1. Le etiche religiose e la nascita del capitalismo
Nei primi del Novecento Max Weber scrisse un libro epocale, su cui discussero tutti i più grandi storici, economisti e sociologi del tempo, spesso fraintendendolo. Il libro si intitolava L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Cosa meno nota è che Weber continuò a lavorare sulla questione e, seppure postumo, pubblicò (a cura della moglie) un libro ben più importante che, oltre a includere la revisione dell’opera precedente, conteneva parti sul buddhismo e l’induismo, sulla Cina confuciana-taoista e sull’antico giudaismo, per un totale di più di 1.300 pagine. Questo testo si intitola Sociologia della religione e, proprio perché sostanzialmente è una comparazione tra le grandi religioni di salvezza, gli permette di precisare e approfondire la sua tesi. Weber sostiene che le grandi religioni di salvezza abbiano avuto un ruolo fondamentale nella razionalizzazione del pensiero e in particolare delle forme di lavoro. Più in generale, le etiche religiose avrebbero condizionato fortemente le “forme di ordinamento del mondo”. Su questo sfondo Weber propone una tipologia di etiche religiose che ci aiuta potentemente a capire quella “grande divergenza” tra l’Occidente (che ha inventato democrazia e capitalismo) e il resto del mondo, quasi sempre sottosviluppato (se non affamato) e/o dominato da autocrazie.
In grande sintesi, questa è la tipologia; 1) etica di contemplazione mistica del mondo (Induismo e Buddhismo hînayâna, ormai del tutto scomparso); 2) la mistica che resta all’interno del mondo (Buddhismo mahāyāna, oggi diffuso solo al di fuori dell’India insieme al Buddhismo zen e al neoconfucianesimo); 3) ascesi extramondana, che considera il mondo corrotto, mentre la Chiesa veglia sull’ordine sociale voluto da Dio (creatio ex nihilo); 4) ascesi inframondana che rivaluta il mondo e considera le opere dell’uomo come una glorificazione dell’opera di Dio. Quest’ultima è tipica delle sette protestanti d’impronta calvinista che, sin dal 1579, sono all’origine dell’idea che gli uomini abbiano per natura il diritto soggettivo alla rivolta, per difendere la propria persona e i propri beni, contro il despota che vuole costringerli ad abbandonare la loro vera fede. Essa vi associa la dottrina della predestinazione. È l’origine dell’idea di diritti soggettivi.
Nella cultura protestante sin quasi alla fine del XIX secolo il successo imprenditoriale veniva interpretato come un segno della salvezza elargita da Dio. L’agire imprenditoriale era considerato come una “vocazione”, a sua volta valutata come una “chiamata di Dio” e il successo come la manifestazione di appartenere alla schiera degli eletti. Weber sosteneva che questo successo non solo era intensamente ricercato come segno della propria salvezza, ma era utilizzato anche come aiuto sistematico verso i propri “fratelli di fede”: «L’amore del prossimo, poiché deve essere solo in servigio della gloria di Dio e non delle creature, si manifesta in prima linea nell’adempimento dei doveri professionali imposti dalla lex naturae e prende così il carattere obiettivo e impersonale di servigio reso all’ordinamento razionale del mondo sociale che ci circonda».
Ciò significa che «il lavoro in servigio di questa impersonale utilità sociale torna ad incremento della glorificazione di Dio e perciò è da Dio stesso voluto». Questa visione generò una vasta legittimazione sociale dell’imprenditoria capitalistica anche quando la fede venne separata dall’attività economica e dalla politica. Un aspetto sottolineato da altri studiosi è che il protestantesimo, che era costituito da numerose chiese e congregazioni, sovente assai diverse tra loro ma tutte comunque dotate dello stesso libro sacro, sviluppò inizialmente un’ampia tolleranza religiosa che ben presto (in Inghilterra e in America) si trasformò in pluralismo politico, dando così legittimazione popolare alla più tarda democrazia. Va sottolineato che l’ascesi extramondana, è tipica del cattolicesimo che, storicamente, è stato per lungo tempo antiliberale, antimodernista e persino antidemocratico.
