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uaderni de La Scaletta

Ogni forma di cultura viene arricchita dalle differenze, attraverso il tempo, attraverso la storia che si racconta

Gli Stati Generali

Le affinità tra De Sanctis e Carducci per la rinascita morale e civile dell’Italia

A fronte della crisi valoriale che da troppo tempo sembra aver incancrenito la vita politica nazionale, non bisogna lasciarsi travolgere dalla sterile inconcludenza di un rassegnato sconforto, ritenendo irreversibile ed inarrestabile il degrado morale e civile che ne deriva.
Ci soccorra, al contrario, il sempre attuale insegnamento del Croce circa l’interpretazione storica, giusta la quale va considerato che anche i periodi di decadenza sono da ritenersi momenti eterni del progresso dell’Umanità, che si svolge come una spirale che comprende salite e discese, e non come una retta che si eleva continuamente verso l’alto, secondo l’illusoria configurazione   ottocentesca. A tal riguardo, non appare superfluo ricordare che dopo la fase regressiva registrata nell’anno Mille, temuto come l’avvento della fine del mondo, era seguita quella prodigiosa ripresa che avrebbe avuto il suo approdo più significativo nella «Rinascenza» culturale europea del sec. XII, secondata dalla riscoperta dei Grandi del passato, come Cicerone, Platone, Aristotele , dai quali si attinse la luce che illuminò ovunque in Europa il rifiorire della cultura e della creatività in tutte le sue manifestazioni.
In merito a ciò, appare altresì particolarmente significativo il noto paragone realizzato da Giovanni da Salisbury (1120-1180) il quale nel suo Metologicon, paragonando gli antichi ai moderni, scrisse: «Noi siamo come nani seduti sulle spalle di giganti. Vediamo perciò più cose degli antichi e più lontane, non a cagione dell’acutezza della nostra vista o della nostra statura, ma perché siamo sollevati in alto e ci gioviamo della loro gigantesca grandezza» .
Nell’età contemporanea, il nostro indimenticato Maestro Giovanni Cassandro così osservava: «Sembra qui una legge costante della civiltà occidentale, che quante volte essa compia un balzo avanti, debba prima come ripiegarsi su se stessa, risalire alle origini, approfondire le basi sulle quali si eleva, fino a raggiungere le radici del proprio essere.”
Accadde così anche quella volta, così come confidiamo che possa accadere anche oggi, recuperando la memoria di Uomini preclari .per le loro virtù morali e civili, onde attingerne una nuova linfa vitale per la riscoperta di quei valori sempiterni del Bello, del Giusto, del Buono, che trascendono la dimensione angusta dello spazio e del tempo.
Tra i protagonisti dell’età eroica della Nuova Italia, un ruolo speciale spetta a Francesco De Sanctis (1817-1883) e Giosuè Carducci (1835, 1907), letterati e patrioti, ma soprattutto educatori delle giovani generazioni.
La perdurante validità e affinità della loro lezione, li rende a noi coevi, nella più generale cornice di una storia che nel senso crociano del termine ci è sempre contemporanea, in quanto oggetto di analisi da parte dei viventi, ai quali, in tal modo costantemente parlano gli Scomparsi protagonisti del passato, come amava affermare Giovanni Spadolini .
Intere generazioni di studenti si formarono sulle opere di Francesco De Sanctis (1817-1883)- che fu altresì illustre uomo politico – le quali opere ebbero la peculiarità di essere raramente adottate come libri di testo, il  che rende ancor più rimarchevole la loro intrinseca capacità di orientare il sentire di tanti giovani e meno giovani al gusto della letteratura, arte volta ad elevare la mente sia nella riflessione interiore, che nell’operosità quotidiana della vita pratica, che viene ad essere nobilitata dall’esempio dei grandi del passato.
La sua sempre attuale Storia della Letteratura italiana (1871) in particolare, consente di ricostruire l’evoluzione di una coscienza italica attraverso i capolavori letterari dei grandi scrittori sino al compimento del sogno unitario, con una perenne valenza pedagogica morale e civile, la cui utilità si manifesta ancor più preziosa nei periodi di decadenza come l’attuale, dove molti avvertono con maggiore intensità il bisogno di abbeverarsi alle fonti perenni del Bello, del Vero, del  Giusto. Il che può porre rimedio all’inaridimento spirituale che è causa ed effetto, al contempo, dell’immiserimento della politica, non più intesa come alta ed altruistica missione al servizio della collettività, bensì come mezzo per il conseguimento prioritario di gratificazioni personali, fuorvianti dalla strada che conduce alla meta del pubblico bene.
La storia letteraria, in questi termini, non va letta solo come una ricostruzione dei personaggi e delle opere prosastiche e poetiche più significative della cultura di una Nazione , ma anche come uno strumento che concorre ad approfondirne  la conoscenza della storia civile ad essa relativa .
