Una scena dell’Armida infuriata (1629) di Orazio Persio.
Nel 1629, il materano Orazio Persio, giureconsulto e letterato, nipote dei più celebri Ascanio e Antonio, pubblicava a Napoli due intermedi teatrali ispirati alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, capolavoro indiscusso del tempo e modello imprescindibile per chiunque si cimentasse nella scrittura epica, ma anche serbatoio di storie, caratteri e situazioni da destinare alle scene.
Gli intermedi erano brevi drammi teatrali che servivano a inframezzare altre opere: scandivano, insomma, tra i diversi atti, delle brevi pause che distraevano il pubblico con nuove storie, per rendere più dilettevole la fruizione dell’opera principale, spesso una commedia o una tragedia, variando il tono e i temi della rappresentazione. Per la sua natura fondamentalmente ‘scenica’, il poema tassiano ispirò moltissimo il teatro del tempo. Non è un caso, infatti, se Persio si ispirò proprio alle vicende di due donne della Liberata per i suoi intermedi. Una è Erminia, la principessa di Antiochia segretamente innamorata del cristiano Tancredi, la quale, preda dei suoi turbamenti amorosi, si allontanerà in un bucolico ritiro tra i pastori, lontano dal frastuono della guerra e delle passioni.
Ne scaturirà l’Erminia pastorella, pubblicata in pendant con l’altro intermedio ‘femminile’, quello su cui ci concentreremo in questo spazio: l’Armida infuriata. Chi è Armida? Facciamo un passo indietro.
Nel poema la troviamo complice di Plutone, il demonio in persona, che la convoca insieme allo zio Idraote, signore di Damasco, affinché con le sue armi seduttive metta scompiglio nell’esercito cristiano. Armida ci riesce, poiché è la donna più bella che si sia mai vista (neanche Cipro, patria di Venere, come racconta Tasso, aveva mai visto una donna così).
Una donna che incanta, certamente, ma non soltanto con la sua bellezza. Armida è infatti una maga, una simulatrice, che astutamente sa entrare nelle debolezze, nei desideri e nelle fragilità ‘maschili’ e usarle a proprio vantaggio. Dopo un’intricata serie di vicende, riuscirà a trattenere con sé il più valoroso dei guerrieri, Rinaldo, di cui si innamorerà. Per vivere questo idillio amoroso, Armida si ritira con il cavaliere in una prigione dorata, immersa in un giardino in cui è eterna primavera, un Eden artefatto e simulato in cui si vive nel piacere totale dei sensi, in cui non abita alcun senso di colpa.
Mentre Rinaldo è lontano, l’esercito cristiano vacilla. È necessario il paladino per proseguire nell’impresa. E proprio da questo punto prende avvio l’intermedio di Persio, che presenta un numero altissimo di affinità, anche testuali, con il poema, e si concentra su questo episodio centrale: i crociati Carlo e Ubaldo vengono inviati nelle isole Fortunate, dove si trova il palazzo di Armida, con l’obiettivo di recuperare Rinaldo. Ad accompagnarli c’è Fortuna, che dopo il lungo viaggio resta ad aspettarli, in attesa che tornino insieme al paladino. Giunti in quella natura incantata, i due guerrieri in missione sorprenderanno Rinaldo e Armida totalmente rapiti dalla loro passione, con lui totalmente asservito alla bellezza di lei, dimentico dei suoi compagni, del mondo, dei suoi doveri.
Quando Rinaldo sarà solo, i due crociati lo raggiungeranno e gli faranno specchiare il suo volto in uno scudo: Rinaldo si scopre misero nel suo «lusso effeminato» e prende coscienza della perdizione in cui versa. Rinsavisce e torna ai suoi propositi, pentito e sopraffatto dalla vergogna per essere venuto meno ai suoi impegni sacri. Decide quindi di partire immediatamente, ma, mentre i tre si apprestano a raggiungere la nave in cui li aspetta la Fortuna, Armida se ne accorge. La maga vacilla. La donna forte e dominatrice sente mancare il suo potere. Tenta prima di trattenerlo, fa appello al loro amore, tocca le facili corde del cuore, ma non trova ascolto. Rinaldo resta impassibile, è inamovibile anche quando lei gli promette che si sottometterà a lui, se lui la porterà con sé. Armida è disperata. Tutto è vano, ogni cosa è perduta.
