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uaderni de La Scaletta

Ovunque ci sono stelle e azzurre profondità

L’altro obiettivo

La dea della fortuna

La fortuna è una componente fondamentale della fotografia come di tutta la vita. Si tratta di essere al momento giusto nel posto giusto e saper cogliere l’attimo. E anche la fortuna di una fotografia dipende dal momento e dal posto in cui è vista.
Ho incontrato una piccola dea dove meno me lo sarei aspettata. Lakshmi porta il nome della dea dell’abbondanza e della fortuna anche se la divinità non era stata molto protettiva con lei, almeno fino al momento in cui l’ho fotografata, quando aveva 9 anni.
Nonostante lo sguardo penetrante, era cieca – come la dea – dalla nascita. Orfana di entrambi i genitori, viveva con la nonna fra le vedove bianche di Vrindavan, con la testa rasata e i piedi scalzi, cantando ininterrottamente il nome di Krishna. Il dio più popolare del pantheon hindu, il divino mandriano, adorato da milioni e milioni di contadini indiani per le sue umili origini, secondo la leggenda nacque circa 3.500 anni fa a Mathura, nello stato dell’Uttar Pradesh. A pochi chilometri da lì, dove ora si trova la cittadina di Vrindavan, c’erano le foreste dove il dio si divertiva, da adolescente, a corteggiare le gopi (mungitrici), e rubava i loro vestiti mentre le fanciulle facevano il bagno nel fiume, e dove soprattutto sedusse la bella Radha.
La storia d’amore di Krishna e Radha è stata raccontata nel poema lirico erotico del dodicesimo secolo Gitagovinda, che è ancora rappresentato e cantato per tutta l’India. Storia bizzarra, paradossale, se si pensa alla tradizione conservatrice della famiglia indiana, poiché Radha era una donna sposata. D’altro canto, pare che Krishna, il dio dell’amore infinito, detto anche il Rubacuori, abbia avuto 16.108 mogli!
Fra i vari istituti caritatevoli che si occupano delle migliaia di vedove che provengono da tutta l’India – perché a meno che non siano ricche le famiglie le cacciano di casa o semplicemente non si prendono più cura di loro e lo Stato non le assiste -, lo Sri Bhagwan Bhajan Ashram di Vrindavan è il più grande e quello che ha la fama peggiore. Per poche rupie al giorno e un bicchiere di latte, circa 2.000 vedove e altre reiette come Lakshmi cantano i bhajan (canti devozionali: il canto del nome di Krishna non deve essere mai interrotto) per due turni di 4 ore l’uno, e come extra fanno le pulizie e ogni tipo di lavoro manuale. Raramente vengono beneficate da distribuzioni di cibo e indumenti, regolarmente alla fine dei turni sono invitate a lasciare un’offerta per il dio, e sicuramente fruttano all’organizzazione (di soli uomini) un’incredibile quantità di donazioni dai devoti. Quelle donne accusate di portare sfortuna fanno in realtà la fortuna di chi se ne approfitta.
Dunque la piccola Lakshmi viveva con le vedove scalze, rasate e col sari bianco (il colore del lutto e della rinuncia) che mi sembravano anime di un girone del Purgatorio della Divina Commedia. Era anche lei una delle “mogli di Krishna”, destinata a una vita di rinuncia senza averla mai assaporata, e sfruttata dall’Ashram.
Qualche tempo dopo seppi che, grazie a più segnalazioni, fra cui forse anche la mia, era diventata beneficiaria di una ONG internazionale e tirata fuori da quel girone. Spero che la dea bendata si sia accorta di lei e che stia generosamente compensando la distrazione iniziale.

Laura Salvinelli
(Fotografa)
Ascolta il testo con la voce di Carla Latorre
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Lakshmi, 9 anni. Shri Bhagwan Bhajan Ashram, Vrindavan, India, 2004.

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