Da pochi giorni si sono concluse le celebrazioni per il “Dantedì 2023”, l’appuntamento annuale del 25 marzo dedicato alla memoria della vita e dell’opera del sommo poeta Dante Alighieri: moltissime le iniziative in tutta Italia, promosse soprattutto dalla Società Dante Alighieri, una delle più importanti e longeve associazioni culturali italiane, fondata da Giosuè Carducci nel 1889 e allora presieduta da Ruggero Bonghi.
Oggi la Dante, oltre alla Sede Centrale di Roma, annovera all’attivo oltre 500 comitati locali in cinque continenti, animati dal proposito di “tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiane nel mondo, ravvivando i legami spirituali dei connazionali all’estero con la madre patria e alimentando tra gli stranieri l’amore e il culto per la civiltà italiana” (art. 3 dello Statuto).
La Dante Alighieri rappresenta pertanto la testimonianza più importante di due fenomeni tra sé connessi: l’importanza di riscoprire e rileggere l’opera dantesca, studiandola e approfondendola nei suoi aspetti culturali, storici e teologici, e il legame tra Dante e la lingua italiana, poiché è nel nome di Dante che l’italiano può vantare all’estero una sempre più ampia diffusione (la Dante è ente responsabile del rilascio della certificazione PLIDA attestante i vari livelli di conoscenza dell’italiano come seconda lingua).
Inebriati da questo grande fervore, amplificato dal settimo centenario della morte del poeta celebrato nel 2021, dovremmo tuttavia tenere a mente che, paradossalmente, l’opera e il pensiero dantesco non hanno sempre riscosso un successo pari a quello che oggi noi tributiamo al Sommo Poeta; come ebbe a scrivere Carlo Dionisotti in un famoso saggio degli anni Sessanta, la fortuna di Dante fu “varia”.
Certamente Dante fu amato molto dai suoi contemporanei: la grande massa di manoscritti trecenteschi con cui è tramandata la Commedia testimoniamo una larga diffusione della sua opera in tutta Italia a partire dagli anni immediatamente successivi alla sua morte; l’interesse suscitato da un poema così visionario e irripetibile contribuì alla nascita dei primi commenti esegetici, tra cui ricordiamo quelli di Jacopo della Lana, dell’Ottimo, del Buti e di Benvenuto da Imola; uno dei suoi più grandi estimatori, Giovanni Boccaccio, non solo compose un Trattatello in laude di Dante, indicando il nostro poeta come maestro di virtù e sapienza, ma ne ricercò i codici in giro per l’Italia e nel 1373 dedicò all’Inferno alcune conferenze pubbliche nella piazza della chiesa di Santo Stefano in Badia a Firenze.
Con l’invenzione della stampa, la Divina Commedia ebbe la sua editio princeps l’11 aprile 1472 a Foligno, mentre nel 1502 uscì l’edizione Aldina a Venezia. Tuttavia, a partire dal 1500 e fino alla fine del Settecento, Dante fu progressivamente dimenticato, e la sua importanza all’interno del canone dei poeti della letteratura italiana fu offuscata: ben più letti e conosciuti di lui furono Petrarca, Ariosto, Tasso e Matastasio. Decisiva apparve la scelta di Pietro Bembo di privilegiare, come lingua della poesia, il modello petrarchesco, più regolare, omogeneo e più facilmente imitabile.
Al contrario, la lingua e lo stile di Dante, per cui Gianfranco Contini coniò la ben nota definizione di “plurilinguismo”, rappresentava un unicum per la poesia italiana, paragonabile per taluni aspetti solo alla dizione omerica: come Omero componeva in un dialetto ionico intessuto di eolismi e caratterizzato da strutture morfologiche e sintattiche del tutto singolari, rivenienti da una prolungata e ben collaudata tecnica di improvvisazione orale, così Dante usava il fiorentino, ma innestava nei suoi versi parole di altri volgari (lombardo, bolognese, siciliano) variandone di volta in volta i registri (dal tono comico dimesso, non privo di vocaboli plebei e talvolta triviali, allo stile mediano e stilnovistico, a quello aulico, difficile, teologico, infarcito di neologismi) e addirittura i sottocodici (le parlate tecniche del lessico della guerra, dell’arte, della legge, dei mestieri, della politica), in una concrezione linguistica visionaria e inimitabile.
