“Non c’è io senza un noi. Siamo definiti dalle relazioni che intrecciamo.”
Edgar Morin
Affinità e confini: i limiti come punti di connessione.
L’etimologia di “affinità” trova le sue radici nel latino affinis, che significa “confinante”: affine, dunque, è ciò che confina con qualcos’altro o con qualcun altro con il quale ha degli elementi in comune. Come afferma lo scrittore Andrea Marcolongo nel suo articolo “Confine” pubblicato sulla rivista Mappe di Touring Club Italiano, «ogni confine può essere inteso come una frontiera insormontabile o come una porta socchiusa verso l’orizzonte».
Ed è a questa seconda accezione che mi rivolgo riflettendo sull’affinità. I confini intesi come porte socchiuse, infatti, sono occasioni per far emergere relazioni privilegiate con altre persone e culture, trasformando i limiti in punti di contatto.
Nel regno dell’arte, i confini sono i luoghi in cui l’artista e il fruitore si incontrano, dove il materiale e l’immateriale convergono. Come artista ho esplorato personalmente queste frontiere, cercando affinità tra elementi apparentemente disparati per combinarli nel mosaico finale della creazione. In particolare nel processo che porta alla nascita delle sculture astratte intitolate Decostruzioni (ne ho parlato qui), ho individuato tre fasi successive del processo creativo da cui emergono tre diversi rapporti di affinità.
Ritrovamento: l’affinità con gli oggetti.
Può accadere per caso, durante un viaggio o una passeggiata in città, di incontrare un oggetto e di sentire con esso una misteriosa e reciproca attrazione. Mi sono spesso domandato da dove nasca questa sensazione di affinità con certi oggetti e materiali, piuttosto che con altri. Probabilmente, la risposta risiede nel fatto che sono sempre stato affascinato dalla patina, dai segni del tempo, dal fatto che il tempo vinca sugli oggetti umani. Forse è il tempo, con la sua inesorabile traccia, la radice di questa attrazione.
Creazione: l’affinità come equilibrio dell’opera.
Durante un viaggio in Armenia nel 2015, ho ritrovato alcune insegne di una gelateria risalenti all’epoca sovietica e le ho portate nel mio laboratorio in Italia, dove le ho scomposte e ricomposte (Immagine 1 e 2). Il risultato è la cristallizzazione di un nuovo equilibrio, diverso da quello che gli oggetti possedevano nel contesto originario.
Ho applicato lo stesso processo anche ad un pallone da calcio trovato per strada (Immagine 3).
Nel realizzare le Decostruzioni, cartelli stradali, insegne pubblicitarie e segnali di pericolo sono frammentati in unità minime, pixel di realtà, e ricomposti in nuovi pattern secondo lo schema objet trouvé ► decostruzione ► assemblage.
Questo processo di decostruzione e ricostruzione rappresenta il tentativo di trovare nuove affinità tra le tessere dell’opera. Essa prende dunque forma procedendo dall’ordine al disordine per ritrovare un equilibrio più profondo, un’entropia estetica connaturata all’oggetto. In tutto ciò vedo un collegamento con l’accezione chimica del termine “affinità”, ovvero la «tendenza misurabile degli elementi o dei composti a combinarsi fra loro», per creare nuove sostanze (Dizionario della Lingua Italiana De Mauro). Una tendenza dunque molto potente in quanto primitiva ed innata.
Questa inclinazione naturale alla connessione trova corrispondenza nel desiderio umano di affinità, ovvero nella necessità di ricercare quegli elementi – che siano persone, idee o esperienze – che ci completano. Nel regno dell’arte, questa relazione si manifesta nella rapporto tra l’artista e gli oggetti che scopre o che crea. Che si tratti dei materiali di un mosaico o dell’interazione tra luce e ombra in un dipinto, c’è un’intrinseca risonanza che l’artista cerca di catturare.
Fruizione: l’affinità come risonanza.
«Scrivere versi per chi non può leggerli è come danzare al buio», lamentava Ovidio nelle Epistulae ex Ponto dal suo esilio sul Mar Nero. L’arte necessita di testimoni, poiché è fondamentalmente relazione. Nel creare un’opera, infatti, l’artista condivide con il fruitore un lato del proprio territorio interiore, un proprio confine. Una fruizione autentica presuppone quindi un’affinità, un incontro, un punto di contatto fra sensibilità.
Quando due o più sensibilità si toccano, si genera una vibrazione particolare: la risonanza. Un termine spesso associato al suono, che si estende anche al tessuto delle connessioni umane. Risuonare significa vibrare in armonia con l’altro, trovare una frequenza condivisa in cui fioriscano comprensione ed empatia.
Ecco allora che in ogni atto di creazione artistica è nascosta una duplice corrispondenza: una risonanza intrinseca, di cui abbiamo già detto, tra l’artista e la materia dell’opera, ed una risonanza estrinseca tra il sentire dell’artista e quello del fruitore.In questa seconda accezione l’affinità diventa qualcosa di più: non è solo una connessione, ma un dialogo continuo, un’interazione dinamica in cui entrambe le parti si arricchiscono.