Rinaldo parte e Armida è sola. E nella solitudine e nella disperazione cresce il germe dell’ira. Un’ira femminile che poche volte nella storia letteraria è emersa, è la furia della donna ferita. Persio, con una fantasia macabra che esorbita dai confini del ‘tradizionale’ letterario, si allontana notevolmente anche dal modello tassiano e ci offre una lettura estremamente insolita. La didascalia dell’autore precisa “qui Armida è fuor di senno”, e infatti l’amante si perde in questo monologo, in cui immagina di raggiungere colui che l’ha abbandonata, per poi strappargli il cuore e gettarlo, insieme alle altre membra, ancora “vivo e palpitante”, in pasto alle belve, “meno crudeli di lui”:
L’ho giunto, il prendo e gli apro il petto e ’l core
gli sterpo omai da l’empio seggio fuore
con queste branche vivo e palpitante
e lo butto a le fiere,
meno di lui crudeli.
E vuole anche fare di quel corpo, che prima era uno, una cosa franta e molteplice, profanarlo al punto tale da renderlo un irriconoscibile ammasso di frammenti umani, che spargerebbe tra i rami, sperando che dei corvi voraci ne facciano razzia:
Ecco sparto le membra, e vo’ ch’appese
restin ne’ rami, a’ i disleali essempio,
quelle membra ch’in tante
delitie, in molli piume, odori e vezzi
covai, fetide, e nere al sole esposte
sbranin corvi voraci
non son più d’altra miglior tomba degne,
che d’un ventre sì vile,
anzi troppo per lui nobil ricetto,
ch’arso, ed incenerito
e lor degno sepolcro il sen del vento.
Hor già son vendicata. Ho ’l mio nemico
ucciso a brano sparto, e ’n tutto estinto.
Quelle membra, le stesse che lei ‘covò’, in tal modo sarebbero vendicate, all’interno di quello spazio, di quella stessa natura che un tempo fu complice dei loro amplessi e che ora diviene uno scenario agghiacciante. Le membra di Rinaldo, che ne caratterizzarono la forza virile, non meritano altro che di decomporsi al sole e polverizzarsi al vento, risultando forse perfino indegne per il ventre dei corvi.
Armida pensa di essersi vendicata, ma gli spettatori, dalle sue parole, si accorgono presto di aver assistito soltanto a un delirio allucinatorio, di lei che sta ‘percuotendo il vento’ con le sue mani, non potendo più disporre di quel corpo.
Tutto si rivela frutto di un’immaginazione compensatoria di una donna che ha perso ogni lucidità, preda dell’abbandono. Ad ogni modo, Armida farà davvero qualcosa: manderà in fumo il suo castello (nella didascalia Persio raccomanda per questa scena dei mirabolanti “fuochi artificiati”). Questo è l’unico, ultimo e sorprendente gesto che le è possibile compiere, estremo sfogo concesso alla sua furia distruttiva.
Armida è una maga: conosciamo i pregiudizi negativi che la storia ha riservato alle donne che ‘sapevano’ (anche in un senso più ampio) e che si adoperavano per agire sulla realtà, fino a tentare di modificarla.
Se il magico è demoniaco, così come lo è il femminile che tenta, è dunque facile pensare che anche le fantasie di vendetta prodotte da una mente di questo tipo potessero avere un surplus di orrore, di violenza, di peccaminosa aberrazione. Persio sembra aver indugiato in maniera particolare su questo momento di follia, rivelando un divertimento tutto ‘barocco’ per il gusto del macabro, di cui indagheremo meglio le affinità con altre donne del passato.