Il senso comune vuole che quando si parli di morale, etica e giustizia valga sempre e soltanto una logica di responsabilità: ciascuno, in buona sostanza, risponde esclusivamente di ciò che fa o che concorre a produrre come conseguenza (più o meno diretta) delle proprie azioni.
Ciò starebbe a significare che possiamo essere moralmente giudicati esclusivamente in rapporto a fattori che sono sotto il nostro controllo. Tant’è che taluni considerano l’immunità alla sorte come l’essenza della morale. Si tratta del principio del controllo.
Un’idea che trova essenzialmente ispirazione in Immanuel Kant: “la volontà buona è tale non per ciò che causa e realizza, né per la sua capacità nel conseguire un qualche fine che essa si propone, ma solo per il volere, ossia è buona in se stessa”. Tuttavia le cose non stanno proprio così. Poiché in moltissimi casi tendiamo a giudicare le persone per azioni sulle quali esse non hanno controllo. E in altrettanti casi le circostanze in cui si trovano le persone non dipendono affatto da ciò che esse hanno contribuito a determinare con le loro azioni e scelte volontarie.
Ma è possibile, in qualche modo, depurare il giudizio morale o etico, così come la valutazione di giustizia, dalle conseguenze indesiderate della sorte ? Cioè a dire: possiamo in qualche misura determinare ciò che nelle circostanze in cui si trova una persona soggetta a giudizio morale non dipende dalla sua volontà, ma da fattori sui quali essa non è in grado di determinare alcun controllo specifico? Anzitutto, si tratta di individuare il tipo di sorte con la quale si ha a che fare.
Il filosofo americano Thomas Nagel, nel capitolo del volume Questioni mortali (1979) dedicato proprio al tema della “Sorte morale”, identifica quattro diversi tipi fondamentali di sorte: risultante, circostanziale, costitutiva e causale.
Il primo tipo, la sorte “risultante”, concerne il modo in cui gli eventi vanno a finire. Il nostro giudizio sulle azioni può essere molto diverso se gli esiti di tali azioni prendono una piega differente da quella che avremmo potuto aspettarci in caso di successo.
Come avremmo giudicato Gauguin se, dopo aver abbandonato la sua famiglia per condurre una vita da artista a Tahiti, non fosse (con una buona dose di fortuna) diventato famoso? Qui abbiamo chiaramente a che fare con decisioni in condizioni di incertezza, e non è affatto detto che l’azzardo morale su cui scommette chi agisce, puntando su un esito invece che su un altro, abbia un positivo riscontro nei fatti.
Il secondo tipo, la sorte “circostanziale”, riguarda invece le circostanze in cui ci si trova. Talvolta condotte moralmente deprecabili scaturiscono dal contesto in cui ci si trova a operare, senza che chi agisce abbia avuto la possibilità di scegliere tale contesto. Come avremmo giudicato i collaboratori dei nazisti nella Germania degli anni Trenta, se questi si fossero trasferiti in altri paesi prima dell’avvento di Hitler e avessero di conseguenza avuto l’opportunità di condurre vite esemplari?
Il terzo tipo, la sorte “costitutiva”, è quel genere di sorte che interessa una persona in virtù dei tratti e delle disposizioni soggettive che ha. Dato che la “lotteria della vita” riserva a ciascuno di noi particolari dotazioni sociali (si nasce ricchi o poveri), naturali (si nasce belli o brutti), ambientali (si nasce in una città piena di opportunità o in una landa desolata; si frequentano persone colte e istruite o persone che sanno a malapena leggere e scrivere; si ha la possibilità di ottenere un’istruzione qualificata o non si può andare oltre la scuola dell’obbligo), che contribuiscono a renderci la particolare persona che si è, finendo con l’influenzare in maniera decisiva il modo in cui si agisce, parte consistente dei nostri comportamenti non può essere attribuita a volontà. Per quale motivo dovremmo biasimare un comportamento egoista, se tale comportamento fosse dovuto a una serie di condizionamenti e fattori esterni che hanno contribuito allo sviluppo di un atteggiamento egoista?