La letteratura è un bene primario e comune ad un intero popolo- quale fu il nostro  nel suo lungo cammino attraverso la storia- essendo essa l’interprete e lo specchio di una civiltà, poiché “senza la letteratura è come se un popolo fosse cieco, come se fosse sordomuto”
(
così  annotava nel 1910 lo scrittore finlandese Eino Leino ).
L’Italia arrivò ad elevarsi a dignità di Stato, prendendo le mosse da quella realtà culturale aggregante che era stata la lingua, a partire dall’Alighieri in poi; era stata essa Italia dunque una realtà letteraria e morale, prima ancora che istituzionale: “le lingue precedono le spade” aveva scritto il Campanella, evocato, non casualmente, dal De Sanctis.
Quest’ultimo, insegnando al Politecnico di Zurigo, aveva avvertito quei suoi allievi, profani di letteratura, che prima di divenire ingegneri,  dovevano mirare a formarsi come cittadini completi, il che era impossibile senza una pur contenuta formazione letteraria, da lui considerata come momento ineludibile di sintesi tra tecnica ed umanesimo( ovvero –per dirla in termini attuali- tra progresso scientifico ed etica).
Si prodigò costantemente, anche nelle successive esperienze accademiche, per una didattica improntata all’ esposizione di  concetti chiari e   discorsivi, atti ad avvincere i discepoli, con il risultato che sorpassò tutti nell’educare gli alunni ad amare l’Italia.
Gli era caro insegnare senza aria dogmatica– avrebbe poi ricordato un suo allievo della Nunziatella– “ ma col tono della conversazione, dimostrandosi più amico che maestro, leggendo come pochissimi leggono, commentando non per dottoreggiare, ma per chiarire quello che leggeva, interrompendo la lettura con qualche osservazione sobria e sagace, che non sciupava ma eccitava l’attenzione dei giovani, facendo, insomma, ciò che poi disse che doveva essere l’insegnamento , vale a dire discendere fino ai giovani per sollevarli fino al Maestro” . 
La scuola non doveva mai essere avulsa dalla realtà, quindi la formazione andava  indirizzata all’evoluzione morale e civile dei discepoli, cui rivolse questa esortazione: “Studiate, educatevi, siate intelligenti e buoni. L’Italia sarà quello che sarete voi […] Mantenete intatta ed integra al vostra persona ! E in questa parola –soggiunse– c’era tutto, ,c’era la Patria, c’era la virtù …La scuola deve essere la vita”.
L’istruzione era la matrice di ogni altra conquista civile e lo spartiacque tra un regime reazionario ed uno liberal democratico,  per cui nel suo primo discorso alla Camera il 13 aprile 1861, ribadì  l’importanza della scuola per la crescita della società italiana:“ Chiameremo noi forse uomini liberi quei contadini ignoranti delle province napoletane […..]  la cui anima non appartiene a loro? No , non sono uomini liberi costoro, la cui anima appartiene al confessore, al notaio, all’uomo di legge, al proprietario, a tutti quelli che hanno interesse di volgerli, di impadronirsene. Provvedere all’istruzione popolare sarà la mia prima cura. Noi saremo contenti quando l’ultimo degli italiani saprà leggere e scrivere.
I valori da lui propugnati, anche da Ministro della Pubblica Istruzione (1862,1878,1881), erano quelli di una libertà costantemente ancorata alla giustizia, e di una “democrazia non solo giuridica, ma effettiva”.
Il De Sanctis  riferendosi alla  dialettica tra maggioranza  e minoranza, nel  discorso del 22 novembre 1863, (dopo i fatti di Aspromonte), così ebbe ad esprimersi in Parlamento:
Le maggioranze le creano gli avvenimenti; io sono certo che , quando altri avvenimenti sorgeranno, quando degli uomini autorevoli e grandi presenteranno le idee , le quali possano riunire uomini separati per concetti inferiori, in un concetto superiore, io credo che allora sia naturale che una fusione [cioè tra membri della maggioranza e dell’opposizione ] ci sia.”
L’Italia unita doveva progredire nella sua vita interiore, coltivando i valori della Patria, della Famiglia, della Libertà e della Virtù, non come mere astrazioni, ma come oggetti  concreti e familiari. Siffatti principi il De Sanctis considerò moralmente fondanti dell’Unità patria e fattori indispensabili per l’ulteriore  progresso morale e civile della Nazione.
Sulla medesima falsariga di etica civile, operò il Carducci, Uomo di grandi ed intense passioni. Dentro il crogiuolo della fantasia egli fuse riflessioni ed affetti, memorie e glorie degli antenati, passato, presente ed avvenire, avvertendo forte l’ufficio civile dell’arte, che fu poetica e con pari dignità prosastica. La sua prosa fu briosa ed armoniosa perché influenzata da una profonda sensibilità poetica; la sua poesia fu educativa, perché partecipò dalla concretezza dello svolgimento prosastico.
Seppe attualizzare il passato cogliendone i nessi profondi con il presente, grazie all’accuratezza dell’indagine storica che, unitamente a quella filologica, supportava un periodare dotto, schietto, talora arguto e, se necessario, polemico; ma sempre e comunque elegante. La forma dei suoi versi: – lo sottolineò il Croce – fu moderna e classicheggiante al contempo, sempre ricca  e varia.
