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uaderni de La Scaletta

Un paese è una frase senza confini

Frontiere letterarie

Le affinità tra Goethe e Manzoni

Non si incontrarono mai, ma Goethe, appena comparve in Germania la traduzione in lingua dei “I Promessi Sposi”, si affrettò a leggerlo e di lì partì un carteggio col Manzoni, mediato da amici comuni, che durò alcuni anni, con scambi di reciproche attestazioni di stima ma soprattutto di idee e spunti intellettuali. Una breve ricostruzione è riportata in un saggio a firma di Aldo Venturelli del 2011, “Tra Milano e Weimar. Nuove prospettive di ricerca sul rapporto tra Alessandro Manzoni e Johann Wolfgang Goethe” (sul “Giornale storico della letteratura italiana”).
Le affinità elettive tra i due avevano ancor prima sollecitato la acutissima penna di Leonardo Sciascia, che vi dedicò il capitolo “Goethe e Manzoni” del libro “Cruciverba”, lo stesso in cui compare il famoso commento a “L’ignoto marinaio” di Cefalù e quello a “Napoleone scrittore”. Sciascia, sempre con quei rimandi dettagliati ma non pedanti alle fonti che hanno reso granitiche al tempo molte delle sue intuizioni (si pensi solo a ”L’Affaire Moro” scritto nello stesso anno di Via Fani), riporta di un Goethe affascinato dai “Promessi Sposi” dei quali ricevette anche una copia con dedica di Alessandro nel 1827 (la versione cosiddetta ventisettana”), che ricambiava l’invio da Weimar a Milano delle “Opere poetiche manzoniane” in edizione in lingua curata da Goethe per l’editore Frommann di Jena.
Più esplicito nella sua ammirazione Goethe e più misurato e di pochi aggettivi Manzoni, in ciò cogliendosi forse, oltre alle differenze caratteriali, anche la distanza tra il Romanticismo tedesco e quello italiano del quale Gina Martegiani, pupilla del corregionale Benedetto Croce, a inizio Novecento ebbe addirittura a negare l’esistenza, tanto diversi dal resto d’Europa apparivano il suo sostrato culturale, i suoi motivi ispiratori, la società civile a cui si rivolgeva. Molto bello quel saggio di letteratura comparata “Il Romanticismo italiano non esiste” del 1908, che probabilmente sarebbe piaciuto sia a Goethe che a Manzoni per come libera dai cliché la produzione letteraria dell’Ottocento europeo.
Se si è fortunati, anche al liceo, nei testi con le letture critiche, ci si può imbattere in questo titolo che da solo, anche senza ulteriori approfondimenti, basta ad accendere una lampadina e a seminare il dubbio. Eppure, mai i due diversi Romanticismi furono così vicini come nel caso di Goethe e Manzoni, e l’occhio lungo di Sciascia fu attratto proprio da questo. Goethe “invidiava” al Manzoni tre cose: Il Risorgimento italiano, il ricorso al vero storico (non il verisimile, men che meno il mito) come sfondo sul quale costruire in rilievo personaggi e caratteri, e l’equilibrio nella descrizione di istinti e sentimenti senza mai cedere a retorica, sentimentalismo, buonismo. “Manzoni ha sentimento, ma è senza sentimentalismo”, annotò l’amico Eckermann durante i suoi “Colloqui con Goethe” del 1836.
Sono tre qualità manzoniane, coerenti tra loro, che farebbero pensare più che l’estimatore sia un pensatore del Settecento illuminista o del Positivismo francese della seconda metà dell’Ottocento che non un autore romantico tedesco. E in effetti, Goethe tutte queste sensibilità le incarnò assieme, “ultimo uomo universale a camminare sulla terra”, nella definizione di George Elliot, e creatore del concetto, filosofico prima ancora che letterario, della Weltliteratur, la materia prima letteraria mondiale di cui le letterature nazionali e le varie correnti sarebbero espressioni diverse, spesso contraddittorie e conflittuali, ma legate le une alle altre dal micelio dell’esistenza umana.
Se può sembrare strano che Goethe si interessasse al Risorgimento italiano, si deve fare uno sforzo di astrazione rispetto quello che normalmente si apprende sui banchi di scuola, dove si è persa traccia, anche per motivi di tempo e di complessità che il discorso assumerebbe, di quella che, almeno sino a metà Ottocento, veniva vista in tutta Europa, e soprattutto dalle Cancellerie degli Stati più forti, come la “Rivoluzione italiana”, spesso chiamata al plurale le “Rivoluzioni italiane”.
Infatti, era il Paese che, per la lunga frammentazione territoriale tra entità politicamente deboli e disorganizzate, in quegli anni rimaneva maggiormente aperto a cambiamenti e sperimentazioni, almeno in potenza l’onda più lunga della Rivoluzione francese e del Bonapartismo. A questo proposito, Sciascia ricorda come Manzoni fosse tra gli aderenti più illustri della petizione a Carlo Alberto perché il Piemonte intervenisse e sostenesse i moti delle Cinque Giornate di Milano, e si trovò ad apporre la sua firma una mattina, raggiunto da uno degli attivisti mentre era appena uscito di casa a Piazzetta Belgioioso e con il centro di Milano ancora presidiato dagli Austriaci. Firmò togliendosi il cappello e usando la parte superiore del cilindro come appoggio.