Il quarto e ultimo tipo, la sorte “causale”, dipende infine dagli effetti causati da circostanze precedenti all’agire. Vi è infatti una qualche path dependancy in alcune circostanze che contraddistinguono il contesto delle azioni suscettibili di giudizio morale. Qui abbiamo chiaramente a che vedere con il classico problema del libero arbitrio.
Quando si è davvero responsabili delle proprie azioni, nel senso che tali azioni sono conseguenza esclusiva di una serie di circostanze e fattori che sono completamente sotto il nostro controllo?
Questi diversi tipi di sorte morale stanno a significare una cosa ben precisa: molti dei nostri giudizi sulla responsabilità morale che le persone hanno rispetto a ciò che fanno sono inevitabilmente pregiudicati dall’esistenza della sorte. Ma ciò dovrebbe forse implicare il definitivo abbandono del giudizio morale? Sebbene la gamma dei tipi di sorte morale destinati a condizionare i nostri comportamenti sia molto ampia, l’idea che le persone siano in qualche misura responsabili di ciò che fanno conserva una sua forza.
Continuare ad applicare il principio del controllo alla sorte “risultante” consente di ammettere la possibilità di essere giudicati in ragione delle proprie intenzioni, invece che per gli effetti e le conseguenze delle stesse. Anche se la sorte “circostanziale” induce a ritenere che vi siano circostanze – appunto – che possono gravemente ledere questo principio, mentre la sorte “causale” e quella “costitutiva” sembrano davvero impedire ogni possibile forma di giudizio morale corretto.
Se, infatti, la particolare persona che si è, così come ciò che si potrebbe liberamente fare in determinate circostanze, sono sottratte alla volontà e all’intenzione, che cosa più resterebbe del giudizio morale? Il punto, come sostiene Nagel, è che vi è qualcosa nell’idea stessa di azione (o, meglio di capacità di agire, cioè agency) che è incompatibile con il fatto che le azioni siano eventi, cioè stati di cose determinati da fattori esterni al soggetto agente. E questo dato è in larga parte correlato anche con il nostro modo di vedere il mondo, che sempre secondo Nagel vive un’irriducibile contraddizione fra due diverse prospettive che su di esso possiamo assumere.
Una prospettiva soggettiva, centrata su chi agisce, che osserva e sperimenta l’esistenza di individui in azione. E una prospettiva oggettiva, neutrale rispetto a chi agisce, proveniente da “nessun luogo”, che osserva e sperimenta l’esistenza di stati del mondo, circostanze, eventi. Ci accade così di vivere in un mondo fatto di persone, che al tempo stesso possiamo percepire come un mondo fatto di eventi, come momenti spersonalizzati rispetto al nostro essere le particolari persone che siamo. In una prospettiva epistemologica, questa irriducibile tensione morale fra soggettivo e oggettivo rimanda a una visione della società di tipo sistemico, in cui il rapporto fra individuo e sistema sociale, fra azione e struttura, assume la stessa configurazione, quella della distinzione fondamentale fra sistema e ambiente, osservata da due possibili punti di vista, quello del sistema psichico (o dell’attore sociale) e quella del sistema sociale (la società complessivamente intesa).
La supposta relazione fra l’irriducibile tensione morale esistente fra soggettivo e oggettivo e la teoria dei sistemi sociali non riguarda, di per sé, l’approccio di Nagel, che da filosofo morale di stampo analitico privilegia una concezione individualista della realtà, che ben poco ha a che vedere con la teoria dei sistemi sociali.