Durante la guerra civile contro la monarchia Stuart gli Inglesi si consideravano il “popolo di Dio” in lotta contro l’anticristo, cioè il Papa, a cui vennero associati sia Giacomo I d’Inghilterra sia il figlio Carlo I, che fu giustiziato nel gennaio del 1649. Questo non solo creò una frattura culturale profonda con il mondo cattolico, ma spinse gli Inglesi verso un sistema politico incentrato sul parlamento come parte istituzionale dello stato e un’economia che esaltava le libertà d’impresa e di pensiero (la “rivoluzione” di Oliver Cromwell). Come è stato sottolineato da molti storici dell’economia che si sono occupati delle ragioni della “grande divergenza” tra l’Occidente e il resto del mondo, la nascita e lo sviluppo del capitalismo si spiegano soltanto se vengono associati alle libertà politiche, di pensiero e di associazione.
Qui di seguito faremo soltanto un breve confronto con l’etica di contemplazione mistica dell’induismo, che va considerata l’opposto dell’etica dell’ascesi inframondana. Mi limiterò soltanto ad alcuni aspetti che hanno ostacolato la nascita del capitalismo moderno, che non va confuso con l’economia mercantile che si praticava nel Medioevo e in epoca più tarda e che dipendeva dalle corporazioni e dalle volubili concessioni del monarca.
2. Alcuni aspetti dell’etica indù
Prima di descrivere alcuni punti centrali dell’induismo, una religione che per certi aspetti non secondari può farsi risalire a più di mille e cinquecento anni prima del cristianesimo (alcune parti dei Veda, i libri sacri, possono farsi risalire al 1200 a.C.), occorre sottolineare un aspetto centrale che distingue le religioni orientali dal cristianesimo (che in origine era una setta ebraica). Ossia che le religioni orientali, sebbene in modi diversi, sono tutte religioni che non separano immanenza e trascendenza: Dio è in tutte le cose, incluso l’uomo. Nel cristianesimo Dio è invece trascendente, il mondo è peccaminoso. Molto probabilmente si tratta di un’influenza di religioni dell’antico Medioriente che fu ripresa dall’antico giudaismo, fissandosi definitivamente nel momento in cui, con Costantino, il cristianesimo divenne religione di Stato. La differenza è particolarmente importante per il problema delle etiche religiose che condizionano le pratiche e le forme di ordinamento sociale. Il caso più evidente e chiaro è proprio quello dell’induismo. C’è un mito indù, quello di Manu, il Primo Uomo Cosmico generato da Brahma con sua figlia Kāma, che illustra bene sia l’immanenza divina sia il sistema delle caste (che non vanno confuse con la stratificazione feudale e tantomeno con le classi e/o disuguaglianze). Nella concezione indiana tutto il creato è divino, nella concezione ebraica, e quindi anche in quella cristiana, il creato non è Dio.
In quella indiana ciò che gli uomini hanno perduto è proprio il grande Sé, l’identificazione con Âtman-Brahman. È questo che va ricercato, qui e ora, e per poterlo fare ci si deve distaccare da tutte le cose di questo mondo, che sono solo illusione: Māya, che non a caso indica anche la grande Madre Terra, fonte di tutte le sofferenze. C’è un passo della Chāndogya Upanişad che dice (le Upanişad sono associate ai Veda e perciò considerate di ispirazione divina):
«Questo Âtman, il quale è all’interno del mio cuore, che è più piccolo di un grano di riso o di un chicco d’orzo, o di un granello di senape o persino del nocciolo di un granello di senape. Questo Âtman, il quale è all’interno del mio cuore, che è più grande della terra, più grande del cielo … più grande di tutti questi mondi. Questo Âtman, il quale è all’interno del mio cuore, che è più grande della terra, più grande del cielo … è il sostegno di tutte le azioni, di tutte le istanze, di tutti gli odori e di tutti i sapori, colui che pervade tutto, è privo di parola e libero da ogni volere. Questo è il Brahman: con questo diverrò identico dopo essere dipartito da qui. Colui il quale nutre certezze e non ha nessun dubbio realizzerà il Brahman». Credo che questo passo illustri bene sia l’immanenza divina in tutto l’esistente sia la “Via” tramite la quale l’uomo può ricongiungersi con l’Uno (quantomeno nella concezione brahmanica, la casta di vertice).
