Il mio ricordo di un maestro e amico
Mario Trufelli. Il fermo-immagine è in bianco e nero. Io ho poco più di 15 anni. Il giorno è il sabato. «Check up» fu il programma che portò la medicina specialistica e divulgativa nelle case degli italiani, prima del telegiornale delle 13.30, dal 1977 al 2002. Lui è un grande giornalista, vincitore di premi prestigiosissimi come il Saint Vincent (1980) e il Guido Dorso (1981).
Giacca e cravatta, Trufelli era l’inviato speciale che intervistava i luminari della scienza, con un linguaggio elegante, ma non retorico, sempre col sorriso e senza mai cadere dalla corda tesa di chi si muove tra scienza e pubblico. Il ciuffo e l’espressione alla Walter Chiari rendevano la sua presenza e le sue domande un appuntamento da non perdere, che aveva numeri bulgari e che sconsacrava la medicina, fino ad allora ritenuta, per gran parte della provincia italiana, una sanità aristocratica[1], lontana da una popolazione in cui resisteva ancora una farmacopea casalinga e un approccio legato a fatalismo e ritualità magica.
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Interessandomi di Sinisgalli non potevo non rincontrare Mario Trufelli, che di Leonardo, così lo chiamava, “il mio Leonardo”, era amico. Non c’era stata occasione in Basilicata o a Roma dove non lo avesse intervistato. Pardon. Non erano semplici servizi giornalistici. Erano duetti o duelli di fioretto. Trufelli gli era riconoscente perché il poeta-ingegnere gli aveva pubblicato nel 1955 – lui era solo un ragazzo di Tricarico, dello stesso paese di Rocco Scotellaro – un grumo di poesie su «Civiltà delle macchine», la più importante rivista aziendale di metà secolo, conosciuta in tutto il mondo.
L’intervista a Castronuovo Sant’Andrea, dove Sinisgalli fu invitato dai fratelli Appella, Paolo e Peppino, nell’agosto del 1980, pochi mesi prima della sua morte, ancora adesso è un capolavoro. Trufelli blandiva e sfruculiava, sapeva che Sinisgalli andava stanato. E lui, da eccentrico e vanitoso qual era, non si sottrasse, anche a costo, provocatoriamente, di sferzare i suoi paesani, da cui si sarebbe aspettato quella festa, che solo invece Castronuovo gli organizzò.
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Nel 2001, era il ventennale della scomparsa del poeta di Vidi le Muse, dopo i tre giorni dedicatigli a gennaio – presentai ufficialmente alla comunità di Montemurro il mio sito sul poeta-ingegnere –, fui chiamato dai Lucani di Firenze a una due-giorni nella città toscana per parlare di poeta-ingegnere nel superbo salone dei Cinquecento. Con me, Mario Trufelli. Era stato invitato anche Mario Luzi. Ricordo che Trufelli ripassò la scaletta che aveva preparato con la consueta professionalità e mi disse che mi avrebbe dato la parola con una domanda che mi anticipò. Non amava l’improvvisazione, così come non gradiva quando qualcuno si dilungava troppo nella risposta. Aveva dei tempi serratissimi, televisivi. Soprattutto non accettava mai che qualcuno gli togliesse il microfono di mano. L’attrezzo del mestiere doveva gestirlo lui per poter interrompere quando lo riteneva opportuno.
Il rammarico, oggi, è di non avere una fotografia di quel convegno, con lui e Mario Luzi.
Ma ricordo tutto, persino la serata, a ristorante. Si fece portare una bottiglia di vino buono.
Lo amava. A un tavolo vicino al nostro vi erano due belle signore. Iniziò pian piano ad alzare la voce, a raccontare col suo garbo istrionico, fino ad interessare le due avventrici che sorrisero a una sua battuta. Partì a razzo verso quel tavolo con la bottiglia di vino, per versarne nei baloon che fece portare dal cameriere. Non so se lo avevano riconosciuto. Sta di fatto che iniziò ad ammaliare con aneddoti e poesie. Fu una serata memorabile per le due belle signore. E anche per me che gustai quella galanteria di altri tempi.