Tuttavia il dualismo che Nagel contribuisce a mettere in luce rispetto al giudizio morale può essere visto, a nostro avviso, come un’ulteriore conseguenza di come funziona la società. Se infatti assumiamo che la società e gli individui che la abitano sono due entità reciprocamente distinte, ragion per cui la società non è fatta di individui, ma gli individui sono sistemi (psichici) nell’ambiente della società, allora l’esistenza di una polarità di punti di vista, come quello soggettivo e oggettivo secondo Nagel, può considerarsi una naturale delle due diverse dimensioni alla luce delle quali si può osservare la distinzione fra sistema e ambiente, cioè guardandola dalla parte dei sistemi psichici (nel cui ambiente c’è la società), così come dalla parte del sistema sociale (nel cui ambiente ci sono i sistemi psichici). Ma allora, se possiamo assumere queste due diverse prospettive di osservazione, sulla società come su tutti gli eventi che la riguardano, si comprende perché giudizi morali e valutazioni di giustizia possano essere il prodotto di una visione soggettiva o di una visione oggettiva sul mondo. Non c’è niente da fare! Da questa irriducibile tensione non possiamo in alcun modo sottrarci.
E prima ancora che una tensione che contraddistingue la morale, l’etica e la giustizia, si tratta di una polarità costitutiva della società.
Ma pur assumendo questa irriducibile tensione, ovvero accettando i limiti evidenziati dalla sorte morale, è ancora possibile esercitare una qualche forma di giudizio? Possiamo cioè limitare la portata del principio di controllo preservando al tempo stesso uno spazio per la legittima valutazione delle condotte individuali rispetto alle volontà e intenzioni che le hanno determinate? Anche perché questo esercizio di limitazione assume inevitabilmente una veste essenziale nella valutazione di circostanze salienti dal punto di vista della giustizia sociale. Se neutralizzassimo del tutto il principio di controllo non sarebbe più possibile non soltanto attribuire una responsabilità morale alle azioni individuali, ma anche stabilire obblighi morali rispetto all’osservanza dei principi di giustizia. Non va infatti dimenticato che la possibilità di giustificare sul piano normativo una qualche nozione di eguaglianza di cittadinanza passa inevitabilmente attraverso il riconoscimento del principio del controllo. Se le circostanze sociali in cui ci troviamo sono almeno in parte al di là del nostro controllo e se un ideale di giustizia riflette in un certo senso l’intuizione fondamentale per cui la disponibilità di beni primari in una società è più giusta quanto più è eguale (o quanto meno è diseguale) la loro distribuzione presso i cittadini, allora è giustificato neutralizzare gli effetti distributivi di quella sorte morale che ostacola agli individui nel perseguimento volontario e intenzionale delle proprie aspettative di realizzazione.
E i primi a dover promuovere la rimozione di tali ostacoli dovrebbero proprio essere coloro che, sempre per sorte morale, hanno tratto dall’assenza di controllo maggiori vantaggi nella corsa della vita. Per dirla altrimenti, una società priva di responsabilità morale non può coltivare alcun ideale di giustizia.
Una classica strategia per accettare la sorte morale senza pregiudicare la possibilità di giudizio consiste nel considerare chi agisce responsabile delle proprie azioni anche qualora non abbia il pieno controllo sulle loro determinanti causali. In tal senso, quando si agisce in accordo con le proprie ragioni, rispondendo a motivazioni delle quali si è compreso il senso e assunta la responsabilità, ci si può ancora ritenere responsabili delle proprie azioni.
Per dirla altrimenti: esistono azioni individuali rispetto alle quali continua a sussistere un certo grado di controllo, in relazione al fatto che a tali azioni derivino comunque da nostri sforzi intenzionali. Con ciò, per fare un esempio, se è vero che nessuno merita le circostanze sociali inerenti le proprie origini esistenziali, essenzialmente il fatto di nascere in una famiglia benestante e derivare da ciò una serie di opportunità, è altrettanto vero che chiunque non profonda impegno nella propria riuscita sociale può essere a ragione considerato responsabile di una simile attitudine all’apatia. In tal senso agisce la distinzione fra merito e impegno, laddove troppo spesso, specie oggi che ci troviamo a vivere in una società cosiddetta “meritocratica”, si tende a confondere il primo con il secondo. Nessuno merita di nascere intelligente, viceversa chi si è dovuto impegnare parecchio per ottenere successi sociali a partire da condizioni originarie particolarmente svantaggiose ha certamente meritato i risultati che ha saputo con il sacrificio e il sudore conquistarsi. E qui risulta particolarmente chiaro sia l’aspetto inerente la responsabilità morale delle proprie azioni sia la giustificazione di eventuali obblighi morali derivanti da principi di giustizia sociale.
