Ho provato a ragionare sul tema dell’affinità a partire dalla radice etimologica del termine, trovandola significativa per questa indagine.
Ѐ appunto dal latino ad finis che abbiamo la nostra parola italiana, ovvero dal concetto di “confine”, “confinante”. Affine è, quindi, ciò che si trova a confinare con qualcos’altro, che è sul bordo e tocca il territorio che gli è accanto. L’affinità si manifesta nel confronto tra due diverse dimensioni che, non sovrapponendosi e senza un criterio di uguaglianza formale, possiedono un punto di contatto, una vicinanza.
Nell’ambito della fotografia esiste un soggetto in particolare che ha interessato profondamente più di un autore nel corso dei decenni, e che ben incarna il concetto di affinità: le persone gemelle. Si prenda ad esempio la fotografia capostipite delle immagini che hanno come soggetto fratelli gemelli, quella di Diane Arbus del 1967, Identical Twins, Roselle, New Jersey. Un’immagine divenuta famosissima, in particolare, da quando Stanley Kubrick si ispirò a lei per la scena di “Shining” con le gemelle nel corridoio vestite di azzurro. Cosa ci dicono le due bambine fotografate da Diane Arbus, vestite uguali, con lo stesso taglio di capelli, messe una a fianco all’altra in un contesto del tutto isolato, un muro bianco alle loro spalle? Ci parlano dello scarto, delle riserve che ognuno dovrebbe avere nell’intendere il concetto di identità e identicità: la confidenza che abbiamo con l’idea di individuo deve scendere a patti col doppio. Due caratteri e personalità diverse vivono sotto sembianze quasi identiche, due persone diverse hanno quasi lo stesso volto.
Ecco presentarsi quel confine che rende chiara l’origine dell’affinità, l’essere “altro” fa già sì che si crei un bordo oltre il quale inizia un secondo regno, il diverso, nonostante i punti di contatto possano essere molteplici.
L’affinità è più annidata nella separazione che nella comunanza, potremmo allora dire: in ciò che potrebbe essere dentro quel confine, essere la stessa cosa, e invece resta all’esterno, oltre il limite, diventando qualcosa d’altro e di autonomo, indipendente.
Essere di fronte a due gemelli genera uno spaesamento, dunque, sebbene
a volte non ce ne si renda conto: non è un caso che autori attratti da categorie umane fuori dal comune siano stati anche magnetizzati dal tema dei gemelli. Diane Arbus, come forse è noto, è famosa per i suoi ritratti a soggetti che sfidano, a partire dal proprio aspetto, il concetto di normalità: soggetti non rassicuranti per l’occhio borghese che Arbus voleva scuotere e sfidare, riuscendoci; dai cosiddetti “freaks” spesso assoldati nei circhi, a persone incontrate nella quotidianità, per strada, incarnazioni della natura anormale, e a volte deforme, che l’umanità senza eccezioni possiede.
E dunque ecco affacciarsi la fascinazione di Arbus, e degli altri che vedremo, per quel gioco che la natura ha voluto fare all’uomo ancora certo di saper discernere il diverso dal simile, e il diverso nel simile, testando gli effetti della confusione, dello sbaglio e dell’abbaglio.
Così come l’impotenza dei nomi nel fare chiarezza quando agli occhi due soggetti appaiono identici (quante volte capita infatti ai genitori stessi di due gemelli di sbagliare a chiamarli, confondendo uno per l’altro?).
Il doppio, tema surrealista per eccellenza, è capace di generare un’inquietudine che l’uomo non è abituato a gestire: l’identico che esiste in due corpi contemporaneamente, non poter più riconoscere un’individualità sulla base dell’aspetto, assistere anzi alla confutazione per cui dall’aspetto si può avere uno e un solo derivato umano e caratteriale.
Sul piano temporale, a fissare sulla pellicola altri gemelli in una fotografia divenuta altrettanto famosa come quella di Diane Arbus, è stato Roger Ballen, fotografo contemporaneo statunitense naturalizzato sudafricano.
Ballen potrebbe essere classificabile come autore decisamente affine – per rimanere in tema – a Diane Arbus, e a chi come loro ha voluto accostarsi alle porzioni più spaventosamente inafferrabili dell’umano, ravvisando nel caos e nell’inquietudine parte del suo mistero che spesso viene taciuto e tenuto nascosto.