In un’altra Upanişad si racconta che l’Uomo Cosmico, per non stare solo nel nulla, «produsse tutte le cose che vanno a coppie, fino alle formiche. Quindi pensò “In verità io sono la creazione, perché ho generato tutto ciò”. Chiunque comprenda questo diventa egli stesso creatore di questa creazione». Nella versione indiana è dunque Dio stesso che si divide e diventa non solo l’uomo, ma l’intera creazione. In tal modo tutto è manifestazione di quella sostanza divina immanente: non c’è nient’altro. Nella Bibbia, invece, l’uomo è stato creato a immagine di Dio, ma il suo essere, il suo sé non è quello di Dio. La creazione degli animali e degli altri esseri viventi è dunque compiuta al di fuori della sfera divina. Dio è trascendente e viene contemplato dopo la morte e solo se il Giudizio Finale lo consentirà con la grazia. Scopo della conoscenza è soltanto quello di comprendere il rapporto tra Dio e la sua creazione, fra Dio e l’uomo. La Bibbia ci racconta infatti che la cacciata dall’Eden fu un evento della storia (o della preistoria) dell’uomo. In tutte le versioni dell’induismo, questa concezione è peraltro inscindibile dalla credenza nel samsāra e nel dharma. Il samsāra è la ruota delle eterne rinascite a cui tutte le anime sono sottoposte, mentre il dharma è l’insieme degli obblighi associato alla casta in cui si rinasce. A sua volta la casta in cui si rinasce è stabilita sulla base del karma, ossia delle conseguenze delle proprie azioni che risultino conformi o meno ai doveri della casta a cui si apparteneva prima della rinascita. Il rinato non ha memoria delle vite precedenti. Va sottolineato che le caste sono parte integrante della religiosità di tutti gli indù e determinano i tipi di relazioni sociali in quanto sono strettamente connesse con i tipi di mestieri (jāti) che a loro volta sono gerarchizzati in base a gradi di purezza.
Nel mito di Manu, il Primo Uomo, si narra anche l’origine delle caste: dalla testa sono nati i brahmani, che hanno il segreto delle formule rituali e della conoscenza; dalle braccia e dal torso gli kshatriya, che hanno il potere delle armi e del comando; dalle gambe i vaisha, che allevano gli animali e commerciano; dai piedi i shudra,nche fanno i lavori più impuri e sono i servitori di tutti. Questa gerarchia originariamente riguardava i Varna (colori: il bianco indica i brahmani, il rosso gli kshatriya; il giallo i vaisha, il nero i shudra) e, molto probabilmente, si riferiva ai rapporti interni ai gruppi tribali degli invasori Arii (o Arya), che venivano dall’Asia centrale e, attraverso i passi dell’Afghanistan, si espansero a più ondate nella valle dell’Indo verso est, sottomettendo le popolazioni indiane. È, quindi, estremamente probabile che le jāti siano un’evoluzione dei Varna, ma ovviamente sono estremamente più numerose (e variabili anche localmente). In ogni caso esse definiscono sempre una gerarchia sociale che determina anche un grado di purezza. Esse obbligano a una rigida endogamia e, nelle campagne, sono persino organizzate per singoli villaggi. Ogni casta deve seguire il proprio dharma pena la rinascita in una casta inferiore e persino in un insetto. Le caste prevedono però anche i fuoricasta o dalit, che sono quelli che fanno i lavori più impuri, come fare i lavandai, lavorare nei crematori, scavare pozzi, conciare pelli. I fuoricasta sono anche detti intoccabili, perché anche solo la loro vicinanza può contaminare gli appartenenti ai Varna.
Il vero fine della religiosità indù è pervenire alla liberazione dal samsara per potersi annullare nel Dio supremo. Tre sono le Vie della Liberazione: la via della Conoscenza suprema (di cui vi sono almeno cinque raffinate dottrine); la via della bhakti (devozione), del cuore e dell’abbandono a una divinità; la via tantrica, misteriosa e paradossale, dove l’infrazione (anche sessuale) può diventare fattore talmente intensificante da divenire, da ultimo, liberatorio. Ma liberazione da cosa? Certamente dall’eterna ruota delle rinascite e quindi dalle sofferenze e dagli obblighi di casta. Non si tratta però solo di questo. Miti e dottrine insegnano infatti che la vita è soltanto illusione (māyā) prodotta da sensi e dai sentimenti da cui gli uomini si lasciano deviare. La potenza di Māyā è così devastante che, assumendo le forme di una cangiante Dea Suprema, è in grado di stravolgere persino gli dei della Trimurti (Brahma, Visnu e Siva). Con le sue spire, Māyā avvolge tutto l’universo sensibile, crea la grande illusione su quale sia la vera realtà del cosmo. Perciò, se in Occidente per obbedire a Dio si deve innanzitutto obbedire alla Chiesa e sperare di ottenere la grazia, in India c’è l’ideale della liberazione (mokşa), ossia dell’estinzione dell’ “io”, c’è la ricerca del “vuoto” (“illuminazione” nel buddismo). Come ha detto uno studioso, riprendendo un importante filosofo indiano, «la mente vuota è come un daino sempre insidiato dai cacciatori: dalle iatture della vita; sua colpa è la sua stessa carne: le costruzioni mentali con cui suscita l’illusione della realtà … Nell’illuminazione estatica c’è un’unica conoscenza: non so che cosa e chi sono, ma so di essere».
