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uaderni de La Scaletta

La poesia in quanto tale è elemento costitutivo della natura umana

InCanto Dantesco

Dio, la natura, il peccato: le affinità elettive nella Divina Commedia

Il termine affinità designa un concetto che evoca etimologicamente la vicinanza con qualcuno o qualcosa: in latino ad-finis significa proprio “colui che è vicino a noi, ai nostri confini (fines)” e con il quale facilmente è possibile stabilire legami di parentela: gli “affini” infatti sono anche i congiunti. Del resto, sin dai tempi antichi nel campo scientifico si definiva affinità quella particolare forza attrattiva, operante nella materia e ritenuta inspiegabile o imputata a misteriose potenze soprannaturali, per la quale alcune sostanze mostravano la tendenza a legarsi più facilmente con gli atomi di alcuni elementi piuttosto che con altri (oggi il concetto di affinità elettronica esiste ancora, ma è definito in maniera molto più complessa).
Quando poi una affinità diventa elettiva, come nel celeberrimo romanzo di Johann Wolfgang Goethe, significa che i soggetti interessati sperimentano una sintonia così perfetta che il loro rapporto vive di una intensità unica e irripetibile, anche se non necessariamente destinata a durare nel tempo. Nel mondo dantesco, Dante e il Creato sono legati da un’affinità elettiva: Dio ha infatti scelto deliberatamente (“elettivamente”, dal latino eligere, ossia “scegliere”) di creare il mondo, il quale ha come fine la realizzazione di ciò che Dio ha predisposto per ogni elemento della natura.
L’impronta che Dio ha infuso nell’universo è eloquentemente descritta nel Canto I del Paradiso (vv. 103-114):

Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
105
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
108
Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
111
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.

Nella cultura cristiana che impera nel Medioevo e di cui Dante è illustre testimone, gli elementi della Natura sono ordinati dal Creatore, e poiché il mondo non è altro che “forma” (v. 104) di ciò che è idea nella mente di Dio, ne consegue che vi è una legge, infallibile e universale, direttamente disposta da Dio e che sostanzia tutto il Creato, il quale è perfetto e immutabile come il suo divino Artefice. Inoltre, tutti gli esseri tendono naturalmente ad un fine preciso e operano ciascuno secondo questa legge di armonia dell’universo.
Con splendida metafora marinaresca, le creature sono paragonate a navi che si muovono in diversi porti nella vastità dell’universo, “lo gran mar dell’essere” (v. 113). Dante precisa poco dopo che questo ordinamento (la “toccata norma” al v. 108) non determina i comportamenti soltanto degli elementi naturali (come il fuoco, ad esempio, che tende naturalmente verso l’alto), ma anche quello degli esseri dotati di ragione, vale a dire gli angeli e gli esseri umani (vv. 117-120):

né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta,
ma quelle c’ hanno intelletto e amore.

Dante traeva questo principio ordinatore da testi dottrinari e filosofici, in particolare dalla Summa Theologiae di San Tommaso, per cui (I. q. 47 a3 co.) “mundus iste unus dicitur unitate ordinis, secundum quod quaedam ad alia ordinantur; quaecumque autem sunt a Deo, ordinem habent ad invicem et ad ipsum Deum” [“il mondo si dice uno per l’unità datagli dall’ordine, secondo il quale le cose sono ordinate le une alle altre, e tutto quello che proviene da Dio, ha ordine vicendevole e contemporaneamente a Dio stesso”].
Se il mondo è ordinato da Dio, esso è uno perché è già perfetto: l’idea era già presente nella famosa opera di Boezio De consolatione philosophiae (cfr. libro III, par. 9) lettura privilegiata del poeta fiorentino, ed aveva origine dalla filosofia neoplatonica e dalle suggestioni espresse nel Timeo di Platone: “uno è il cielo, se è stato fatto secondo il modello […] Affinché questo mondo, per esser solo, fosse simile all’animale perfetto, il Fattore non fece né due né infiniti mondi, ma c’è questo solo unigenito e generato cielo” (Tim. 31a-b).
Noi usiamo dire comunemente che Dio ha creato il mondo a sua immagine e somiglianza: Dante riformula poeticamente il concetto ai vv. 104-105: “e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante”. A differenza del sistema neoplatonico, per cui l’Uno traboccante di Essere debordava ontologicamente per dare vita al Mondo, la Creazione è “elettiva”, è cioè un atto volontario di puro amore da parte di Dio. Dante lo precisa nella Monarchia (I. VIII 2): “cum totum universum nihil aliud sit quam vestigium quoddam divinae bonitatis” [“non essendo l’intero universo niente altro che quasi un’orma della divina bontà”], riprendendo ciò che scriveva Alberto Magno nel De natura et origine animae (I. 1): “Intelligentia regit naturam per virtutem divinam”.
Nel mondo dantesco, razionalmente ordinato dalla volontà divina, l’unico essere a cui è concessa la possibilità di tralignare, di deviare dal corso che Dio gli ha dato, è l’uomo, il quale ha il privilegio di esercitare il libero arbitrio (tema a cui Dante dedica il canto VIII del Paradiso) e di deliberatamente non seguire la via del bene e della virtù: (vv. 127-132):

Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda,

così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;

Se dunque l’uomo non persegue il Bene, che è il fine per cui Dio lo ha creato, cadrà necessariamente nel peccato e sarà condannato per sempre o costretto a purgarsi prima di salire al Paradiso. È qui che si rileva una nuova affinità:  esiste infatti una corrispondenza, teologicamente e poeticamente connotata, tra la vita dell’uomo sulla Terra e il suo risiedere nei regni dell’Inferno e del Purgatorio: è la legge del contrappasso [variante ortografica più diffusa del più corretto “contrapasso”, dal latino medievale contra “contro” e patior  “soffrire”], un singolare sistema di distinzione tra i peccatori che prevede punizioni connaturate alla tipologia e alle caratteristiche del peccato che ha segnato in maniera decisiva la vita terrena dell’anima dannata o penitente. Tutti ricordano come la bufera infernale che sconvolge i lussuriosi del canto V dell’Inferno rappresenti una trasposizione fisica del turbine della passione che ha travolto la schiera di coloro che accompagnano i due inseparabili amanti Paolo e Francesca.
Si tratta di un evidente contrappasso per analogia: le anime replicano nell’Inferno gli stessi atteggiamenti perpetuati in vita. Nel secondo regno, invece, i superbi che sono oberati da grossi massi e costretti e osservare le raffigurazioni delle scene di umiltà scolpite nel pavimento della Prima Cornice (Canto X del Purgatorio), subiscono un contrappasso per contrasto: sulla Terra si posero con alterigia e supponenza verso il prossimo, ora invece devono abbassare la testa ed educarsi all’umiltà. E talvolta i due criteri si fondono insieme: gli ignavi, che in vita non vollero prendere posizione e preferirono rimanere anonimi, costituiscono per analogia una massa di gente “sanza ‘nfamia e sanza lodo” (Inf. III 36), ma sono altresì obbligati, per contrasto, a seguire un’insegna bianca, pungolati da mosche e vespe.
Questa affinità che il contrappasso stabilisce tra la vita terrena e la sua prosecuzione oltremondana potrebbe, a prima vista, intendersi come una riproposizione poetica dell’antica legge del taglione. Dante dà prova di grande fantasia nell’immaginare le pene dei dannati, ma ogni ideazione è studiata con finezza. Addirittura nella bolgia VI del cerchio VIII, il poeta raffigura gli ipocriti oberati da pesanti e ingombranti cappe, fatte di piombo e rivestite esternamente di oro: è palese l’analogia con il loro atteggiamento in vita, durante la quale essi hanno nascosto la verità ammantandola di apparenze ingannevoli e parole luccicanti come l’oro che riveste le cappe. È probabile che la figurazione dell’oro sia stata dovuta ad una paretimologia con cui Dante intendeva la parola di origine greca “ipocrita”, che correttamente è da intendersi come “colui che giudica da sotto, senza farsi vedere” [dal greco ὑπό, “sotto” e κριτής, “giudice”], mentre per Dante era da connettersi alla parola greca χρυσός ossia “oro”]. Tuttavia, Dante trasse i principi del contrappasso da testi biblici e teologici, in particolare, ancora dalla Summa di San Tommaso, il quale spiegava che (Sum. Theol. II.II 61.4) “haec est forma divini iudicii, ut secundum quod aliquis fecit, patiatur: secundum illud Matth. VII 2: In quo iudicio iudicaveritis, iudicabimini: et in qua mensura mensi fueritis, remetietur vobis. Ergo iustum est simpliciter idem quod contrapassum” [“questo è il criterio del giudizio di Dio, che uno patisca in proporzione di ciò che ha fatto, come si legge nel Vangelo di Matteo (VII.2): “Voi sarete giudicati secondo lo stesso giudizio col quale avrete giudicato; e sarete misurati con la stessa misura con la quale avrete misurato”. Dunque il giusto s’identifica senz’altro col contrappasso”].
E sempre Tommaso precisa che il peccato deve essere curato “per contraria” (I.II 87.6 ad 3), ossia con una punizione che faccia da contrappeso all’habitus tenuto dal defunto durante la sua vita.
Tuttavia, tra Inferno e Purgatorio il contrappasso agisce in maniera differente. Nel regno del peccato, infatti, il contrappasso serve a caratterizzare moralmente il dannato, costringendolo a vivere in una condizione immutabile che è diretta conseguenza della sua scelta depravata. Nel Purgatorio, invece, esso è una pratica paideutica, una ascesi profana, oseremmo dire, con cui l’anima purgante si esercita e si prepara alla visione della divinità. Perché, in definitiva, è la visione di Dio il discriminante che separa le anime del Purgatorio, che avranno il privilegio di entrare nel Regno dei Cieli, da quelle dell’Inferno, a cui questo beneficio sarà sempre precluso.
Se dunque il contrappasso del Purgatorio ha una funzione riabilitativa, è necessario che le punizioni siano ispirate al ravvedimento del peccatore. L’ordinamento legislativo italiano pare fare eco al sistema dantesco: l’art. 27 della Costituzione al comma 3 recita: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tuttavia, l’attuazione di questo nobile principio ha dovuto attendere la riforma carceraria del 1975 (legge 354), ma soprattutto la cosiddetta legge di depenalizzazione 689/1981 (aggiornata quest’anno con il D.Lgs. n. 31/2024) che ha introdotto, tra le misure sostitutive della detenzione, il lavoro di pubblica utilità, consistente “nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, le Città metropolitane, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato” (art. 56 bis).
Se alle anime del Purgatorio spetta come premio l’accesso al Paradiso e il ricongiungimento con il Creatore, al condannato che faccia un percorso socialmente utile, alternativo alla detenzione e improntato allo sviluppo di quelle competenze civiche di cui si era mostrato sprovvisto e la cui carenza lo avevano indotto alla violazione della legge, viene riservato un trattamento diverso rispetto alla classica carcerazione: riacquistare la libertà fornendo un contributo e una prestazione alla società a cui ha fatto del male è il miglior mezzo per riabilitare se stessi per il futuro.
Più di recente, nel 2014 è stato introdotto nel codice penale l’art. 168 bis, ossia la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, e ancora nel 2017 l’art. 162 ter ha inserito l’ipotesi di estinzione del reato per condotte riparatorie. Si tratta di misure che, già presenti nell’ordinamento minorile, hanno lo scopo di offrire all’imputato adulto la possibilità di prestare un servizio sociale riparatorio, come ad esempio attività di volontariato, al termine del quale il reo può essere prosciolto qualora il percorso abbia fatto registrare esiti positivi e comprovato una messa in atto di atteggiamenti e sensibilità civiche e morali. Del resto, per i tossicodipendenti o assuntori di sostanze stupefacenti o psicotrope il lavoro socialmente utile era già previsto come alternativo alla sanzione sin dall’art. 73 comma 5 bis del DPR 309/1990. Tale istituto sembra ancora una volta figurare come una traduzione giuridica del contrappasso dantesco, in particolare del pungolo (mosche e vespe) che tormenta gli ignavi nell’Antinferno: chi ha assunto droghe ha offeso la sua esistenza, l’ha sprecata scegliendo di non scegliere e si è abbandonato all’inerzia; ora dovrà diventare persona attiva e inquadrata in un contesto lavorativo per dare il suo contributo alla comunità e alla società.

