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uaderni de La Scaletta

Come un’esistenza tutta di madreperla che solamente di luce si nutra, ed eterna duri

Camera con vista

La poesia è il mondo.

Orazio Persio, Tommaso Stigliani e un inedito dialogo tra testi ([1])

Nell’Orlando furioso, tornando dal Regno di Logistilla, il paladino Astolfo chiede ad Andronica, che lo sta scortando verso la sua patria insieme a Sofrosina, se sia possibile spostarsi «senza toccar mai terra» tra l’India e l’Europa. Nella risposta che riceve è inclusa una profezia post eventum (ovvero narrata come tale nonostante l’evento a cui si riferisce si sia già verificato nel momento in cui l’autore scrive), che così prende avvio (XV 21, 1-4):

Ma volgendosi gli anni, io veggio uscire
da l’estreme contrade di ponente
nuovi Argonauti e nuovi Tifi, e aprire
la strada ignota infin al dí presente.

Il ricorso a questo espediente da parte di Ariosto era motivato non solo da un dato cronologico, essendo il Furioso (di cui leggiamo l’edizione del 1532, che rielabora quelle del 1516 e del 1521) ambientato nel periodo dello scontro tra gli eserciti cristiani di Carlo Magno e i loro antagonisti musulmani (VIII sec.), ma anche dall’effetto di senso che l’autore poteva ottenere raccontando in forma di profezia un evento epocale ancora ignoto ai personaggi del testo, ma non al lettore, che poteva trarre particolare divertimento da questo scarto conoscitivo. Il discorso di Andronica trova un punto focale in quel «ma» che sottolinea come di lì a qualche secolo sarà messo in discussione (per non dire stravolto) ciò che fino ad allora era noto e indubitabile. Sarà superfluo, infatti, ricordare che la scoperta dell’esistenza di nuove civiltà, storie, culture e religioni in spazi del globo fino ad allora ignoti – e che ancora Dante definiva «sanza gente» (Inferno, XXVI 117) – scosse dalle fondamenta le certezze del vecchio mondo.
Nella nostra tradizione epica, Torquato Tasso ci offre un altro importante esempio di questa strategia narrativa nella Gerusalemme liberata (1581). Nel canto XV, precisamente nelle ottave 30-32, Fortuna, alla guida dei guerrieri cristiani Carlo e Ubaldo, profetizza la futura impresa di conquista:

Tempo verrà che fian d’Ercole i segni
favola vile a i naviganti industri,
e i mar riposti, or senza nome, e i regni
ignoti ancor tra voi saranno illustri.
Fia che ’l più ardito allor di tutti i legni
quanto circonda il mar circondi e lustri,
e la terra misuri, immensa mole,
vittorioso ed emulo del sole.
[…]
Tu spiegherai, Colombo, a un nuovo polo
lontane sì le fortunate antenne,
ch’a pena seguirà con gli occhi il volo
la fama c’ha mille occhi e mille penne.
Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo
basti a i posteri tuoi ch’alquanto accenne,
ché quel poco darà lunga memoria
di poema dignissima e d’istoria.

