Qualche giorno fa, a Bari in una di quelle sere che cominci a percepire il principio della fine dell’estate (tutto si va esaurendo: i turisti, i camerieri, i tavolini delle pizzerie, il passo di chi passeggia, l’umidità per fortuna) ho consegnato il Premio Nino Rota al compositore Michele Braga. Ha firmato oltre 70 colonne sonore per il cinema in un tempo relativamente breve e, tra le prime cose fatte, c’è il cortometraggio del 2008 “Basette” di Gabriele Mainetti; tra le più popolari, il lungometraggio “Lo chiamavano Jeeg Robot” sempre di Gabriele Mainetti, anno 2015, una specie di fuoco d’artificio, per l’uno e per l’altro.
Ci troviamo davanti – questo si intuisce – a quell’allineamento di anime che spesso chiamiamo affinità: intendersi senza parlarsi, suonare insieme con strumenti diversi, vedere le stesse cose da lontano, avvicinarsi.
Braga ha ricevuto il Premio Rota esattamente sotto la torre cinquecentesca di Torre a Mare, frazioncina marinara a pochi chilometri da Bari, adagiata sulla costa che dal capoluogo si stende verso Sud, che molti (ma non tutti) sanno essere stato il buen retiro proprio di Nino Rota, amatissimo direttore del Conservatorio di Bari.
Abitava in via Leopardi 40, una casa piccina, riempita da due pianoforti, dal vento di mare e dal dono della creatività che, quando c’è, somiglia tanto alla divinazione.
Qui usava raggiungerlo Federico Fellini (sebbene non fosse il solo, perchè gli facevano visita pure Luchino Visconti, Franco Zeffirelli… D’altronde Rota ebbe modo di scrivere per i più grandi, vincendo anche un Oscar per il Padrino – Parte II di Francis Ford Coppola) quando c’era da immaginare l’atmosfera nella quale avvolgere un suo film, e anzi, capitava spesso che i temi, le marcette, le sinfonie del suo Nino si rivelassero quel soffio che mancava alle immagini per prendere supremamente il volo. Sarà stato per questo che l’amatissimo Rota, Fellini lo disegnava con le alucce e pure con l’aureola, come un angelo. Non solo, lo tratteggiava anche col testone chino su un piccolo pianino, come lo Schroeder dei Peanuts, con lui incombente alle sue spalle, cappotto, sciarpa e cappellone in testa.
E dunque adesso, a distanza di oltre mezzo secolo, 51 anni per l’esattezza da quella sontuosa evocazione di un tempo volato via come le manine del principiare di questo straordinario capolavoro, si provi ad ascoltare il tema di Amarcord senza il film di Fellini o a vedere Amarcord sottraendovi le musiche di Rota. Violini, fiati, batteria leggera da orchestrina sul mare, clarinetti, arpa, tromba che ritorna in mano a Gelsomina ne “La strada” (1954), strumento che poi è tutta la sua voce, il suo dolore anche, fino alla fine, pure quando lei non c’è più, e rimane il rimpianto al ruvido Zampanò. Capita, insomma, quel prodigio che una volta così nitidamente il critico cinematografico del Sun Times di Chicago raffigurò: “Potrei guardare i film di Fellini alla radio”. Lo sceicco bianco,
I vitelloni, La strada, Il bidone, La dolce vita, 8 ½, Fellini Satyricon, Amarcord, Il Casanova di Federico Fellini e l’ultimo, Prova d’Orchestra, l’anno della morte di Rota, il 10 aprile del 1979, che lascia Fellini nello sconforto e nel silenzio.
A distanza di anni, il regista riminese, che pure aveva nel tempo collezionato collaborazioni e provato a coltivare affinità, una per tutte quella con Ennio Flaiano, fa un bilancio: «Ma il collaboratore più prezioso di tutti, posso rispondere senza riflettere, era Nino Rota.
Tra noi c’è stata subito un’intesa piena, totale, fin dallo Sceicco bianco, il primo film che facemmo insieme. La nostra intesa non ha avuto bisogno di rodaggio. Io mi ero deciso a fare il regista e Nino esisteva già come premessa perché continuassi a farlo. Aveva una immaginazione geometrica, una visione musicale da sfere celesti, per cui non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film».
Concludendo e impadronendomi proditoriamente di tutto il sin qui detto, l’affinità ha che fare con le sfere celesti… è una premessa, un’immaginazione geometrica, una visione, l’affinità suona, e quando suona, si vede.