Con acutezza annotava Leopardi: «Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione». D’altra parte, in tempi di Controriforma, il Dante pensatore rappresentava, con le sue ripetute critiche alla Chiesa e alla sua cupidigia, un pericoloso esempio di laicismo (ancora nel 1749 il gesuita Venturi rimproverava a Dante la sua ostilità verso il potere temporale dei Papi), mentre gli stessi philosophes francesi leggevano in Dante un esempio dell’oscurantismo medievale dominato da una soffocante teologia. L’avversione di Voltaire è tutta riassunta in questa frase: «Il y a de lui une vingtaine de traits qu’on sait par cœur: cela suffit pour s’épargner la peine d’examiner le reste».
Per di più, nell’estetica molle, languida e raffinata del Settecento, il canto dantesco era giudicato rozzo, gotico, espressione di una barbarie medievale: nota fu la stroncatura del gesuita Bettinelli nelle sue Lettere Virgiliane.
La piena valorizzazione di Dante avvenne invece nel Risorgimento; certamente l’importanza tributata al nostro poeta da Giambattista Vico, da Alfieri e da Foscolo fu determinante per una riscoperta della figura e dell’opera del poeta fiorentino: a partire dal 1791, le edizioni della Commedia si moltiplicarono (erano state solo 3 in tutto il secolo).
Il Risorgimento italiano aveva bisogno di Dante, di un poeta che fosse espressione di una sana italianità incarnata nei valori di giustizia e impegno civile, ma soprattutto che rappresentasse un punto di riferimento per la formazione di un’etica nazionale in funzione patriottica in grado di ravvivare le aspirazioni di una nazione che aspettava da secoli una unificazione politica, da ottenere innanzitutto con la concordia tra i vari Stati italiani. Perché prima di essere operazione militare, il Risorgimento fu soprattutto momento profetico di rinnovamento religioso, morale e umano.
L’ode più patriottica scritta da Leopardi, in cui il giovane poeta recanatese esprimeva il suo dolore per i soldati italiani morti nelle campagne napoleoniche e mostrava sincero sdegno per la situazione politica, si intitola non a caso Sopra il monumento di Dante. Con commossi accenti Leopardi apostrofa il Divin Poeta:
Beato te ch’il fato
A viver non dannò fra tanto orrore,
Che non vedesti in braccio
L’itala moglie a barbaro soldato.
Lo stesso Mazzini dedicò fervide pagine a Dante, rintracciando nel «De Monarchia quei semi d’indipendenza e di libertà, ch’ei proferse poscia nel suo poema», e compiacendosi che il rinnovato studio di Dante nel secolo XIX avrebbe potuto risollevare l’Italia «dall’infiacchimento che tre secoli d’inezie e di servilità hanno generato e mantengono».
Quasi un secolo più tardi, fu il filosofo Giovanni Gentile a ribadire l’immagine di un Dante padre della patria, di cui i messianici toni e le invettive contro l’Italia nel canto VI del Purgatorio erano in realtà una esortazione alla concordia, un «patriottismo dell’amore e non dell’odio, della pace e non della guerra».
Il Novecento fu il secolo della filologia e della critica testuale: si diede meno importanza al Dante pensatore e ci si concentrò di più sulla genesi e lo stile della sua opera. Contini, Auerbach, Barbi, Petrocchi, per citarne alcuni, dedicarono contributi importanti al testo dantesco. Oggi che tributiamo a Dante il posto più alto nell’Olimpo della nostra letteratura e che non oseremmo mai mettere in discussione la sua grandezza, qual è l’eredità che egli ci lascia? Correrà il rischio di essere messa un’altra volta in pericolo? Quale nuovo successo o quale nuova dannazione riserverà al nostro poeta la ruota della sua Fortuna?