Nel 2003 gli organizzai una Serata d’onore a Spinoso, per presentargli il suo viaggio letterario in Lucania, L’ombra di Barone, edito da Osanna Edizioni. Dopo tanti viaggiatori stranieri venuti in Lucania, da Schnars a Malpica, da Lenormant a Tarchetti, da De Martino a Banfield, da Di Gianni a Peck, da Levi a Olivetti, Trufelli aveva sentito l’esigenza di raccontare la “sua” Lucania, da viaggiatore interno. Aveva narrato i suoi incontri, reali e immaginari (con Pitagora, Pierro, Morra, Sinisgalli, Gioconda, Levi, Scotellaro, Hartig, Nitti), sempre en plain air, in una cornice dall’“odore di terra e di gaggìa”, dove “i venti e le nebbie danno convegno ai silenzi”.
Per quell’occasione, a Spinoso, si riempì all’inverosimile il cortile interno del palazzo baronale, sotto lo sguardo curioso del campanile a cipolla araba. Aveva portato con sé alcuni dei suoi servizi, realizzati per «Cronache italiane». Essendo nel comune della Diga del Pertusillo, mi consegnò una copia di un documentario realizzato nel 1963. Mi stupì la cura con cui volle controllare tutta l’attrezzatura, microfoni, videoproiettore, casse.
Mi chiese poi la scaletta, che mi tolse dalle mani, corresse e integrò. Da regista consumato. Era un professionista, sempre. Amava prepararsi. Odiava gli imprevisti, che se accadevano gestiva da istrione.
Ogni volta che ci incontravamo mi chiedeva sempre se avessi Prova d’Addio, il volume di poesie che Vanni Scheiwiller gli curò nel 1992. Non quella volta. Era il 3 agosto, il giorno del mio compleanno, ma lui non lo sapeva. Alla fine, mi chiamò da parte e mi diede una copia, dicendomi di conservarla gelosamente. La dedica che spesso rileggo dice:
«A Biagio Russo / alla sua finezza / intellettuale, alla / sua passione, con / cuore fraterno / Mario Trufelli / Spinoso / 3 agosto 2003»
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Era soprattutto un poeta, anche quando realizzava i suoi servizi giornalistici.
Da una scheggia poetica, o da un dettaglio fotografico, sempre lirico,
muoveva per un’argomentazione sempre in bilico tra l’esigenza della cronaca
e l’impennata del guizzo. Forse anche per questo ho sempre pensato che Lamento per Rosetta, la sua poesia più struggente, scritta a Balvano il 24 novembre del 1980, mentre un padre riconosceva la propria bambina, adagiata sul sagrato della chiesa, dopo la tragedia del terremoto, sia contemporaneamente un capolavoro poetico e giornalistico.
La trascrivo per i pochi che non la conoscono:
Lamento per Rosetta
Rosetta ha la faccia di cera
la bambina senza gloria
minuscola memoria
nell’inferno di Balvano.
La pietra non riposa
sulla soglia della chiesa.
Oh Rosetta, non appannarti nel congedo
che già stremata giaci
reliquia della festa interrotta.
T’inganna il passero pellegrino
nell’alba offesa.
Non c’è nido che l’accolga
più che la morte la cattiva sorte
gli vieta il chiasso mattutino.
Livida la mano che t’accarezza gli occhi.
Che diluvio di baci, d’imprecazioni.
Angeli pieni di rimorsi
si guardano smarriti dalle nicchie
Dio dove sei, dov’eri Dio?
Si è rifatta limpida l’aria
ma non soccorre la luce
la tenebra del cuore.
Balvano, 24 novembre 1980
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Il 30 agosto, sempre del 2003, gli presentai a Montemurro, In viaggio con Barone, realizzando con Tonino Calvino una scheda video che lo rese particolarmente felice. A festeggiarlo, oltre ai suoi concittadini – era cittadino onorario –, c’erano Peppino Appella, Franco Vitelli e Santino Bonsera.
Trufelli è stato amico di grandi artisti, da Melotti a Consagra, da Ortega ad Assadour, per citarne solo alcuni. Quando si videro con quest’ultimo, nella Casa delle Muse, il 3 dicembre del 2019, la commozione fu tale che non trattenne le lacrime. C’erano anche Mario Di Sanzo, Beatrice Volpe ed Enzo Pace. Mancava, ahimè, Rocco Brancati. Un altro dei suoi tanti allievi. In quell’occasione Trufelli portò una gradita sorpresa, un servizio su Assadour a Matera del 1995.
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Per i suoi 90 anni, insieme ad altri amici per festeggiarlo, pubblicammo un libro di componimenti poetici in suo onore, Questo fruscio di canneti (UniversoSud, 2019), su idea di Giampiero D’Ecclesiis e con la cura di Gianfranco Blasi.