In lui convissero una dimensione privata assai diversa da quella pubblica, nella quale ultima assaporò la gloria del cattedratico,  poeta e scrittore illustre sino a conseguire il Nobel, così come la nomina a Senatore del Regno.
Come ogni vero poeta, egli fu alieno dal manifestare ad occhi profani l’immacolata divinità del suo cuore, che era tutta nei suoi versi: quell’Uomo che nell’apparire della vita quotidiana nascondeva gelosamente segrete cure , fino all’apparire burbero, nei momenti dell’ispirazione effondeva il profumo dei  fiori del suo amore, proteso a  trasmetterne l’essenza  inebriante  ai giovani di ogni tempo, rendendoli così a lui perennemente coetanei.
La dimensione privata che emerge dall’intimo dell’anima carducciana è quella di un uomo fondamentalmente tormentato, che- sono parole di Aldo Mola aveva “la testa in biblioteca o per la cattedra e lo Stato, i sentimenti e la fantasia altrove; in casa le baruffe, i mugugni, i silenzi”. Il contrasto tra il privato suo “essere” ed il pubblico suo “apparire”, tra la sua fragilità interiore e la forza leonina, quasi scontrosa, tramandata attraverso le foto, i ritratti e la prevalente  letteratura , epilogò nel primo ictus che lo colpì a 50 anni, limitandone pesantemente la vita relazionale sino alla morte, che sopraggiunse in seguito al secondo ed inesorabile colpo, a 72 anni.
Il turbinio delle passioni si sublimò nell’idealizzazione e nella calma contemplazione di una dimensione lirica che, insieme all’intensità dell’incessante sua operosità, lo sollevò da melanconie  altrimenti tarpanti. L’amore fortissimo per l’Italia unita ed indipendente, emancipata da condizionamenti settari o confessionali, si sostanziò nel costante impegno del Carducci ad educare i giovani alla religione del Dovere, al senso dello Stato ed al culto della libertà nell’ordine, cioè della libertà senz’altro. Ogni suo scritto, poetico o prosastico, scaturito da tale impegno, mirò a formare le coscienze dei cittadini di uno Stato di recente creazione, da amare, da conservare e da far progredire con ogni pur necessario sacrificio. Nell’ottica dell’ascesa morale e civile della nuova Italia, va inquadrata la passione carducciana per il mondo classico greco e latino, costituente le radici sia dell’acquisita Patria unita, che della vagheggiata Europa da costruire.
Non poteva egli, pur convintamene fautore di riforme nel campo del lavoro, della sanità, dell’istruzione, essere un rivoluzionario, in quanto il suo anelito per il rinnovamento- anche nel settore sociale- non fu mai traumaticamente indirizzato a sconvolgere l’esistente: il progresso nella continuità fu il motivo ispiratore del suo costante impegno politico.
La passione del Carducci per l’arte, per la Patria e per la civiltà, non gli preclusero di dare importanza a quella faccenda “frivola” che si chiama Amore, come se fosse possibile che un’ispirazione poetica potesse prescindere dalla fonte più bella offerta dalla vita.
L’impeto tumultuoso di un sentire perennemente giovane, addolcì e tormentò nello stesso tempo il “Professore” che, oberato dagli affanni della scuola, era felice quando poteva distrarsi dalle sue pressanti occupazioni, per perdersi con adolescenziale entusiasmo nello sguardo di una donna amata.
Come in ogni artista autenticamente mosso da profonde fonti di ispirazione- prima fra tutte l’evocato Amore- nel Carducci operò costantemente la Natura, con i suoi colori, i suoi profumi, le sue voci, in una composizione armoniosa incalzata dalla percezione della caducità del Tempo. Pochi poeti hanno sentito così profondamente come il Carducci, che l’essenza della vita è amore, dalla dimensione di una singola figura femminile, a quella grandiosa della Patria, o “polis” che dir si voglia, che impone oggi il ritorno alle origini storiche ed etimologiche della politica, da vivere come servizio, impegno severo, dedizione disinteressata ed assoluta al bene comune.
E’ incontestabile che alla crisi della politica contemporanea ha contribuito- e non poco-  anche la caduta libera della cultura, intesa come istruzione educante al discernimento ed a conseguenti scelte informate per una rappresentanza parlamentare degna non solo per capacità tecnico- istituzionali, ma anche e soprattutto per requisiti morali e civili.
L’agone politico si è ridotto, viceversa, ad invettiva sguaiata per demonizzare l’avversario, svilito a vero e proprio nemico, da spiare magari anche nei recessi più reconditi della sua vita affettiva, con intendimenti diffamatori che nulla hanno a che fare con  il pubblico bene.
Abbeverarsi alle fonti del sapere, ma soprattutto agli esempi dei grandi del passato, ci aiuterà a ritrovare la linfa vitale di un’etica sociale che si manifesta anche nel senso della misura, della sobrietà, della capacità di ascolto e del civile confronto, senza tralasciare quell’eleganza della forma che, lo insegnava S. Agostino, è anche sostanza.

Tito Lucrezio Rizzo
(Avv.to, Prof.re, già Consigliere Capo Servizio Presidenza della Repubblica)

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