Colombo è raffigurato come un eroe moderno, destinato a un’impresa «di poema dignissima e d’istoria», degna, cioè, di entrare a pieno titolo nella storia e nella letteratura epica. Il suo viaggio di scoperta sarà di certo molto più memorabile del «gran caso» (la ‘straordinaria avventura’) dell’Ulisse dantesco, che, con il suo fallimentare «volo audace» (già «folle» secondo Dante, Inf., XXVI 125), aveva tentato invano di superare le colonne d’Ercole, limite estremo del mondo conosciuto e conoscibile.
L’enorme fortuna di entrambi i poemi epici trova eco anche nella Matera del ’600. Orazio Persio (1580-1649), giureconsulto e letterato, nipote dei più celebri zii, Antonio e Ascanio Persio, nella prefazione al suo poema epico-religioso dedicato alla vita di San Vincenzo Ferreri, pubblicato nel 1634, collocava tra i massimi poeti proprio Ariosto e Tasso, definendoli «morti immortali». In questo Parnaso, però, l’autore materano si era preoccupato di collocare anche un illustre concittadino, Tommaso Stigliani (1573-ante 1659), che un’antica amicizia legava alla sua famiglia, e che i suoi scritti e la lunga esperienza in Accademie e corti italiane avevano ormai reso celebre: Né è lecito, che altri ardisca d’intitolarsi Poeta in questa città precisamente che ha prodotto il Sig. Cavalier Thomaso Stigliani, veramente famoso poeta, e tanto stimato nella corte Romana, in Italia e fuori per li suoi gravi componimenti, e faticoso e regolato Poema Heroico del Mondo Nuovo. Ecco dunque comparire in scena il Mondo nuovo, poema sulla scoperta dell’America che Stigliani aveva pubblicato nella versione definitiva a Roma, nel 1628. Questa lettera, come abbiamo anticipato, è del 1634, ma l’episodio su cui ci soffermeremo risale a tredici anni prima. Il manoscritto inedito delle Rime diverse di Persio (Biblioteca Provinciale di Matera) include, tra gli altri, un sonetto che il giureconsulto dedicò a Stigliani datato da Roma al 20 Aprile 1621 e intitolato «A Cristoforo Colombo intorno al Mondo Nuovo, poema eroico del Cavaglier Stigliani».
Orazio Persio aveva avuto a Roma un importante punto di riferimento nello zio Antonio, che alla sua morte lasciò a disposizione dei suoi familiari la sua ricca biblioteca romana. Aveva vissuto alla corte di Bartolomeo Cesi, dove scrisse alcune delle sue opere filosofiche più rilevanti; il Cesi, com’è noto, era lo zio del principe Federico, scienziato e fondatore dell’Accademia dei Lincei (di cui dal 1611 fece parte anche Galileo Galilei), la quale diede ad Antonio, dopo la sua morte (avvenuta nel 1612), un’eccezionale linceatura postuma.
Nei primi mesi di quell’anno è dunque probabile che Orazio Persio poté incontrare Stigliani a Roma. Il letterato si era infatti trasferito nella capitale nel gennaio del 1621, fuggendo dal clima ormai teso e creatosi a Piacenza, presso la cui corte aveva soggiornato precedentemente. Al trasferimento lo aveva spinto anche la speranza di trovare uno sbocco editoriale per la versione definitiva del suo Mondo nuovo, già edito a Piacenza in un’anteprima di venti canti nel 1617 (l’edizione definitiva, che sarebbe stata pubblicata a Roma nel 1628, ne conta 34). I versi che seguono – di cui è stata offerta un’edizione([2]) – evidenziano la particolare fortuna di un topos letterario che dovette svilupparsi in seno a un tacito dialogo tra idee e testi circolanti nel milieu intellettuale romano in cui Persio molto probabilmente incontrò Stigliani.

È ver spiegasti, o grand’Augel liguro,
invitto eroe, di perle i vanni e d’oro,
a noi fra genti ignote e fra coloro
ch’esser il mondo nostro ebbero oscuro.
Alto cammino, faticoso e duro
onde n’hai gloria oltr’il vecch’Indo e Moro
e fia che resti il ricco tuo lavoro
incontro il tempo inespugnabil muro.

Ma scorgo un tal di maggior gloria degno
che tu non sei, poiché s’altrui costante
mostrasti estraneo suolo e mar profondo

pur si celava ai più. Ma l’alto ingegno
del gran Stiglian, anzi novello Atlante,
a ognun con nuovo stil porta il tuo Mondo.