Peraltro c’è una quarta via di ricerca della liberazione rappresentata dalla costituzione di numerosi ordini di rinuncianti (sādhu) che, spogliatisi di tutti i loro averi, scelgono di condurre una vita di solitudine ai margini della società, sulle rive di un fiume sacro o in luoghi selvaggi, montuosi e solitari o un campo di cremazione.
Spesso indossano mantelli di color ocra, o nudi e ricoperti di cenere sacra, con la testa rasata o i capelli lunghi e incolti. Il loro sforzo è di raggiungere la liberazione in vita anche tramite forme di severe penitenze, come il voto di non sedersi o sdraiarsi per dodici anni, riposandosi appoggiati solo a un sostegno, oppure stare per ore su una gamba sola in una posizione yoga e le mani giunte. Per lo più questi ordini sono sette visnuite oppure sivaite.
Tra queste ultime una delle più note è costituita dai Nāga, i rinuncianti nudi, coperti di cenere e armati di lancia o tridente (l’arma di Siva), che sin dal VII d.C. si diffusero dando l’esempio ad altri ordini di asceti-guerrieri, soprattutto quando, dal IX al XVIII secolo, cercarono di opporsi alle invasioni musulmane. La setta dei Nāga è particolarmente famosa perché apre il corteo del Maha Kumbha Mela, la grande festa che si tiene ogni 12 anni (un ciclo connesso ai movimenti del pianeta Giove) all’incrocio dei tre fiumi sacri (la Ganga, la Yamuna e il Sarasvatī, un fiume mitico e sotterraneo), nei pressi di Allahabad e a cui partecipano parecchie decine di milioni di fedeli. Esistono altri Kumbha Mela in altre città e con frequenza più ravvicinata, ma nessuno ha il valore del Maha Kumbha Mela di Allahabad.
Questo degli asceti erranti e solitari costituisce il caso più evidente e diffuso di ciò che Louis Dumont, il più importante studioso delle caste, descriveva come “l’uomo-fuori-dal-mondo”, il rinunciante perfetto, il sādhu che, immergendosi ritualmente nelle acque dove confluiscono i tre fiumi sacri, ritiene di poter ottenere la liberazione già in vita.
Vi sono poi delle città sacre, la più importante delle quali è Varanasi. Anche in questo caso si crede che l’immersione nelle acque del Gange in questo punto possa aiutare a ottenere la liberazione in vita. Moltissimi sono però coloro che alla morte fanno gettare le loro ceneri nel fiume dopo essere stati cremati sulle sue sponde in siti appositamente creati.
3. Politeismo o monoteismo?
A questo punto ci si potrebbe chiedere se quello indù sia un vero politeismo o una forma molto particolare di monoteismo. Infatti, da un lato, nonostante le molteplici divinità personali, v’è la fervida credenza nell’immanenza del divino, mentre, dall’altro, c’è l’idea che la Trimurti sia l’espressione di una sorta di Dio supremo (Brahman-Atman o Ishwara) che li riunisce in cicli di creazione (nella figura di Brahma), mantenimento (Vishnu) e distruzione (Siva) che si ripetono all’infinito. Questa è un’idea che non troviamo nelle religione dei Greci e dei Romani. Per il politeismo romano gli interventi divini si manifestano in eventi imprevisti oppure quando è in gioco la sorte : riusciremo in quell’impresa… guariremo dalla malattia “solo se gli dei lo vorranno”. Era una religione di stato, ma lasciava che ogni municipio o gruppo adorasse le divinità che voleva. Cosa che accadde persino quando il cristianesimo divenne la religione dell’impero. Solo con la caduta di Roma la Chiesa divenne l’unica depositaria della Vera Fede. La capacità del politeismo romano di includere tutte le religioni che incontrava nella sua espansione era stata senza limiti. Per esempio, la dea Fortuna era molto venerata, ma con significati molteplici e, nell’Italia delle colonie greche, venne associata ad Agathe Tyche e Moira (specifiche divinità greche della buona sorte). Il monoteismo fu peraltro la conseguenza di un susseguirsi di eventi particolari. L’antico giudaismo era un enoteismo tribale. Yahveh (Jehova) era il Dio che evocavano in tempo di guerra e che univa le varie tribù.