Forse queste non ovvie affinità tra Goethe e Manzoni sono tutte ascrivibili al fatto che entrambi sono intellettuali di passaggio, formatisi nella temperie illuministica del Settecento su cui hanno poi innestato sensibilità, idee e necessità dell’Ottocento romantico, così anche sfuggendo alle estremizzazioni sia del primo che del secondo.
Goethe, nato nel 1749, ebbe tutta la giovinezza per assorbire i fermenti dei Lumi e per infatuarsi dei disegni napoleonici prima di diventare Stürmer und Dränger. Per il Manzoni, più giovane di quasi cinquant’anni, il legame col Settecento passava per la famiglia, per il nonno materno Cesare Beccaria, per l’amico della madre e forse anche suo padre naturale Giovanni dei Verri, e per la sua prima moglie Enrichetta Blondel, calvinista di origini francesi che per lui si convertì al Cattolicesimo ma in cambio trasmettendogli quei precetti di responsabilità individuale e impegno civile con cui le Chiese protestanti volevano distinguersi dalla decadenza della vulgata religiosa romana. Il Cattolicesimo lombardo ha da sempre ricevuto influssi dalle Chiese protestanti del nord Europa, che lo hanno spinto a rinnovarsi e reso più ricettivo anche rispetto alle tesi illuministiche del Settecento e alle istanze di giustizia sociale esplose con la Rivoluzione francese.
La comunanza di radici filosofiche e culturali tra Wolfgang e Alessandro emerge con chiarezza se si confrontano i due romanzi più popolari dei due: “Le Affinità Elettive” di Goethe e “I Promessi Sposi” di Manzoni. Anche in questo caso, tuttavia, è necessario lo sforzo di sganciarsi dai cliché con cui a scuola, e in certa misura anche all’università, ci si accosta alle due opere. Se per Goethe il rischio è sempre stato la banalizzazione romantica da feuilleton con tempesta delle passioni, per i “Promessi” il rischio, lo sostiene anche Sciascia nel “Cruciverba”, è la lettura buonista degli intenti morigerati e dei retti comportamenti che prima o poi trovano sempre adeguata contentezza nei disegni della vita.
Sciascia avrebbe voluto ascoltare meno commenti sulla Provvidenza e più commenti su Don Abbondio, per lui il vero dominatore dell’opera, immutevole e indisturbato sino alla fine, immarcescibile anche dopo che Renzo e Lucia si sono sposati e hanno messo su famiglia.
E si può essere anche d’accordo, se non fosse che Sciascia fa risalire le colpe a Benedetto Croce, ed è una di quella rarissime volte in cui oggi è più facile dissociarsi, perché sia Croce, mancato nel 1952, sia il filone di critica letteraria crociana non possono essere chiamati in causa per l’impostazione che i programmi di insegnamento hanno mantenuto nel successivo mezzo secolo e oltre, e neppure per la latitanza di capacità critica e originalità delle schiere di professori che in questo lungo tempo sono passate per le aule. Bisognerebbe affrontare un discorso più ampio.
I due romanzi hanno tanti aspetti non ovvi di richiamo, nascosti dalla oceanica distanza che separa le storie raccontate, tra l’altro ambientate in secoli diversi, nella campagna tedesca a cavallo tra Settecento e Ottocento le “Affinità” (gli anni di Goethe), e nella Lombardia della prima metà del Seicento i “Promessi” (durante il lungo dominio degli Asburgo di Spagna, durato dalla estinzione degli Sforza sino alla Guerra di successione spagnola).
Sono romanzi in cui compare tanta scienza risvegliata dall’Illuminismo: i concetti di chimica elementare, la botanica, gli effetti ottici, le serre e le tecniche di coltivazione e giardinaggio, per fare qualche esempio nelle “Affinità”; gli effetti della peste, i comportamenti delle masse, i meccanismi di diffusione delle informazioni false (oggi si direbbe fake-news) e dell’anti-scienza, la critica all’erudizione enciclopedica e ottusa dei Don Ferrante e degli Azzeccagarbugli opposta alla specializzazione tecnica, l’analisi della insufficienza delle Istituzioni e della irrazionalità delle leggi (oggi sarebbero temi di institutional design e law economics), e tanto altro nei “Promessi”.
In particolare, in entrambi i romanzi compare tanta economia, la scienza novella nata meno di un secolo prima con Adam Smith. Goethe affida a Edoardo, rampollo di nobilità terriera rentier, il compito di gestire il passaggio generazionale della fattoria di famiglia, con dense parti del romanzo dedicate alla riorganizzazione della filiera produttiva in senso imprenditoriale e gestione diretta da parte della proprietà, alla progettazione di strutture e spazi moderni, alla ridefinizione dei rapporti di lavoro in cui si sente l’influsso delle riflessioni dei socialisti utopisti e la suggestione del falansterio di Fourier.