Certamente, a 700 anni dalla sua morte, il Dante uomo e pensatore appare lontanissimo alla nostra moderna sensibilità. Per misurarne la distanza basterà proprio richiamare la concezione dantesca della Fortuna, e ci si accorgerà che egli ne aveva un concetto molto diverso da quello che noi chiamiamo più propriamente “il caso”. Ovviamente Dante non rifugge dall’accogliere il lascito della tradizione classica e pagana che gli aveva consegnato l’immagine della dea Fortuna intenta a girare capricciosamente la sua ruota per ribaltare i destini degli uomini: lo stilema è ancora operante nel dialogo che il poeta instaura con il suo maestro Brunetto Latini nel canto XV dell’Inferno, quando dichiara fieramente di essere pronto ad affrontare i rivolgimenti dolorosi della sorte:
Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
che a la Fortuna, come vuol, son presto. 93
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ‘l villan la sua marra.
Tuttavia, nel cosmo dantesco, ordinato dall’imponente architettura aristotelica delle sfere celesti e retto dalla volontà del Sommo Artefice, è chiaro che alla Fortuna spetti la più alta e nobile configurazione di ancilla Domini, ossia di una intelligenza celeste che obbedisce ai disegni imperscrutabili del volere divino, e provvede a distribuire tra gli uomini e i popoli i beni mondani (intendendo con essi potenza, ricchezza, forza, gloria, successo, bellezza) e a trasferirli dall’uno all’altro. Lo spiega con esattezza Virgilio nel canto VII dell’Inferno, vv. 73-84:
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì ch’ogne parte ad ogne parte splende, 75
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce 78
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani; 81
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue. 84
La “ministra e duce” di questo rimescolamento dei beni terreni tra gli uomini è proprio la Fortuna, quella per cui tanto gli uomini si affannano (per che l’umana gente si rabuffa, v. 63), ma davanti alla quale vane sono le capacità umane di volersi opporre e di saperla prevedere (vv. 85-88):
Vostro saver non ha contrasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
I versi testimoniano come Dante abbia saputo proporre una sintesi, che è poetica e teologica insieme, del concetto di “fortuna” tramandato dalla sapienza antica (classica e pagana) e medievale (tomistica e cristiana), tra cui Dante coglie più continuità che opposizione (cfr. Convivio, II, IV 6). La Fortuna è sì una dea, ma, come avevano precisato San Tommaso e Alberto Magno, agisce ispirata da Dio secondo un preciso disegno, dove nulla è affidato al caso: essa è la personificazione della Provvidenza, come leggiamo in De Monarchia II, IX 8: «Pirrus ‘Heram’ vocabat fortunam, quam causam melius et rectius nos “divinam providentiam” appellamus» (cfr. il medesimo concetto della Provvidenza in Par. XXVII, 145).
In quanto la Storia è scritta da Dio, la fortuna non è cieca: in tal modo la prosperità dell’Impero romano non è frutto di semplici congiunture storiche favorevoli, ma è conseguenza diretta dell’intervento di Dio; parimenti, l’aver concepito la Fortuna come “volontà di Dio” aiutò Dante a sopportare la tristezza dell’esilio, che gli fu imposto dalle vendette dei Guelfi Neri spalleggiati da Carlo di Valois per ordine di Bonifacio VIII.
Passeranno pochi anni dall’opera dantesca, e la Fortuna diverrà concetto laico e umanistico, forza capricciosa con la quale gli uomini dovranno far valere il loro talento e la loro capacità di saperne prevedere i colpi. Evitando di esporsi “ad arbitrio di fortuna” (Ariosto, Orlando Furioso I, 23, 5), l’uomo rinascimentale diventa faber fortunae suae, e sebbene riconosca ancora alla Fortuna una forza prorompente come un fiume in piena, «che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici», tuttavia non crede più «che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possino fare provvedimenti e con ripari, e con argini», come scriveva Machiavelli nel Principe (cap. XXV).