In tempo di pace i Giudei, che da nomadi si erano trasformati in agricoltori, erano però anche adoratori di divinità del suolo e non mettevano in dubbio la potenza delle divinità di altri popoli. Fu durante la feroce lotta per la liberazione dal giogo dei Filistei che Jehova si affermò come unico Dio. Il monoteismo giudaico era diventato la religione di un’etnia che si era unificata facendo di Jehova l’unico vero Dio, che però aveva stretto un patto solo con Israele.
Nell’induismo il legame tra dharma-karma-mokşa è talmente stretto che non c’è posto né per il caso né per il peccato (nel senso giudaico-cristiano). Ciascuno è del tutto responsabile per aver rispettato o disatteso le “leggi” che gli sono state imposte dalla casta di appartenenza. Non esiste niente di simile alla “confessione” e al “perdono” concesso dai sacerdoti. Non v’è autorità che possa imporre come ricercare la liberazione. In questo senso si può dire – con Max Weber – che siamo di fronte a una religione di estremo individualismo, di cui la figura più evidente è quella dei rinuncianti, gli “uomini-fuori-dal-mondo”, molto diffusi ancora oggi e di cui esiste anche una versione femminile. Ogni indù è sempre pronto ad ammettere che le diverse divinità altro non sono che “manifestazioni di forze distinte che emergono dall’Immensità inconoscibile e indeterminata”. Questa è la ragione per cui gli induisti non conoscono il proselitismo, tanto meno quando venga imposto, da una chiesa centralizzata, come conversione degli “infedeli”. Un passo della Bhagavadgītā (parte dell’antichissimo e monumentale poema epico Mahābhārata) recita: «Anche coloro che, devoti ad altri dei, sacrificano loro pieni di fede, sacrificano in realtà a me solo, o Argjuna, in un modo diverso dalla norma». È per questo che in India non vi sono mai state guerre di religione, se non temporanee e occasionali. Persino i musulmani si adattarono a questo atteggiamento e lasciarono che l‘induismo venisse praticato nel loro Impero, restando la religione della stragrande maggioranza degli indiani.
4. Conclusioni
Se guardiamo alla storia dell’India sappiamo che lo sviluppo economico ha non più di una trentina di anni. L’India è stata per parecchi secoli uno dei Paesi più poveri al mondo. Non c’è però dubbio che lo sviluppo sia avvenuto prendendo ad esempio l’Occidente. L’Inghilterra, di cui l’India è stata per secoli la sua più importante colonia in Oriente, aveva lasciato in eredità la democrazia nonché sistemi scolastici e apparati burocratici all’occidentale. Purtroppo lasciò in eredità anche il nazionalismo, che provocò, con l’indipendenza, la “grande e tragica separazione” con il Pakistan. Più recentemente il nazionalismo religioso ha portato al potere un partito conservatore che ha fatto dell’induismo una sorta di identità nazionale radicale. Le ricerche più recenti hanno tuttavia confermato che le caste restano un ostacolo quasi insormontabile alla mobilità sociale, nonostante il grande e recente sviluppo economico.
Possiamo quindi concludere sostenendo che, benché non vi sia dubbio sul fatto che l’etica della contemplazione mistica abbia rappresentato un ostacolo assai serio alla nascita e allo sviluppo di un’etica razionale del lavoro come quella che è stata (insieme ad altri fattori) all’origine del capitalismo moderno, le caste più alte si siano infine “convertite” abbastanza rapidamente alla modernità. Non mi è chiaro come questo sia avvenuto, soprattutto sul piano del nesso dharma-karma-mokşa. Sappiamo però che le caste basse, soprattutto quelle che appartengo alle jāti dei shudra e dei dalit, che ovviamente coinvolgono la gran parte della popolazione, faticano molto a godere dei benefici dello sviluppo. Perciò gran parte della popolazione ha forti ostacoli a raggiungere un’istruzione adeguata così da ottenere lavori a medio-alta retribuzione. Peraltro l’ostacolo principale per riuscire a ottenere un’alta istruzione è sicuramente la bassa casta di appartenenza, che così crea un circolo vizioso da cui è molto difficile uscire. Il caso dei sādhu, segnala quanto grande sia ancora oggi il peso della religione. La gran massa del popolo continua a guardare il mondo con gli occhi della religione, a cercare di raggiungere la mokşa per liberarsi dall’eterno ciclo delle reincarnazioni. La secolarizzazione occidentale è ancora di là da venire.