Nei “Promessi” i riferimenti appaiono ancora più moderni, se si pensa agli effetti della guerra tra Francia e Spagna sull’economia di Milano e della Lombardia (il casus belli fu la successione ai Ducato di Mantova e di Monferrato), alle conseguenze dei controlli sui prezzi ordinati e poi rimossi dal Gran Cancelliere Ferrer che diventano causa di carestia e tumulti nella piazzetta del Forno delle Grucce, ai rischi di accattivarsi le masse con la demagogia illudendosi di re-imbonirle con le grida, sino alla piaga della peste portata dai Lanzi in una società in cui non è ancora chiara l’importanza del presidio pubblico della sanità per evitare contagi a tappeto che non vedono confini di quartiere e di censo.
Probabilmente se ne potrebbero trovare molti altri di parallelismi ma si attira l’attenzione su quello più forte e palese e, nonostante questo, il meno considerato di tutti: la famiglia. La famiglia moderna, quella che tutti conosciamo e viviamo, è un frutto del Settecento, dell’Illuminismo e dell’accelerazione del cambiamento portata dalla Rivoluzione francese e anche dalle rivoluzioni liberali, quando il cittadino borghese inizia a superare legacci e usanze feudali e prende consapevolezza come soggetto attivo titolare di diritti e doveri e faber fortunae suae.
La famiglia diviene, non solo la cellula sociale entro cui si cerca la realizzazione della sfera privata e sentimentale, ma anche l’unità organizzativa della vita quotidiana che deve badare alle spese e procurare e condividere le risorse necessarie a perseguire i progetti di lavoro e di benessere. Il percorso sarà ovviamente lungo.
Le “Affinità” raccontano questa trasformazione dal punto di vista di una famiglia nobile che perde i privilegi del passato e deve imparare a navigare nel nuovo mondo senza appannaggi e rendite, gestendo gli affari e correndone i rischi. Ma mettersi alla prova della vita reale implica abituarsi al confronto paritario con gli altri e alle valutazioni provenienti anche dall’interno della famiglia, con comparsa di dinamiche di ruolo e psicologiche prima inesistenti.
La vita familiare di Edoardo e Carlotta è stravolta dai sentimenti che entrambi iniziano a provare rispettivamente per Ottilia e il Capitano; non sono in grado di gestire questa condizione e, tra sotterfugi, esitazioni, vergogne, timori del futuro e sensi di colpa, montano sul nulla il clima di una tragedia greca (una “Medea”!), con sofferenze e lutti, tra cui la morte del bambino. Raramente tutto questo sarebbe accaduto nell’Ancien Régime.
Manzoni guarda le cose dal lato dei nuovi arrivati alla ribalta. Nei “Promessi” c’è la storia di due ragazzi, due persone semplici del popolo, che si arrabattano per mettere su famiglia e costruire il futuro; ma di mezzo ci sono prepotenti e brutti ceffi che ficcano il bastone tra le ruote, la guerra, la crisi economica, addirittura una pandemia, tanta boriosa burocrazia, leggi e regolamenti non più al passo, amministratori opportunisti e governanti incapaci.
Se vi ricorda qualcosa di oggi, la vostra esperienza o quella di giovani amici e conoscenti, non vi state sbagliando. La vicenda in questo caso si chiude bene, ma dopo pervicace insistenza, qualche aiuto e tanta tanta fatica ma, soprattutto, con nulla certezza che le storture non si ripresentino ancora, per la stessa famiglia o per altri sventurati. Il Don Abbondio di Sciascia è vivo, vegeto e sempre ben paffuto alla fine del romanzo, e forse nei secoli sino a noi.
Ci sta che la storia dei “Promessi” la sentiamo più vicina perché ha esito positivo e, fuori dalle tante metafore (che a volte hanno poco di metaforico), ricorda il vissuto di tanti giovani che, grazie a sacrifici e speranze delle famiglie di origine, cercano la loro strada e fortuna sotto “[…] quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace”, che piaceva tanto a Don Lisander e per cui si può azzardare il tedesco Goethe provasse un po’ di invidia (è il cielo del XVII capitolo). Eppure, il monito da tragedia greca che viene fuori dalle “Affinità” ha un contemporaneità concretissima soprattutto per le famiglie delle nuove generazioni: assumere sempre la responsabilità dei sentimenti, anche quando si deve fronteggiare la sofferenza di ridiscutere pezzi di vita già costruiti sulla base di altri sentimenti, e provare a farlo nella maniera più trasparente, costruttiva ed elegante possibile. Facile a dirsi …

Maria Giovanna Salerno
(Professoressa di lingue e letterature straniere e Presidente della “Fondazione Sassi” di Matera, www.fondazionesassi.org)
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Rene Magritte: Affinita elettive, 1933

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