È evidente come sullo sfondo della discussione che stiamo conducendo si trovi l’argomento del libero arbitrio. Argomento che all’incirca suona nel modo seguente: se il determinismo morale dovesse essere vero (ragion per cui la sorte morale condizionerebbe il nostro agire in maniera inevitabile e pervasiva), allora nessuno potrebbe essere in grado di agire liberamente, e dando per scontato che la libertà sia necessaria affinché sussista responsabilità, nessuno potrebbe essere considerato responsabile delle proprie azioni.
Com’è possibile risolvere questa sorta di paradosso? Assumendo che nell’attribuzione di senso che contraddistingue il nostro agire vi sia sempre una dimensione, squisitamente personale, rispetto alla quale le ragioni che ci spingono a fare o non fare determinate cose sono nostre come di nessun altro. E se è vero che le nostre azioni possono essere osservate sia in una prospettiva oggettiva e impersonale, da nessun luogo come abbiamo detto, è altrettanto vero che esse ci sono proprie, ci riguardano da vicino, in quanto attori protagonisti della scena. Ciò ha a che vedere con il nostro essere al tempo stesso soggetti di azioni e oggetti di eventi, ovvero con il fatto che la società si contraddistingue per l’essere l’esito della compresenza di sistemi psichici e sistemi sociali. Una compresenza che non riguarda necessariamente il fatto che in quanto sistemi psichici dovremmo avvertire esclusivamente la cogenza di ragioni relative a chi agisce, mentre nella prospettiva della società si dovrebbe considerare esclusivamente la salienza di ragioni neutrali rispetto a chi agisce. Poiché da un punto di vista individuale possiamo parimenti ritenere salienti ragioni per credere e per fare che guardano alle conseguenze delle nostre azioni, così come da un punto di vista collettivo, o sociale, possiamo avvertire con particolare intensità il fatto che talune azioni individuali non possano che essere oggetto di deprecazione e condanna morale. Il vero punto è un altro, e consiste nella possibilità fattuale di assumere diverse prospettive di osservazione, rispetto alle quali ragioni agente neutrali e agente relative tendono inevitabilmente a mescolarsi, dal punto di vista sia dell’individuo sia della società. E ciò tende a produrre uno stato di indeterminatezza del giudizio morale.
È questo il motivo per cui la nostra esperienza morale vive in uno stato di costante paradosso, a causa del quale il giudizio spesso fatica ad approdare a un esito definitivo. Bastano la nostra volontà e le nostre intenzioni a renderci compiutamente responsabili di ciò che facciamo?
È forse sufficiente il fallimento del principio del controllo a renderci del tutto esenti da giudizio morale? E in che modo siamo tenuti a neutralizzare gli effetti più negativi della sorte, rispetto a ciò di cui non siamo moralmente responsabili ma che siamo comunque costretti a scontare nella corsa della vita? Gran parte di questi interrogativi discendono proprio dall’esistenza di una sorte morale, una specie di ossimoro del giudizio del quale la nostra società risulta inevitabilmente prigioniera. Abbiamo visto come tale ossimoro non trovi una soluzione soddisfacente e definitiva. Soprattutto perché la nostra società è immersa in una polarità fra diverse prospettive di osservazione. Fossimo semplicemente una società fatta di individui una soluzione “deliberativa” sarebbe sempre e comunque possibile. Ma poiché società e individui sono entità separate – da una parte, la cultura, la semantica, le norme e le strutture sociali che regolano la nostra forma di convivenza, dall’altra le credenze, le disposizioni, le ragioni costitutive del nostro essere irriducibilmente individui – che vivono l’una nell’ambiente degli altri, ogni soluzione è sempre e comunque parziale e provvisoria. Lo sforzo che dobbiamo e possiamo fare, soprattutto in una società che tende ad esaltarsi in una retorica prometeica dell’individuo, consiste nell’avere una maggiore consapevolezza dei nostri limiti. La riflessione su morale, etica e giustizia può fornire un importante contributo in questa direzione.