Alejandro Jodorowsky parla del potere trasformativo dell’affinità: «Se mi chiedi, “Qual è lo scopo della mia vita?” ti risponderò: “Diventare te stesso”». Questo viaggio alla scoperta di sé è intrinsecamente legato all’affinità, poiché cerchiamo e siamo attratti da quelle persone, luoghi e idee che risuonano con il nostro io interiore. Attraverso le connessioni, non solo comprendiamo gli altri, ma arriviamo a comprendere noi stessi. Questo è il potere dell’arte: creare connessioni dove sembrano non essercene, trovare relazioni nell’atto stesso della creazione.
Per dare un’immagine al concetto di risonanza, possiamo rivolgerci alla cimatica, la teoria delle onde, che studia l’impatto di una frequenza su una sostanza, ad esempio un gruzzolo di sabbia su un piatto di metallo. Un suono, per sua natura invisibile, si manifesta attraverso le sue vibrazioni alterando la distribuzione della sabbia dando vita a sorprendenti geometrie. Allo stesso modo, la risonanza che vibra fra due o più persone può modificare la realtà circostante, rappresentando un concreto motore di cambiamento (Video 1).
L’affinità come epicentro di comunità.
Passando dal campo personale artistico ad una prospettiva più ampia, vorrei condividere alcune riflessioni sulla misura in cui l’affinità, estesa al campo delle relazioni sociali, possa incidere in modo concreto su una comunità in prospettiva culturale, innescando in alcuni casi significative trasformazioni a tutela del passato e del futuro della comunità stessa.
L’affinità, infatti, quando è intesa come una condivisione di valori, può costituire la chiave di volta di una comunità, un ponte fra diverse culture ed una potente leva di cambiamento. Un esempio interessante può essere rappresentato dal caso delle cosiddette “chiese-foresta” in Etiopia. Si tratta di edifici di culto cristiani tradizionalmente circondati da foreste che i credenti Tewahedo, la più diffusa confessione religiosa cristiana del Paese, considerano sacre. Un tempo molto estese, esse riproducono la condizione dell’Eden ospitando animali altrettanto inviolabili.
Nella tradizione religiosa locale, dunque, queste foreste hanno da sempre rappresentato un confine di carattere religioso, a difesa dei luoghi di culto. Tuttavia, negli ultimi decenni lo sfruttamento del terreno per scopi agricoli e di allevamento ha progressivamente eroso le antiche foreste, che oggi sopravvivono solo in estensione limitata, quasi fossero piccole oasi, esclusivamente intorno alle chiese.
Queste foreste dunque, da limite sacro dell’edificio di culto, sono diventate un patrimonio da difendere, un piccolo angolo di territorio nel quale si intrecciano tradizioni e credenze, ma anche speranze e progetti per la sopravvivenza dell’intera comunità. Sacerdoti ed ecologisti, legati da un obiettivo comune, si trovano perciò oggi a collaborare per costruire muri intorno alle chiese-foresta, così da fermare il disboscamento e impedire la desertificazione della regione. Di conseguenza, proteggere questi luoghi non è più soltanto una pratica religiosa, ma anche un tentativo di proteggere l’ecosistema e la biodiversità dell’area. Inoltre, negli ultimi anni, un team di ecologisti sta lavorando per collegare le chiese-foresta attraverso corridoi naturali, in modo da facilitare la riforestazione.
Si creerebbe così una sorta di network di comunità, un ecosistema di relazioni basato su un’affinità condivisa (Video 2).
Ampliando lo sguardo, l’affinità può infine scavalcare i confini di una comunità, per diventare un ponte fra culture diverse. Nel mondo greco e nell’Impero romano, con il concetto di Koiné è stato possibile creare un bacino di relazioni culturali che legavano i popoli attraverso grandi distanze e che in modo più o meno consapevole, costituiscono ancora le radici del nostro presente. In un mondo come quello di oggi, spesso diviso dalle differenze, il Mediterraneo dovrebbe ricordarci che le affinità condivise sono linfa vitale per sviluppare rapporti di dialogo e di reciprocità. Rapporti che potrebbero e dovrebbero essere sostenuti anche dal concetto classico di humanitas, un ideale di empatia e umanità che trova risonanza nel discorso contemporaneo sull’inclusione: riconoscere l’affinità negli altri significa scorgere un riflesso di noi stessi, considerare in sostanza l’esperienza umana condivisa che trascende confini culturali e geografici.
L’esplorazione infinita dell’affinità.
In conclusione, l’affinità in tutte le sue forme è un’esplorazione di confini e connessioni, di risonanza e dissonanza. È la forza che ci conduce dall’Io al Noi, avvicinandoci al prossimo, all’arte, all’ascolto reciproco. In un mondo che spesso cerca di erigere barriere, l’affinità ci ricorda il potere della connessione, del trovare un terreno comune anche nei luoghi più improbabili. Mentre navighiamo tra le complessità delle nostre vite, dovremmo essere come un artista, costantemente alla ricerca di nuove affinità e nuove risonanze che arricchiscono la nostra esperienza e la nostra comprensione del mondo. Perché, alla fine, è attraverso l’affinità che troviamo non solo connessione, ma un senso di appartenenza, un luogo in cui i confini tra sé e l’altro cominciano a sfumare, creando uno spazio condiviso di armonia e comprensione.