell’etere, del web, del virtuale. Davvero gli influencer sarebbero in grado di sostituirsi a semidei, eroi e mostri che hanno assediato miti e leggende per rispondere alle grandi domande che gli uomini si pongono sul loro destino, davvero possono offrire una spiegazione a tutto questo mondo on line contrapposto a quello on the road?