Questi esempi di innovazione giuridica presentano dunque strette affinità con il contrappasso dantesco. Una prima affinità è nel metodo: se Dante ha immaginato le punizioni come condizioni antitetiche alle condotte poste in essere dai peccatori durante la vita terrena, parimenti il legislatore ha imposto al condannato l’attuazione fattiva di atteggiamenti costruttivi per il bene della società che egli ha danneggiato precedentemente con il suo operare illecito. Una seconda affinità è nel premio: il peccatore si rieduca per un suo personale beneficio, perché alla fine avrà accesso al Paradiso; il detenuto riotterrà la libertà senza la carcerazione o addirittura senza la condanna (previo periodo di messa alla prova).
Una terza affinità è nella dimensione sociale in cui avviene la riabilitazione: il reo ha sperimentato cosa significhi sentirsi utili nella società, ha lavorato nell’interesse pubblico e si è messo al servizio della comunità, spesso in contesti difficili di cui forse ignorava anche l’esistenza. Le anime purganti di Dante, parimenti, si sottopongono al contrappasso ravvivate dal senso di appartenere ad una umanità che mira al Bene: nel Purgatorio esse sono consapevoli di far parte di una schiera destinata alla salute eterna, solidarizzano tra loro nell’attesa del trapasso in Paradiso ed esprimono questo ritrovato sentimento della socialità nel cantare all’unisono le lodi del Signore, come in Purg. I, 46-48:

In exitu Israel de Aegypto
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.

Il mondo di Dante ha però una prospettiva trascendente che non è garantita dalla giustizia degli uomini. Ciò significa che Dio riserva una speranza di redenzione che va al di là delle riparazioni che possiamo offrire sulla Terra. Al Creatore basta poco, anche un ravvedimento in punto di morte, anche una sola “lagrimetta” (Purg. V, 107), per evitare l’Inferno, poiché Egli sa leggere nel cuore degli uomini e a Lui non sfugge se il pentimento è davvero sincero e frutto di un convinto ripensamento del proprio scorretto operato. Tuttavia, queste brevi riflessioni ci hanno mostrato come il poema dantesco, se letto a fondo e con meditata riflessione, nasconda inaspettate affinità con il nostro lontano, laico, moderno e relativista mondo contemporaneo.

Fjodor Montemurro
(Professore e Presidente della Società “Dante Alighieri” di Matera)
Dante legge la Divina Commedia alla corte di Guido Novello (dipinto) di Pierini Andrea (sec. XIX)
Pierini Andrea: Dante legge la Divina Commedia alla corte di Guido Novello, sec. XIX

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