Non solo la Fortuna, ma tutto l’impianto dottrinale, teologico e metafisico della Commedia lasceranno presto il campo alla nuova scienza, al metodo sperimentale, alla modernità, senza contare il progressivo ridimensionamento dell’Impero e le spinte eversive che nel Cinquecento ruppero l’unità della Chiesa cattolica. Per questo, il Dante pensatore fu considerato retrogrado, antistorico e provinciale, decisamente lontano dal mondo dominato dalla classe borghese e dal laicismo illuminista, mentre il Dante poeta tu tanto osannato quanto messo da parte, con le alterne vicende testé ricordate.
La storia della fortuna di Dante ci rammenta che il successo di un autore viene misurato dal termometro del tempo in cui è vissuto, ma anche delle epoche successive alla sua vita. Dante ha faticato ad entrare a far parte del canone occidentale perché non è stato per molto tempo funzionale alle scelte estetiche e culturali dei secoli che hanno decretato la sua messa all’angolo; e quando lo si è riscoperto, ognuno lo ha interpretato in modo parziale e opportunistico, cercando di rintracciare nella sua opera quello che più era conveniente: il neoguelfismo di Gioberti vedeva in lui un campione del primato della Chiesa, il ghibellinismo laico di Foscolo lo ergeva a critico implacabile della cupidigia papale, il buon gusto illuminista del Bettinelli bollava il poema sacro come un “imbroglio non definibile” di superstizione e rozzezza, nato da una mancanza di “discernimento nell’arte”, la cultura fascista esaltava Dante come profeta del Duce (in Purg. XXXIII, 43-44 si annuncia l’arrivo di «un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio», ossia un DVX), scorgendo nella profezia del Veltro, rinnovatore dell’umanità, l’«esattissima figura allegorica del Duce Magnifico» (Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, 1927).
È un destino curioso quello di Dante: dapprima considerato così lontano, stantio, inattuale, e tuttavia ammirato perché inimitabile, e poi invece ritrovato e riconsiderato, ma incarcerato nella ideologia: più veniva interpretato e più veniva tradito, ma con la sua grandezza tutti hanno dovuto fare i conti. Oggi però, noi che portiamo avanti il nome di Dante quale sinonimo di italianità, rischiamo di non essere onesti con lui, e siamo tentati di ritagliarci un Dante confezionato al bisogno e a nostro piacimento, perpetuando gli errori dei suoi vecchi interpreti.
Mentre vogliamo ritrovare in lui le radici della nostra “identità” e continuiamo a sentirci fieri di avere Dante come capostipite della nostra letteratura, siamo altresì pronti a censurarlo tristemente a causa di un progressivo scadimento dei nostri paradigmi culturali, annebbiati da deleterie derive revisioniste, incapaci di riconoscere la schiettezza e la genuinità della vis polemica dantesca, che era invece cifra peculiare di un carattere politicamente scorretto ma fiero e consapevole; ed ecco che ci sentiamo in dovere di prendere le distanze dal nostro poeta, magari per parole offensive verso i musulmani (si ripensi all’orrida immagine di Maometto nel XXVIII dell’Inferno) o verso i sodomiti (condannati ugualmente alla dannazione eterna perché peccatori contro natura), o sorridiamo bonariamente davanti alla sua purissima concezione dell’amore e della donna, o sbadigliamo sui banchi di scuola davanti alle sue roboanti invettive contro il valore dei beni materiali, in primis il denaro, o addirittura contro abbigliamenti troppo provocanti delle «sfacciate donne fiorentine» che «van mostrando con le poppe il petto» (Purg. XXIII, 101-102).