Roger Ballen fotografa Dresie e Casie in Sudafrica nel 1993, intravisti di sfuggita mentre era in macchina con la moglie. Il racconto dell’autore, che diverge da quello della madre dei due ragazzi, fa emergere un’immagine in particolare che, al di là della verità storica dell’episodio, ho voluto conservare: Ballen dice infatti che all’inizio vide solo uno dei due ragazzi, e che si fiondò a fotografarlo, chiedendogli il permesso. Ad un certo punto, però, avvertì come un’ombra dietro di lui che, girandosi, vide essere il fratello gemello del ragazzo. Così li fotografò insieme nell’immagine divenuta famosa internazionalmente.
E’ questo concetto di ombra, che resta come sotterraneo a ogni discorso sui gemelli, che può rivelare altro su questo argomento. L’affinità dei gemelli, dei due fotografati da Roger Ballen in particolare, oltre che somatica, pare accompagnata dall’esigenza di una vicinanza fisica, quasi fosse una prerogativa nel rapporto tra i fratelli omozigoti.
Appena l’obiettivo di Ballen, ignaro dell’altro fratello, stava per congelare uno dei due ragazzi da solo, sancendone la finitezza dentro il suo solo corpo singolo, ecco apparire l’ombra dell’altro, come a salvataggio dell’irrimediabile e falsa solitudine che avrebbe confinato il fratello nella pellicola. Così la presenza dell’ombra, prima, e del fratello in carne e ossa vicino all’altro, poi, pare sancire la naturale prosecuzione fisica dei due corpi e dei due individui, inconcepibili sotto certi aspetti separatamente.
Sono due individualità, due corpi fisici che si completano per definizione: non può esistere un gemello singolo, è ovvio. Sono due corpi che devono confinare per forza, allora, è un tipo di affinità che richiede l’esistenza dell’altro, e in cui le due parti si richiamano necessariamente, che vivono al massimo alla distanza di un’ombra, la propria.
Giungendo a tempi più vicini, da ricordare è ancora senza dubbio il lavoro interamente dedicato ai gemelli realizzato nel 2001 da Mary Ellen Mark, tra le fotoreporter più influenti del Novecento, e intitolato appunto “Twins”.
Si tratta di una serie di ritratti eseguiti in occasione del “Twins Days Festival” che ha luogo annualmente a Twinsburg, in Ohio. Per questo lavoro Mary Ellen Mark fece una scelta tecnica molto significativa: usare una Polaroid 20×24, ovvero una macchina di grandi dimensioni in grado di generare stampe di circa 51×61 cm. Con queste parole la stessa Ellen Mark spiega la sua scelta, sottolineando un aspetto che a più riprese abbiamo avuto modo di ribadire: “Usando questa macchina fotografica avrei potuto mostrare, con dettagli molto precisi, non solo quanto i gemelli siano simili, ma anche le sottili qualità che li rendono così diversi.”
Anche nel caso di Mary Ellen Mark troviamo un’autrice da sempre a contatto con le realtà poste più ai margini della società: tra i suoi lavori più potenti si possono nominare gli scatti dedicati alla prostituzione minorile, così come alle famiglie senza tetto (The Damm Family). Parliamo dunque di una fotografa avvezza, come Arbus e Ballen, ai significati estremi che l’umanità può assumere e incarnare, e abituata a ritrarne il disagio, l’emarginazione, la brutalità. Quello dei gemelli pare essere un tema vicino ai limiti che Ellen Mark ha sempre cercato di raccontare, pur non possedendo la drammaticità delle storie su cui è stata solita lavorare. Questa peculiarità lascia, forse, ancora più inquieti: i gemelli sono un’illusione ottica senza tragedia della natura. E proprio il fatto che la stranezza, nella natura – o meglio, nella società – umana sia sempre stata accostata al dramma di vivere una condizione di anormalità, getta un faro ancora più potente sulla straordinarietà senza attrito in cui vivono i gemelli.
A ribadire quanto l’occhio non possa mai adagiarsi sulle presunte sicurezze su cui apparentemente è in grado di orientarsi.