Del sonetto (schema ABBA ABBA CDE CDE), di non immediata leggibilità, si propone una parafrasi:
“È vero, volatile ligure, eroe vittorioso, spiegasti a noi le ali di perle e d’oro fra genti sconosciute e fra coloro che erano all’oscuro dell’esistenza del nostro mondo. [Hai precorso] un cammino lungo, faticoso e difficile, per il quale ricevi gloria oltre il vecchio Indo e il Mauro, e il tuo prezioso lavoro resisterà [quale] muro inespugnabile contro il tempo. Ma scorgo un tale degno di una gloria maggiore della tua, poiché se, costante, mostrasti ad altri un suolo straniero e un mare profondo, [tutto ciò] restava ignoto ai più. Ma l’elevato ingegno del grande Stigliani, anzi, del nuovo Atlante, porta ad ognuno il tuo Mondo con un nuovo stile”.
L’elogio a Colombo, come si può notare, a differenza di quanto accadeva in Tasso – che pure in alcuni punti ora riaffiora -, è soltanto apparente: l’eroe moderno ha aperto gli orizzonti dell’ignoto, senza, però, gettare le basi affinché quell’impresa divenisse oggetto di una memoria collettiva, senza che, in altre parole, la sua scoperta venisse eternata e trasmessa. L’apertura con «È ver», di carattere concessivo, non fa altro che sottolineare fin da subito questo limite. L’opera di Stigliani, che – come un nuovo Atlante – si è incaricato del “peso” del Nuovo mondo, ossia della sua trasposizione nel poema epico, fa sì che l’impresa del letterato sia degna di «maggior gloria» di quanto non sia quella dello scopritore. L’avversativa forte, quel «ma» che nel Furioso introduceva la “visione” con cui si apriva la profezia post eventum di Andronica («ma […] veggio»), risuona con il suo potere modellizzante nella memoria di Persio, il quale, tuttavia, se ne serve per introdurre lo scarto tra i meriti di Colombo e quelli di Stigliani («ma scorgo un tal di maggior gloria degno»). L’autore del Mondo nuovo, infatti, incarna il potere della letteratura, capace di portare «ai più», ovvero a chi non partecipò all’impresa del navigatore ligure, un’esperienza e delle gesta lontane nel tempo e nello spazio. Sul respiro universalistico dell’epica, del resto, già Tasso si era espresso nei suoi Dialoghi dell’arte poetica, evidenziando che il poema perfetto, per la varietà di materie narrate e rappresentate, dovesse somigliare a un «picciolo mondo».
In Persio, dunque, il perimetro di esistenza dell’impresa coincide con il territorio “di carta” del poema, unico mezzo che, attraverso il linguaggio, rende universalmente e capillarmente conoscibili le gesta eroiche. Nella sua opera – che potremmo definire di sostegno “militante” al concittadino illustre – l’autore materano sembra aver rilanciato un’idea che era già di Stigliani, il quale in apertura del suo Mondo nuovo (secondo il testo della prima versione a stampa, I 3), scriveva:

O spirito del Ciel, che là spirato
dal Padre e dal Figliuol, per tutti hai regno:
tu che portasti il campo avventurato
dove era il vento di portarlo indegno,
gonfia ancor’oggi col tuo santo fiato,
la debil vela del mio basso ingegno.
Da te venne l’aita a chi fe’ l’opra,
e da te venga a chi la canti e scopra.

L’invocazione allo Spirito Santo affinché sostenga il cantore nella sua impresa si sviluppa nel segno di un’identificazione tra quest’ultimo e Colombo-navigatore (passando per l’antico topos della scrittura come navigazione): il soffio divino viene, così, metaforicamente rappresentato come vento propizio per il poeta-navigante, il cui ingegno è paragonato a una vela. Questa sovrapposizione ha il suo paradossale culmine nel finale dell’ottava, in cui lo Spirito Santo viene invocato non solo per l’aiuto che diede a chi “fece l’opera”, ovvero Colombo, ma anche perché sostenga lo scrittore, che non semplicemente la canterà, ma di fatto “scoprirà”! quell’impresa.
L’appropriazione dei meriti di Colombo da parte di Stigliani avviene in virtù del potere della parola poetica, un concetto su cui l’autore sarebbe tornato anche nella versione completa del Mondo nuovo, che così si chiudeva: «E qui finita unitamente sia / l’impresa del Colombo, e l’opra mia» (XXXIV 213, 7-8); la conclusione dell’impresa di Colombo – e quindi la sua stessa “esistenza”, al di là dell’hic et nunc in cui avvenne – finiva per coincidere a pieno con il testo che la narrava.
Il “dialogo” interdiscorsivo tra il poema di Stigliani e il sonetto di Persio trova dunque il proprio fil rouge nell’idea che l’ingegno letterario sia l’unico strumento in grado di condurre l’esperienza umana al di là del tempo e dello spazio.

Cristina Acucella
(Ricercatrice di Letteratura Italiana, Dip. di Scienze Umane, Università degli Studi della Basilicata)
Jan Vermeer, L'astronomo -1688. Museo del Louvre, Parigi
Johannes Vermeer: L’astronomo , 1688. Museo del Louvre, Parigi

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