Se accogliamo con piacere le tantissime iniziative dedicate alla diffusione della conoscenza dell’opera dantesca, non pare che, esclusi taluni circoli di nicchia, Dante sia oggi più studiato di prima, ma semplicemente “va di moda”. La prova che sia un ottimo supermercato culturale da cui attingere due versi ad effetto per impreziosirsi con un tocco di facile intellettualismo è testimoniata dalle canzoni che negli ultimi anni citano un verso o una terzina dantesca. Si tratta, è facile capirlo, dei soliti luoghi comuni o dei ben noti passi dell’Inferno (Caronte, Paolo e Francesca e Ulisse), inseriti qua e là per dimostrare che si conosce Dante, operazione che piace ad una classe intellettuale sempre più da palcoscenico e sempre meno da biblioteca. Perché Dante, come si sente ripetere, «deve parlare alle nuove generazioni, deve lasciare insegnamenti ai giovani, deve essere un esempio per loro». Belle parole e nobili propositi, ma capire Dante e interiorizzarlo come pensatore e poeta non può essere operazione di facciata né può ridursi ad una selezione di piccole perle.
Dante va innanzitutto accettato nella sua totalità, nei suoi limiti e nelle sue storture, perché il mondo che Dante ci presenta e quello in cui crede ci appartengono davvero poco, e la sua fede incrollabile fa quasi tenerezza; avremmo davvero poco da condividere con lui e ancor meno da imparare da lui. Piuttosto, come ha scritto bene Marcello Veneziani nel suo Dante, nostro padre (uno dei libri meno sponsorizzati tra le decine di monografie dedicate a Dante che ogni sorta di intellettuale, grande e piccolo, non ha perso l’occasione di pubblicare nel 2021) «la forza di Dante non è la sua attualità, la capacità di parlare ai ragazzi di oggi, di rispondere ai nostri effimeri momenti di vita e di storia; ma la sua grandezza è nel toccare temi e pensieri, fedi e ardori, speranze e disperazioni, gioie e dolori che appartengono ad ogni tempo, perché in realtà non appartengono in ultima istanza a un tempo o all’altro, ma rinviano alla condizione umana e all’eterno ritorno di tutte le cose».
Piuttosto che censurarlo quando Dante trascende i limiti del politicamente corretto, dovremmo recuperare da lui un valore che oggi è considerato un difetto: la capacità di esporci e di opporci senza guardare al nostro tornaconto, il coraggio di manifestare il nostro dissenso anche quando ci farà male, la possibilità persino di odiare, di vomitare la nostra avversione verso ciò che non ci piace, verso ciò a cui non ci sentiamo di dire sì solo perché un potere politico, europeo, capitalistico, o mainstream, ce lo impone. Pasolini, che riscriveva la Commedia chiamandola Divina Mimesis, aveva avuto il coraggio di cogliere questa sana crudezza, questa smaniosa aggressività del poeta fiorentino, e ne aveva fatto un’occasione di ripensamento etico: prima di se stesso, e poi della società degli anni Sessanta.
Certamente, rispetto a Dante siamo più soli, e invece di mostrarci consapevoli contestatori e orgogliosi oppositori rischiamo di fare la fine di squallidi hater da tastiera. Il poeta in esilio aveva con sé la incrollabile forza della fede, un mondo graniticamente ordinato secondo il modello aristotelico e un’anima platonica tesa alla perfezione della giustizia religiosa e politica. Sono gli ideali che trasudano dalle pagine della Commedia, ma che informano anche i suoi trattati in prosa.
Di questi ideali oggi noi ci scopriamo carenti, perché disillusi e smarriti, incapaci di elaborare, nel mondo che viviamo, una concezione così alta dell’umano che ci permetta di illuminare con rinnovata speranza il nostro cammino terreno. In fin dei conti, Dante è colui che ha cantato un mondo destinato al fallimento, che spronava al futuro guardando al passato, che ha fondato una tradizione senza tramandare nulla; eppure, il suo maestro Brunetto Latini, lo aveva messo in guardia: «La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l’una parte e l’altra avranno fame / di te». Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di Dante. E che la Fortuna lo accompagni.