La mia poesia era intitolata Nell’ombra gigante:
Pausa. A capo.
Ti alzi in piedi per gonfiare il petto.
La poesia, lo sai, non ha fretta.
Ti dà retta da tempo. Non è curva.
Barcolli appena, lo fai apposta,
gaglioffo quel ginocchio,
e questo basta, come un funambolo
fai il silenzio.
Pausa. A capo.
Raccogli l’aria quanto basta al verso
e non lo sprechi, hai le corde di chi canta.
Le sillabe scandite rimbalzano
senza mai cadere, come bolle di sapone
esplodono.
Pausa. A capo.
Grano e pane, basilico e gaggìa
Sussurri e fruscii. È poesia
Il vento che passa
respirando l’orma sull’erba.
Nell’ombra gigante
del tuo Novecento
annaspiamo, sperando
d’imparare a nuotare.
A capo. Fine
Ps. Non è una prova d’addio
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Mario Trufelli ha inchiodato tutta la sua esistenza alle “parole”, ostinato come un artigiano mai soddisfatto della propria arte. Il giornalismo, la poesia, la narrativa di questa terra, hanno il graffio inconfondibile del suo timbro vocale, che rallenta e guizza, con studiato indugio, da vero mattatore. Formidabili i siparietti, le punture di spillo, l’ironia incalzante. Mai spalla, comunque protagonista. Mai prevedibile, sempre professionista.
È stato il testimone culturale di un ingombrante Novecento, si è legato a questa terra, senza mai tradirla; l’ha scavata in mille gallerie come una talpa e l’ha infagottata in uno sguardo volando da nibbio. Ha saputo ascoltare le sue genti come un eremita e raccontare le loro storie come un profeta, misurando l’ingranaggio esatto di parole e di silenzi, nei servizi televisivi per la Rai come nelle prose.
Ma è sotto la cenere calda della poesia, di Prova d’addio (Libri Scheiwiller) e L’indulgenza del cielo (a cura di Franco Vitelli, Osanna Edizioni), che Mario Trufelli ha nascosto il pane lirico dei sentimenti, semplici e puri, sempre fragranti di erbe, di sguardi, di suoni, con una limpidità di voce e accenti, mai interrotta dagli anni Cinquanta ad oggi. Il canto che ha intonato è stato quello di un rapsodo che ha colto ogni vibrazione vitale, con incanto e disincanto, stagliandosi a modello e sentinella di valori nobili ed eterni.
Intellettuale galante ed elegante, passionale e umorale, generoso e curioso, Trufelli è stato maestro di un’umanità che non ha disdegnato lo sporco sublime della quotidianità e della convivialità. La sua amicizia aveva il profumo dell’incenso sulla tavola laica dell’allegria. In fondo bastava poco: un sorriso, un aneddoto, una poesia, un buon calice di vino e uno stornello gridato a squarciagola.
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Chiudo con altre schegge memoriali, che affiorano disordinati, mentre scrivo: la presentazione del suo romanzo, Quando i galli si davano voce (Edizioni della Cometa 2013) a Montemurro, insieme a Peppino Appella, Mario Di Sanzo e Mimmo Sammartino; quando declamò la poesia per Sinisgalli davanti al ritratto di Domenico Cantatore, nella Casa delle Muse; quando gli portavo in via Marconi i libri della Fondazione (il sorriso era sempre più largo della porta e il prosecco sempre in fresco ad aspettarmi); quando gli lasciai il Labirinto di Sinisgalli al barista sotto casa, perché non era fuori regione e lui mi inviò un messaggio registrato in cui, entusiasta, mi disse: “Biagio ma cosa hai fatto!”; quando gli chiesi di inserire uno dei suoi primi racconti, “La pazza di via Gelso”, nel volume Amati, misteriosi, maledetti. Racconti di luoghi (Hermaion 2022); o in occasione delle Pannocchiate organizzate da Tonino Calvino, suo grandissimo amico, a Montemurro, dove lui, mangiava, beveva e cantava a squarciagola con Sergio Santalucia.
Ma il ricordo principe, per me, è del 2022. Gli organizzammo, insieme a Paolo Albano, la presentazione del suo ultimo libro di poesie, L’indulgenza del cielo (Osanna edizioni), al Museo Dinu Adamesteanu di Potenza. Era il 31 gennaio del 2019. A fine serata, per ringraziarmi, mi poggiò la mano sul cuore. Ancora è lì.